Bilancio (provvisorio) di un anno di governo Meloni

di Corrado Oddi /
8 Dicembre 2023 /

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E’ passato poco più di un anno da quando si è insediato il governo Meloni e, quindi, risulta più che possibile costruire un giudizio sulle politiche concrete messe in atto e non semplicemente su quello che si poteva presumere.

Ragionando in grande sintesi, possiamo partire dalla politica economica, per evidenziare come essa si colloca nel solco classico del neoliberismo e del primato del mercato.

Lo si può leggere chiaramente nella recente legge di bilancio che si muove secondo direttrici che provano a sostenere la competitività delle imprese (sia pure con risultati scarsi, visto che la stessa Confindustria da ultimo sottolinea che la crescita si sta fermando), comprimere la spesa sociale, a partire dalla sanità e dalle pensioni, privatizzare reti e aziende “pubbliche” importanti, ignorare la necessità della conversione ecologica, limitare la corsa del debito pubblico.

Conferma di ciò arriva dal pronunciamento delle agenzie di rating, nei giorni scorsi Moody’s, che, con grande sollievo del governo, non peggiora il giudizio precedente, anzi, migliora quello sulle previsioni future, passandolo da negativo a stabile. Interessante è la motivazione espressa, e cioè che il governo è impegnato a mantenere avanzi primari (appunto tagliando la spesa corrente) e che i costi della previdenza tracciano una linea discendente da qui al 2040.
Un’altra motivazione, anche se non esplicitata, è che i grandi santuari del capitalismo mondiale, di cui anche Moody’s fa parte, sembrano scommettere sulla tenuta dei governi di destra. E, naturalmente a sostenerla, proseguendo la linea espressa dalla grande banca statunitense JP Morgan già dieci anni fa, quando proclamava che gli Stati del Sud dell’Europa dovevano liberarsi da Costituzioni troppo influenzate da uno spirito antifascista.

Per quanto riguarda la politica estera, siamo pienamente all’interno di un’impostazione filoatlantica, la cui agenda continua ad essere decisa dagli USA e che, oggi, purtroppo, con le vicende dell’Ucraina e del Medio Oriente, ha assunto una curvatura decisamente bellicista, cui il governo Meloni contribuisce attivamente.

Politica economica e politica estera si configurano sostanzialmente in continuità con i governi precedenti, in particolare con quello Draghi, rispetto al quale, su questi terreni, si fa fatica a scorgere differenze. Del resto, anche grazie al predominio del mercato e della finanza, da una parte, e agli orientamenti supini alle logiche di austerità vigenti in Europa, una volta chiusa la parentesi delle scelte compiute nella fase pandemica, dall’altra, continua a funzionare il “pilota automatico” di draghiana memoria nelle politiche economiche e nella collocazione internazionale.

Assistiamo, invece, ad una rottura con il passato da parte del governo Meloni, su due terreni decisivi.

Il primo è quello delle politiche sociali e della sicurezza, su cui insistono diritti sociali e civili fondamentali.
Qui, per stare su alcuni punti essenziali, sono andati in onda l’abolizione del reddito di cittadinanza e l’affossamento del salario minimo; e poi la legislazione in materia di migranti e il recente “pacchetto sicurezza” che interviene su una serie di reati “ minori” ma diffusi nella vita quotidiana, dai borseggi all’accattonaggio, e su comportamenti che hanno a che fare con la mobilitazione sociale, dai blocchi stradali all’occupazione delle case.

Si potrebbe osservare che siamo in presenza del classico riflesso “law and order” che accomuna tutto il pensiero e le scelte delle destre nel mondo: ragionamento giusto, ma, che nella sua ovvietà, rischia di mettere in secondo piano quello che è il lato più oscuro e inquietante di quest’impostazione, e cioè l’idea di colpevolizzare e far percepire come socialmente inaccettabili le condizioni delle parti più deboli e fragili della popolazione.
Insomma, bisogna avere presente che ci sono nemici che minano alla base la convivenza ordinata nella società: le fasce marginali e la devianza sociale che commettono reati e hanno comportamenti minacciosi contro le persone e la proprietà, i migranti che “naturalmente” delinquono, i disoccupati che non si rassegnano ad accettare lavori poveri, ma pretendono assistenza. Il tutto assecondato e ammantato da una cultura che si nutre di idee antiegualitarie, che si alimentano di razzismo e ideologia patriarcale.

Il secondo terreno su cui si compie una svolta forte da parte del governo è quello degli assetti e degli equilibri di potere tra diversi soggetti costituzionalmente riconosciuti e negli stessi poteri statuali.
Qui andiamo dall’attacco al diritto di sciopero esercitato in occasione dell’ultima mobilitazione generale, che non si è voluto neanche riconoscere come tale, all’occupazione dei media, a partire dalla RAI e dai messaggi lanciati, in modo più o meno palese, in particolare alla stampa, che deve sapere che il diritto di critica non può essere esercitato così facilmente. Fino alla messa in discussione del ruolo della magistratura, perseguendo chi non si allinea con le leggi esistenti, e agitando, in prospettiva, la separazione delle carriere tra i Pm che svolgono le indagini e giudici che emettono sentenze, con l’idea che i primi possano sostanzialmente rispondere al potere esecutivo.
Ancora più grave, se possibile, è l’intenzione di rompere gli attuali assetti istituzionali e la forma di governo: qui basta richiamare il progetto dell’autonomia differenziata, che non può che produrre ulteriori disuguaglianze territoriali, in particolare tra Nord e Sud, e l’annunciata riforma costituzionale per l’elezione diretta del premier, che riesce a mettere insieme depotenziamento del ruolo del Parlamento, marginalizzazione della funzione del Presidente della repubblica e supremazia del Capo del Governo, per quanto debolmente legittimato da una legge elettorale che, vista in controluce, non si misura con una reale rappresentanza del corpo elettorale.

Insomma, non ci vuole molto a concludere che emerge un’idea di modello sociale e di poteri statuali assolutamente coerente e pericolosa.
Una società che non esiste ma è solo composta da singoli individui, secondo l’indimenticata lezione della Thatcher, nella quale ciascuno è sottoposto unicamente e in solitudine a confrontarsi con l’imperativo del mercato, che è profondamente divisa e slabbrata, incattivita in una lotta di tutti contro tutti e “unificata” solo nell’identificazione con il Capo. Qui sta il vero stravolgimento della Costituzione e anche un solido legame con le destre estremistiche che vediamo agire in Europa e nel resto del mondo, da Trump a Bolsonaro e, da ultimo in questi giorni, a Milei in Argentina, che porta alle conseguenze più radicali l’incrocio tra primato del mercato e volontà repressiva nei confronti della società.

Ci sono debolezze non di poco conto in questo progetto, dalla sua fattibilità sul piano economico al problema del consenso sociale, ma certamente queste non saranno sufficienti a metterlo in discussione. Serve un disvelamento di quest’approccio e l’acquisizione di una consapevolezza diffusa di questa prospettiva regressiva. Occorre dire con forza che siamo in presenza nel nostro Paese, e in molte parti nel mondo, di un modello di forte carattere autoritario, che mette in discussione le fondamenta della democrazia sostanziale.

Ancor più serve promuovere una forte mobilitazione sociale e politica per contrastare questa deriva. Per fortuna, le energie per andare in questa direzione ci sono, come dimostrano da ultimo le riuscite manifestazioni del 7 ottobre de  “La Via Maestra” – la coalizione composta dalla CGIL e da numerose associazioni e realtà sociali, per difendere e attuare la Costituzione e i diritti fondamentali –  lo stesso sciopero generale indetto da CGIL e UIL, così come le grandi manifestazioni messe in campo in questi giorni dal movimento delle donne per contrastare la cultura patriarcale.

E soprattutto che essa poggi su una visione alternativa di società e di modello produttivo che ne consegue. Senza rimettere al centro l’idea dell’uguaglianza e della solidarietà sociale, capace di disegnare anche un sistema produttivo che fuoriesca dal dominio del mercato, della finanza e dell’austerità, che metta al centro la cura anziché il profitto, risulterà ben difficile sconfiggere l’autoritarismo e la spinta antidemocratica che la nuova destra del Paese e nel mondo sta provando ad imporre.
Si illude chi pensa che basti qualche aggiustamento e qualche riforma del capitalismo a farlo, proprio nel momento in cui quest’ultimo, venute meno le “magnifiche sorti e progressive” della finanza e della globalizzazione, si deve misurare con la perdita di consenso e tende a separarsi dalla democrazia. Solo un cambiamento radicale può reggere la sfida ed evitare i gravi rischi regressivi che stanno di fronte a noi.

Questo articolo è stato pubblicato su Periscopio il 4 dicembre 2023

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