Immaginate un universo concentrazionario che contempli insieme, contemporaneamente e contestualmente un antimilitarismo sottopelle: letteralmente, è il caso di dirlo, dato che sotto il vestito niente, per i performers impegnati nell’estenuante gioco di ruoli e di salti spazio temporali che Andrea Adriatico agisce entro una millimetrica ricostruzione spaziale come sempre debitrice delle sue competenze scenografico- architettoniche ed avrete servita su un piatto molto caldo, una rivisitazione brillante di un testo desueto e semisconosciuto del drammaturgo puer aeternus Koltes.
Stiamo parlando delle Amarezze, uno spettacolo divertissement al nero di seppia, (come se Copi avesse invaso la santa madre Russia), che, senza modificare un rigo delle parole di Koltes, Adriatico ha tratto da un di lui lavoro giovanile e sperimentale, datato 1970: ovvero quando l’autore bello e ventiduenne, tanto per citare in tema, si esercitava a scomporre episodi biografici dallo sfortunato contesto familiare del grande e controverso scrittore russo Peskov, meglio conosciuto come Gorkij, ovvero, L’Amaro, per l’appunto.
Da qui, il gioco di rimandi e incastri forse non semplicissimo da cogliere, considerando anche la oggettiva ricchezza, complessità e paradossalità della biografia di Gorkij, ma che rende estremamente chiaro l’esprit du temps, quei favolosi anni là, impregnati di antiautoritarismo e antimilitarismo, come si diceva.
A buon intenditor, si potrebbe aggiungere, perché evidenti sono i nessi con quanto sta attualmente avvenendo….dissolta la santa madre Russia cosi come la Russia dei Soviet, forse era già chiaro quando Koltes si esercitava da cucciolo per poi fermarsi e fare un vero esordio con tutti i crismi un bel totale più tardi, come un nocciolo duro di violenza familiare quasi ancestrale, quasi tribale, persino dai contesti più vagheggiati utopicamente, ci avrebbe portato soltanto a catastrofi sempre più ravvicinate, in definitiva provocate da uno spirito colonizzatore che tutti ci pervade.
In scena, in questa sorta di campo da gioco cupo e coatto si fronteggiano due potenze patriarcali e matriarcali quali Marco Cavicchioli e Olga Durano, alternativamente capostipiti e vittime di una dinastia bastarda e miserevole che incarnano con misurata adesione carica, tuttavia, di pietas nei confronti di un destino da teatrino delle crudeltà. Intorno la compagnia, letteralmente militaresca, si attira, respinge, tormenta e seduce, secondo logiche coreutiche da musical dell’era dell’Acquario
Andrea Adriatico, che segue funambolicamente come spesso gli accade, diversi progetti alla volta, pur dichiarandosi stanchissimo, accetta di fare due chiacchiere con noi
Dopo tante gloriose messe in scena da Koltes, memorabile quella dal celebre romanzo Fuga dalla città a cavallo, come mai questo ritorno in questo momento? Qualcuno potrebbe osservare, come mai la stranezza di voler riprendere un testo minore è così poco conosciuto?
Io la rivendico come una scelta di libertà, che è poi la sola istanza che con il mio modo di essere e il mio trentennale lavoro cerco di esprimere con forza e a tutto campo. Non mi interessa necessariamente piacere a tutti, ma comunicare correttamente questa mia postura, si. E libertà per me significa anche questo : scegliere e non quanto ci si aspetta da me o quanto sia ritenuto convenzionalmente al passo coi tempi. A parte che mi piace ciclicamente tornare sugli autori del cuore e Koltes indubitabilmente è uno di questi ho trovato tra gli impacci e le acerbità di una produzione giovanile, tutta la forza dirompente di una denuncia. Il sistema dei ruoli e delle relazioni come forma di violenza mi pareva interessante in un momento storico come questo da riproporre in questa chiave qua. Ovvero la violenza come una specie di abito che ti viene imposto…, gli attori sono nudi, inermi in scena all’inizio, poi devono impostarsi in questo movimento ossessivo di attraversamenti di coppia di piccoli gruppi che interagiscono a spot, a momenti in questa forma episodica e frammentata e coercitiva. C’è coercizione per lo spettatore, obbligato a stare dove viene collocato dai kapò che lo ricevono, coercizione per i performers che devono fare un lavoro molto fisico è faticoso recitando battute mentre il corpo è sottoposto ad ogni tipo di tensione. Evidentemente desideravo comunicare questa cosa che la guerra, per esempio, si impone quasi come destino. Ci permea e sovrasta senza che l’abbiamo veramente consapevolmente scelta o riconosciuta ed è questa la sua forza : imporsi, in altri termini.
Per far questo come hai lavorato?
Anzitutto rispettando il testo di Koltes, ancorché testo giovanile, che è presente integralmente e inserendo qualche squarcio dai suoi scritti sul teatro in cui ritroviamo il lirismo alto per il quale il nostro è conosciuto. Mi sembrava doveroso agire questa macchina del tempo come una serie di tableau vivants un po’ didascalicamente dimostrativi pur nel loro ermetismo e dunque in qualche modo sottratti alla dimensione cronologica come realisticamente identificativa. Guerre e oppressioni sembrano e sono quasi perpetue e in qualche modo non sanabili se pensiamo all’attualità. Certo che si allude alle prigioni a cielo aperto dell’oggi come Gaza perché è necessario prendere posizione.
Eppure si respira una certa leggerezza in questo spettacolo: almeno io L ho avvertita perché mi ha dato appunto l’idea di entrare in un happening anni 60/ 70, pur nella geometria architettonica dell’insieme che era naturalmente molto ben costruita …
Credo che questo sia avvenuto perché si avverte la radicalità di quell’epoca e di tutte le questioni non risolte ancora sul piatto, radicalità che di estrinseca anche nel fatto linguistico: sono pur sempre versi questi di Koltes rimbalzati tra gli attori che, come avrai visto, fanno un grande gioco di squadra corale… Questo spettacolo sfugge alla dominanza del minimalismo quotidiano monologante e ci riporta alla ambigua significanza di un corpo collettivo. C’è bisogno di grande affiatamento tra gli attori, di un mettersi tutti allo stesso livello e lo fanno da posture ed esperienze diverse con grande generosità.
Puoi dirci qualcosa in più di come hai lavorato con gli attori?
Per prima cosa li ho riuniti mesi fa in campagna nella mia casa in Umbria e li ho messi a contatto con il copione e tra loro. Lasciami dire un paio di cose : che il piano intergenerazionale che tiene insieme problemi e stilemi dell’oggi è di ieri e appunto plasticamente rappresentato da Olga e Marco, che vengono da quella storia insieme tutto il tempo con grande umiltà in campo con i ragazzi d’oggi. E questo effetto di grande compattezza di resa e intensità pur nelle differenze che sottolinea ancora di più L immanenza dei contenuti, funziona così bene perché è parte integrante di come funzionano le cose qui a Teatri di Vita. Qui dove ci poniamo il tema di innovare. Gran parte di questi ragazzi che vedi in scena sono ossatura della nostra struttura che si rinnova. Da tempo io ho deciso che voglio esserci e finché ho progetti ci sarò sempre perché, tutto sommato, anche se mi dichiaro stanco, lavorare è la cosa che mi piace di più fare. Nello stesso tempo a parte che voglio prendermi i miei tempi e i miei spazi, non voglio avere più cariche ed essere figura ingombrante nella gestione teatrale. Ad un certo punto il famoso largo ai giovani diventa una necessità fisiologica, L unica condizione possibile di continuità nel cambio di passo. Io non ho più cariche all’interno della cooperativa e riguardo al lavoro di compagnia mi muovo da sempre così con alcune figure seniores che tornano ciclicamente come Patrizia Bernardi, Eva Robin’s per esempio ed altri molto più giovani e scelti ad hoc. Tutto lo staff anche all’organizzazione e all’accoglienza è completamente rinnovato. E a me va bene così. Sedimentare ma anche scompigliare. Importante divertirsi, nel senso proprio di divergere dal senso comune, darsi spazio, agio e respiro. Fuori dai circoletti e dalle mode. E questi sono i lussi che mi prendo: non avere padroni e fare sempre quello che voglio. Di questi tempi non è poco. Mi premiano? -come ormai per inciso sempre più di frequente accade-, sono contento certo perché il duro lavoro alla fine premia, ma non continuo certo per collezionismo di fama e fortune. Diversificare i miei progetti mi piace sempre tantissimo: questo significa anche avere tante dislocazioni. Amo questa città, ma ci sto anche relativamente poco e non mi piace farmi vedere in giro come sai. Mi piacciono i miei progetti di ristrutturazioni, mi piace sempre il cinema. Adesso sono reduce da una settimana intensiva a Roma per il festival del cinema. Questo ultimo docu su Tondelli, un altro grande amore, un classico pop e sai quanto questa postura mi piaccia e mi rispecchi, che ho bisogno di rivisitare ogni tanto, per esempio è costruito attraverso le sue opere, lette e raccontate da esperti e compagni di strada in quanto mosaici da una biografia breve ma densa. Ha auto una grande accoglienza e non so quante interviste ho dovuto rilasciare … adesso sarà a Visioni italiane qui a Bologna
A proposito di spirito pop, tornando a questo lavoro, come hai lavorato sulla musica che è anch’essa una componente importante è un pastiche linguistico di per se? Io ho pensato anche a certe atmosfere complessivamente alla Frank Zappa…
Mi fa sorridere e mi fa piacere questa tua visionarietà … acustica ma devi sapere che in realtà la colonna sonora dello spettacolo è costituita da un po’ di musica barocca e da un unico pezzo di Coetz tanto per stare sull’oggi, campionato in tante maniere diverse … come vedi ibridare è una delle mie poche costanti. Però nella mia irrequietudine poi alla fine un repertorio d’affezione ce l’ho è così come abbiamo ripreso il form x y z, un vero spettacolo tra slam e stand up per i miei giovani attori che si presenta come talk politico ma in realtà è una dissertazione su retoriche e artifici, riprenderemo anche Eve che avrà in scena le mie star abituali e che ha girato in tournée tantissimo.
Per concludere: ti senti di dare una valutazione pessimista sui tempi e la Cultura che esprimono o tutto sommato rimani ottimista nel profondo?
Ritengo il momento pienamente critico a tutti i livelli … davvero una fase di equilibrio precario sull’abisso e la pochezza del discorso pubblico, la scarsissima libertà di pensiero che ci concediamo mi spaventano. Siamo dentro tecnologie pericolose, ( n.d.r.: nello spettacolo se ne vede una parodia mimesi molto efficace), ma credo che questa voglia di andare avanti e di esprimere opinione