Il terzo governo Sánchez e il nuovo rapporto con la Catalogna

di Giacomo Comincini /
23 Novembre 2023 /

Condividi su

Il 9 novembre il Partito Socialista Operaio Spagnolo (PSOE) e Uniti per la Catalogna (Junts) hanno spianato la strada per la nascita del terzo governo Sánchez. Il partito indipendentista catalano, infatti, era considerato l’attore decisivo per determinare il destino della legislatura sorta dalle elezioni del luglio scorso, in cui né il blocco conservatore né la maggioranza uscente avevano ottenuto seggi a sufficienza per governare per conto proprio.

Tale via libera ha preso la forma di un accordo firmato dalle due formazioni politiche. Esso costituisce una novità dirompente per la storia del conflitto tra Catalogna e Spagna e, di conseguenza, un elemento meritevole di un’analisi che tenga conto del contesto storico in cui il patto è sorto.

Oltre a Junts, il PSOE si è dovuto assicurare il voto favorevole dei partiti che già lo avevano sostenuto nei tre anni precedenti: Sumar, la coalizione di sinistra guidata da Yolanda Díaz, e diverse formazioni periferiche: il Blocco Nazionalista Galiziano, Paese Basco Unito (EH Bildu) e Sinistra Repubblicana di Catalogna (ERC), per quanto riguarda le organizzazioni progressiste; invece, tra le forze più moderate, Partito Nazionalista Basco (PNV), Coalizione Canaria (CC) e, appunto, Junts. I seggi che questa alleanza di governo mette insieme sono 179, appena tre in più della maggioranza assoluta. Il Partito Popolare (PP) e la sua scissione di destra radicale, Vox, sono invece fermi a quota 171.

Un’aritmetica parlamentare così complessa non è più sorprendente ormai da qualche anno. Il sistema elettorale spagnolo nacque infatti con l’auspicio di facilitare un bipartitismo di fatto, con PSOE e PP egemonizzando l’offerta politica per i rispettivi blocchi elettorali, col contorno di partiti regionali leali al mainstream politico e disposti a collaborare con la maggioranza di turno, un po’ come la SVP in Italia. Tuttavia, l’irruzione di Podemos e Ciudadanos nel 2015, e di Vox nel 2018, ha completamente rotto il duopolio PSOE-PP, indebolendo i partiti tradizionali, riducendone il margine di manovra e soprattutto costringendoli ad esercitarsi nella ginnastica delle coalizioni.

In questa situazione di atomizzazione parlamentare, il PSOE è il partito della centralità per eccellenza. Nelle legislature dal 2015 ad oggi, se ne tenga conto, i Socialisti hanno partecipato ad accordi di governabilità o di massima rilevanza politica con tutti gli attori: con i regionalisti e con la sinistra (2018, 2019, 2023), con Ciudadanos (2016, 2020) e persino col PP (2016, 2017). Dirsi di sinistra, federalisti, europeisti e leali alla Costituzione al contempo – a prescindere che sia vero o meno – permette una compatibilità teorica con tutte le formazioni politiche, meno Vox. Forte dei suoi legami col mondo economico, mediatico e burocratico, il Partito Socialista continua a fungere da perno del sistema politico spagnolo. Il PP, che – con le sue credenziali di forza di riferimento degli ambienti giudiziari, militari, finanziari e borbonici – ambirebbe ad una simile posizione, è bloccato nelle sue aspirazioni dall’impossibilità di legarsi agli altri blocchi politici con la stessa disinvoltura del PSOE, visto che qualsiasi accordo coi demonizzati partiti regionali (i distruttori della sacrosanta unità nazionale!) comporterebbe una perdita di consensi a pieno beneficio della destra radicale. Tanto è vero che, quando Vox ancora non esisteva e l’intero mondo conservatore si riconosceva nel PP, questo poté scendere a patti col nazionalismo catalano e basco (1996) senza problemi.

In fin dei conti, dal 2014 in poi, il problema dei partiti ex-monopolisti, PP e PSOE, è stato ed è il terrore di essere superati e sostituiti. Il PSOE ha evitato il rischio di sorpasso da parte della sinistra radicale assicurandosi che gli elementi “conservatori” e di sistema (Yolanda Díaz e il suo circolo di apparatcik) prevalessero sulle forze di rottura e trasformazione (Podemos). La coalizione Sumar, ammaestrata e allineata al sistema di potere del PSOE, non rappresenta alcuna minaccia per il Partito Socialista e fungerà da utile portavoti ad una coalizione di governo che eseguirà il volere di Pedro Sánchez. Il PP, invece, non ha ancora saputo mettere Vox al guinzaglio e ne teme l’exploit, sebbene alle elezioni del 2023 la destra radicale abbia registrato un insuccesso notevole. Questa paura strutturale e che conosce poche rassicurazioni spiega come Núñez Feijóo, il leader dei Popolari, non possa più dire che la Galizia è una nazione, un’ovvietà che tuttavia urterebbe e ferirebbe le sensibilità degli elettori della destra spagnola.

Il discorso di criminalizzazione dei movimenti e dei sentimenti nazionali periferici, che nel campo conservatore giunge a un’esasperazione isterica, non è stato un’esclusiva della destra. L’ambiguità del PSOE è tale da aver saputo ospitare nel proprio seno le più acute punte di nazionalismo anticatalano e antibasco, pur proclamandosi partito di sensibilità federali e, in paio di occasioni, pure plurinazionali. Ma, in ogni caso, la responsabilità di essere partito di sistema ha imposto ai Socialisti posture da cane da guardia sulle questioni della violenza armata basca e sulla disobbedienza civile catalana. La retorica che descrive l’indipendentismo come latore di “rotture della convivenza” e di “distorsioni dello stato di diritto” è stata in questi anni l’ultimo vero trait d’union tra PP e PSOE.

L’accordo PSOE-Junts rompe definitivamente questa retorica e impone un cambio di narrazione circa la crisi territoriale dello Stato spagnolo. Si parte dalle definizioni: non più “sfida alla legalità” e “minaccia alla concordia”, ma “conflitto storico sul futuro politico della Catalogna”. Il testo del documento politico ospita una lunga parte di contestualizzazione storica, che perlopiù dice l’ovvio: che la Catalogna è una nazione inglobata nello Stato spagnolo, privata delle sue libere istituzioni nel 1714 e da allora soggetta ad una persecuzione attiva, cui la società catalana ha risposto resistendo e reclamando l’ampliamento delle proprie condizioni di autonomia (1914, 1932, 1980, 2006); che la cancellazione della riforma statutaria del 2006 ha generato un’enorme disaffezione dei catalani verso lo Stato, che le istituzioni hanno provato a canalizzare legittimamente coinvolgendo la cittadinanza in processi partecipativi di autodeterminazione (2014 e 2017), vedendosi opporre indifferenza o repressione a seconda dei casi; e che nel futuro occorrerà affrontare queste sfide con strumenti politici, lasciando da parte la giudiziarizzazione intrapresa sinora.

Nessuna di queste constatazioni può generare sorpresa, data la notorietà che il problema territoriale spagnolo ha acquisito sul piano internazionale; la vera novità è che, per la prima volta, il Partito Socialista – il partito di Stato per definizione – assuma questi fatti come veri, dopo aver passato gli ultimi tre decenni a minimizzarli o a combatterli.

L’accordo include l’impegno ad avanzare, nel corso della legislatura, nelle formulazioni di proposte politiche su cui il popolo catalano si possa esprimere. La proposta di Junts è nota: referendum di autodeterminazione, tramite l’articolo 92 della Costituzione. Il PSOE ne prende atto: anche questo, dopo decenni di strali e di rifiuti anche soltanto ad affrontare il tema, è storico. Junts promette di dare stabilità alla legislatura se e solo se i Socialisti manterranno la parola data sulla protezione delle lingue nazionali periferiche (catalano, basco e galiziano) in sede europea, sul riconoscimento della Catalogna come nazione e dell’autogoverno come perimetro insufficiente per le domande della società catalana. Ma, soprattutto, l’accordo prevede l’amnistia per tutte le personalità, dirigenti e semplici militanti, che siano state coinvolte in processi legati al processo di autodeterminazione catalano, dal 2012 ad oggi. Non stupirà sapere che anche questa misura è stata osteggiata con tutte le forze dal PSOE per anni, negandone la fattibilità e la costituzionalità veementemente, finché non è stato semplicemente costretto ad accettarla, riconoscendone l’inevitabilità. L’amnistia, che riguarderà qualche migliaio di persone, permetterà evidentemente agli esuli catalani all’estero, come il leader di Junts, Carles Puigdemont, di fare rientro in sicurezza nel territorio dello Stato.

Non c’è dubbio che il Partito Socialista abbia accettato tutte queste misure per disperazione, temendo un ritorno alle urne che avrebbe spazzato via le chances di rielezione di Pedro Sánchez. Non si tratta di conversioni improvvise o di pentimenti di massa. La sostanza dell’accordo è che il partito di Stato abbia dovuto rinunciare alla propria retorica di opposizione al blocco periferico e si sia trovato costretto ad abbracciarne un’altra. Il PSOE di oggi, volente o meno, riconoscere la legittimità delle domande indipendentiste, le loro origini storiche e persino il dovere di correggere le storture che condussero, dal 2017 in poi, alla repressione giudiziaria del movimento repubblicano catalano.

Questo cambio di posizione naturalmente indigna la destra nazionalista, guidata da elementi quali José María Aznar o Esperanza Aguirre, che si sono fatti promotori di manifestazioni di piazza e assalti violenti alle sedi socialiste, ma mette in agitazione anche le associazioni conservatrici nell’esercito e nella magistratura. Il Consiglio Generale del Potere Giudiziario, organo di autogoverno della magistratura decaduto da ormai più di cinque anni, ha bollato come incostituzionale l’amnistia prima ancora che ne esistesse un testo, mentre la governatrice di Madrid ha parlato di “ingresso della Spagna in una dittatura” e si sono moltiplicati in ambienti militari gli appelli pubblici ad un colpo di stato o all’eliminazione fisica di Pedro Sánchez.

Insomma, l’accordo PSOE-Junts mette in crisi i consensi costituzionali del 1978, mettendo in evidenza come diversi segmenti dello Stato non rispondano all’ordine democratico e antepongano l’unità nazionale all’osservanza della divisione dei poteri. L’unica risistemazione possibile per lo Stato spagnolo passa per un’ovvia potatura di queste branche degenerate della macchina pubblica attraverso un processo costituente. Non tramite una revisione costituzionale stricto sensu, soprattutto sapendo quanto la carta magna spagnola sia blindata perché funga da camicia di forza ineluttabile, ma, come suggeriva ad agosto Iñigo Urkullu, il lehendakari del governo basco, reinterpretando la costituzione materiale: avanzando cioè verso la ridefinizione della Spagna come “un’unione volontaria” e “dall’orizzonte confederale” attraverso le azioni concrete e sostanziali messe a disposizione della maggioranza parlamentare e del governo, legittimati dall’investitura democratica proveniente dalle urne.

La legislatura prende le mosse in un’atmosfera di smottamento del sistema politico, messo in crisi dai suoi medesimi limiti strutturali e dalla definitiva irruzione dei partiti regionali nell’equazione della governabilità. Al PSOE toccherà fare da chiave di volta del regime politico uscente tanto di quello entrante?

*Giacomo Comincini è coordinatore dell’associazione internazionale Foreign Friends of Caltalonia

Immagine di copertina, Ministry of the Presidency. Government of Spain (Attribution o Attribution), da Wikimedia Commons

Aiutaci a diffondere il giornalismo libero e indipendente.

Articoli correlati