Non è un paese per poveri

di Isaia Sales /
15 Febbraio 2024 /

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L’Italia non è un Paese per poveri (e neanche per precari). I dati forniti dal nostro giornale dimostrano che siamo in una vera e propria emergenza nazionale, che non risparmia le aree ricche, anche se riveste una particolare incidenza al Sud. Negli ultimi anni il tema si è caricato di una specie di rancore politico da parte della destra al governo verso coloro che provano a parlarne.

Sta di fatto che l’unico strumento specifico per farvi fronte (il Reddito di cittadinanza) è durato appena tre anni e mezzo. Non c’è nessuna altra misura, con una platea di beneficiari così vasta, che sia durata così poco tempo nella legislazione italiana.

In verità, il tema della povertà non ha mai rivestito nella storia politica il ruolo di questione sociale da affrontare con politiche pubbliche e non solo con comportamenti privati dettati dal buon cuore o dai precetti della propria fede religiosa.

Ancora oggi è questo l’atteggiamento che influenza la classe dirigente del Paese: la povertà è una dimensione privata della vita, che ha a che fare con la sfera delle possibilità soggettive e non con quella delle responsabilità collettive. I poveri saranno i primi in cielo e nei discorsi di circostanza, ma non sono mai stati i primi sul terreno dell’agire politico nella nazione-guida del cattolicesimo.

Certo, l’Italia ha un suo Stato sociale in cui investe una parte considerevole delle risorse. Ma, facendo il confronto con i sistemi di protezione sociale degli altri Paesi europei, appare evidente come quello italiano applichi una tutela per determinate condizioni di vita (chi ha già un lavoro o lo perde); per determinati periodi (quando si matura l’età pensionabile o quando muore un coniuge e se ne eredita la pensione); per chi ha subito un incidente o una grave malattia e non è più abile a “faticare” (pensione di invalidità); per chi ha raggiunto un’età in cui non può più mantenersi da solo anche se non ha accumulato contributi previdenziali sufficienti (pensione sociale), trascurando tutto il resto, in particolare il sostegno alle famiglie numerose, ai percettori di redditi precari, alla maternità, agli studi universitari per i meno abbienti, al caro-affitti, solo per fare qualche esempio di misure adottate in altre nazioni europee.

Che idea della società c’era e c’è dietro queste scelte? Principalmente questa: la povertà è determinata dall’assenza del lavoro; basta creare lavoro per affrancarsi dalla miseria. Nel frattempo, ci si affida alla generosità dei vicini e dei parenti per superare i momenti difficili.

Lo Stato sociale italiano, in questo modo, si è trovato impreparato ai grandi cambiamenti prodottisi nel tempo, che possiamo così sintetizzare: il lavoro non scandisce più la vita dell’intero corpo sociale, e anche un lavoro fisso non tutela più dai bisogni elementari.

Sono intervenuti, infatti, due fattori determinanti: la precarietà dell’occupazione e la sua bassa remuneratività. Insomma, la povertà in Italia ci parla sia dell’assenza di lavoro sia del lavoro precario e mal retribuito e delle pensioni sociali non adeguate al costo della vita.

Questi cambiamenti non sono stati percepiti in tempo dagli attori politici eredi della tradizione cattolica e laburista, né tanto meno dai nuovi attori che spinti dal berlusconismo prospettavano una nuova età dell’oro dell’economia italiana. Anzi, via via cominciava a consolidarsi una certa diffidenza verso la povertà. Non ci si credeva. Ma come, esistono ancora i poveri in questa nuova età dell’oro?

Berlusconi misurava le condizioni della società dagli ambienti che frequentava: se c’erano molte persone ai ristoranti la sera, voleva dire che si esagerava nel parlare di miseria! Anche il mito dell’uomo che si era fatto ricchissimo grazie al suo talento accresceva il convincimento che l’indigenza era una scelta personale più che un esito sociale. E che si è poveri perché “soggettivamente difettosi”.

La sinistra in quel periodo storico era ossessionata dal non apparire “assistenzialista”, intimidita dalle contestazioni del ruolo dello Stato portato avanti dalla Lega che teorizzava che ogni intervento pubblico fosse uno spreco. E così anche a sinistra si è prodotta una diffidenza verso le politiche pubbliche con un innamoramento dello “Stato minimo” in economia e del valore taumaturgico del mercato, in grado da solo di aggiustare gli squilibri che esso stesso creava.

Oggi alla diffidenza sta subentrando l’indifferenza della destra ex missina al governo, un tempo autodefinitasi “destra sociale” per distinguersi proprio dalla destra liberista e antistatalista.

Questa indifferenza è alimentata negli ultimi mesi da una singolare motivazione: se non sono scoppiati incidenti a seguito dell’abolizione del Reddito di cittadinanza ciò vuol dire che chi lo percepiva ne può fare a meno, altrimenti ci sarebbero state sommosse nelle aree interessate, a partire da quelle meridionali. Ma la mortificazione del bisogno, come è evidente, non crea di per sé uniformità di comportamenti.

C’è chi si rassegna e si adatta, chi reagisce con un permanente rancore sociale che lo porta a inveire contro il mondo e a isolarsi da esso, e chi consolida in sé il convincimento che il riscatto possa avvenire solo aggirando la legge e addentrandosi nei circuiti illegali. Adattarsi al peggio e adagiarvisi è più facile che ribellarsi in determinate condizioni di sofferenza sociale.

In conclusione, ci troviamo nella fase dell’indifferenza di governo alla povertà mentre abbiamo toccato la punta più alta di incidenza del fenomeno nella società italiana, come mai si era verificato nella nostra storia.

Se 1,9 milioni di famiglie in condizione di povertà assoluta sembrano poche, se 5,6 milioni di individui coinvolti lasciano indifferenti al punto da decidere di abolire il sussidio aumentando la disperazione, se 1 milione e 400 mila bambini in povertà assoluta sono ininfluenti sul decisore politico, vuol dire che con la destra sociale al governo si è arrivati a una (non) considerazione dei bisogni elementari delle persone che deve preoccupare al pari del revanchismo missino e delle sgangherate riforme istituzionali.

Questo articolo è stato pubblicato su Repubblica il 7 febbraio 2024

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