Perché gli infortuni sul lavoro non calano come dovrebbero?

di ;Maurizio Mazzetti /
12 Novembre 2023 /

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Senza qui riprendere una più dettagliata analisi sulla numerosità degli infortuni, anche nel problematico ma indispensabile confronto con numero di occupati/ore lavorate (per il quale si rinvia a precedenti articoli), è evidente che nonostante tutti gli strumenti messi in campo, o comunque disponibili, la situazione complessiva non è soddisfacente e ormai da tempo sostanzialmente stabile; ed per di più assistiamo ad uno scoraggiante ripetersi di infortuni mortali o gravi con le medesime cause e circostanze.

Ma allora, cos’è che non funziona, perché i risultati non sono quelli attesi?  Ci possono essere tante risposte, magari tutte vere, perché il fenomeno ha molte cause, e non è detto che, come scriveva Pareto, ad un piccolo numero di cause corrisponda sempre un elevato numero di effetti. Ma riepiloghiamo, a mo’ di riassunto di tutti i precedenti articoli gli strumenti disponibili. Abbiamo in primo luogo tutti quelli in qualche modo obbligatori, assistiti da una qualche sanzione giuridica:

  1. Un dettagliato apparato di norme giuridiche specifiche, di cui massima espressione è il TU 81/2008 ma che rinveniamo già nel Codice civile del 1942 all’articolo 2087, (organizzative, in materia di responsabilità, compiti, doveri) e tecniche, obbligatorie, con relative sanzioni dirette in caso di violazione (amministrative, penali, civili), sulla gestione “normale” della sicurezza sul lavoro. Ad esse si aggiungono quelle pure obbligatorie sulla gestione delle emergenze (antincendio, sanitarie, da elementi naturali quali terremoti, inondazioni, frane, ecc.)
  2. Corollario, o parte di questo sistema normativo, gli obblighi relativi a formazione ed addestramento, loro ripetizione/aggiornamento, qualificazione ed autorizzazione dei soggetti formatori e di tutti gli attori della sicurezza sul lavoro.
  3. Parimenti esistono norme (ad esempio, la Direttiva Macchine europea) che impongono precisi requisiti di sicurezza a macchine, impianti, prodotti, a pena di impossibile commercializzazione/utilizzo, con eventuale sottoposizione a procedure autorizzative e verifiche preventive e periodiche.
  4. Ovviamente, a garanzia del rispetto di tale apparato normativo opera una vigilanza tecnica affidata ad una pluralità di soggetti (Servizi di medicina del lavoro o di verifiche impiantistiche delle ASL, ispettori tecnici dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, tecnici INAIL ex ISPESL, Funzionari di vigilanza della Autorità Portuali o ministeriali per le Miniere, Vigili del Fuoco, Capitanerie di Porto per il lavoro marittimo, Forze dell’Ordine per quel che riguarda la sicurezza stradale = lavoro sulle vie di comunicazione, strade in primo luogo).
  5. In Italia l’assicurazione obbligatoria INAIL funziona attraverso un bonus malus e sistemi di incentivi/disincentivi economici volti a rendere economicamente più conveniente prevenzione e sicurezza (con meno infortuni e malattie professionali, minori premi da pagare, e ulteriori sconti di premi per interventi migliorativi non obbligatori). Sono previsti poi connessi recuperi degli indennizzi presso i responsabili “colpevoli” (azioni di regresso ex art. 10 TU 1124/65 verso i datori di lavoro inadempienti, o si surroga ex 1916 Codice civile verso terzi estranei al rapporto di lavoro). Sempre sotto il profilo puramente economico, la Legge 231/01 sulla responsabilità amministrativa degli enti prevede poi sanzioni pecuniarie per tutta una serie di comportamenti illeciti, tra cui anche quelli su prevenzione e sicurezza sul lavoro, con una responsabilità parallela e distinta da quella delle persone fisiche operanti per i detti enti.
  6. Il SINP – Sistema Informativo Nazionale della Prevenzione – offre una grande messe sia di dati elementari, sia di elaborazioni funzionali allo studio del fenomeno infortunistico e tecnopatico, studio che è (o dovrebbe essere …) il presupposto per ogni intervento. Soffre di alcune limitazioni tutt’altro che trascurabili (rinvio ai precedenti articoli), legate al fatto che la maggior parte dei dati è di fonte INAIL; quindi, con raccolta ed elaborazione che rispondono logiche assicurative e non prevenzionali; inoltre, l’incrocio con altre banche dati (INPS, ad esempio) sconta difficoltà non solo tecniche.
  7. La stessa INAIL, in collaborazione con Università e soggetti privati (grandi aziende, associazioni datoriali e simili) svolge un’attività di ricerca pubblica sul miglioramento su strumenti e sistemi di prevenzione, igiene e sicurezza sul lavoro.

In maniera diciamo spontanea, e con adozione volontaria anche se talvolta presa in considerazione dalla normativa come scelte meritevoli di qualche beneficio (finanziario o di esenzione/riduzione delle responsabilità) esiste poi tutta una serie di strumenti volontari, di complessità e articolazione assai variabili, che operano sia sugli aspetti organizzativi, sia su quelli comportamentali: MOG – Modelli di Organizzazione e Gestione – , SGSL – Sistemi di Gestione della Sicurezza sul Lavoro – certificati o non certificati, Linee guida, Buone prassi, , Focus group e metodi di sicurezza partecipata, metodiche BBS (Behaviour Based Safety, sicurezza basata su comportamenti), ed altri che qui ometto, una esposizione anche minimamente dettagliata richiederebbe un volume, anzi forse una collana. Ad essi si accompagnano metodiche anche sofisticate per lo studio analitico di cause e circostanze degli infortuni (ad esempio, codifiche europee ESAW3, sistemi Bow Tie, Alberi degli errori), come pure sistemi di valutazione e correzione/mitigazione per i rischi origine delle malattie professionali (metodiche NIOSH e OCCRA, banca dati MALPROF). La diffusione di tali sistemi non è rilevata/rilevabile, tranne che per gli SGSL certificati, ed una valutazione della loro maggior efficacia rispetto a chi non li adotta nella stragrande maggioranza dei casi impossibile. Ove abbiamo qualche dato, ad esempio per le aziende che adottano SGSL certificati, emerge che gli indici di frequenza e di gravità sono inferiori a quelli di analoghe aziende non certificate; ma si tratta di qualche decina di migliaia di imprese, normalmente di medie o grandi dimensioni, su una platea di milioni in Italia.

Infine, il progresso tecnologico ha automatizzato molte operazioni, rende disponibili DPI o sistemi di protezione collettiva sempre più efficaci (ove usati correttamente, quando non volutamente disabilitati, come in qualche caso di cronaca, perché blocchi e protezioni automatiche attraverso sensori e fotocellule rallentavano la produzione). Ha eliminato dalla produzione tutta una serie di sostanze nocive (ad esempio amianto, zolfo, certi tipi di colle e vernici), ridotto/eliminato/mitigato tutta una serie di rischi fisici, chimici e biologici (rumore, vibrazioni, polveri, vapori); certe lavorazioni più nocive sono magari state “esternalizzate” all’estero dai processi di delocalizzazione produttiva in paesi dove i costi di produzione (e gli oneri per sicurezza e tutela ambientale, magari …) sono minori. Per contro, peraltro, molti dei medesimi fattori aumentano i rischi cosiddetti psicosociali: stress lavoro correlato nelle sue varie forme, flessibilità esasperata, digital divide, competizione, precarietà, isolamento, autosfruttamento e desocializzazione nello smart working o in tutti il lavoro della cosiddetta GIG economy, dai riders ai corrieri, difficoltà linguistiche e culturali di interazione con lavoratrici e lavoratori stranieri.

Tutto ciò premesso, è evidente che non esiste un’unica risposta alla domanda fatta all’inizio, “Perché gli infortuni non calano quanto dovrebbero?”; e forse, sempre omaggiando Pareto, non è facile individuare poche cause originanti i molti effetti. Possiamo cominciare a dire che ciascuno degli strumenti disponibili esposti prima presenta difetti o difficoltà d’uso:

La normativa è complessa e onerosa da attuare, mancano o sono arrivati tardi molti decreti attuativi; le modifiche, quando ci sono state, non sono mai state frutto di un disegno organico, ma episodiche, magari prese sotto il clamore mediatico di qualche evento particolarmente grave (si pensi, come esempio, agli ambienti confinati).  Sicuramente la normativa è poi già obsoleta per quel che riguarda i rischi psicosociali di cui sopra (in Italia, ci si limita a parlare del più ristretto stress lavoro correlato), ma anche rispetto alla nuova struttura del mercato del lavoro. Ad esempio, i lavoratori della cd. GIG economy, siano essi rider, corrieri, analisti o “estrattori” di dati per qualche gigante del web, miners di criptovalute, consulenti di ogni tipo, addetti ai call center, e via enumerando, di solito operanti in smart working, sono giuridicamente lavoratori autonomi: quindi non sono loro applicabili tutte le tutele normative esistenti, pensate per il lavoro dipendente, e per altre tipologie di rapporto in qualche misura la tutela è applicabile solo “all’interno dell’unità produttiva”. Ma qual è, per costoro, l’unità produttiva?

L’onere è particolarmente pesante per  le aziende piccole e piccolissime che costituiscono la stragrande maggioranza delle imprese italiane, per cui la gestione della sicurezza sul lavoro troppo spesso finisce per ridursi “all’avere le carte a posto”, senza la piena consapevolezza, assai più diffusa nelle aziende di maggiori dimensioni,  che essa non è un corollario della gestione aziendale, ma ne è una parte, e che dovrebbe essere presa in considerazione sin dalla progettazione ed avvio dell’attività. E non basta, da parte dei vari enti esponenziali datoriali e sindacali e dei soggetti pubblici competenti, dire (ed operare, ma non con la dovuta efficacia, visti i risultati) che la cultura della sicurezza va accresciuta e che i costi della non sicurezza sono maggiori degli investimenti per la sicurezza: bisogna che ciò possa essere introiettato, compreso, valorizzato.

Sulla qualità ed efficacia della formazione e dell’addestramento obbligatori, quali disegnati dalla normativa e dal vigente e già scaduto Accorso Stato regioni del 2011, dubbi e perplessità (a latere del fenomeno delle false attestazioni) sono ampie e meritevoli di una trattazione a parte.  Solo qualche spunto: metodologia inadeguata in quanto bastano lezioni frontali, troppa teoria, poco o punto addestramento e solo di recente da registrare, problematica qualificazione dei soggetti formatori, contenuti dubbi, insufficiente valutazione dell’efficacia, sia dell’apprendimento, sia della attuazione pratica sul posto di lavoro, problematica effettività dell’obbligo per tutti i lavori a tempo determinato e/o in somministrazione, esclusione dei lavoratori formalmente autonomi. Un nuovo accordo doveva essere emanato entro il 2021, circolano tuttora delle bozze, a detta di molti addetti ai lavori non soddisfacenti. Qualche voce da‘ l’uscita del nuovo Accordo per la primavera 2024; doveroso quindi attendere e verificare le novità.

Peraltro, il problema della qualificazione dei soggetti erogatori non riguarda solo la formazione, ma tutta la consulenza per la gestione della sicurezza: cito le parole del Presidente dell’AIAS, Associazione Italiana Addetti alla Sicurezza, una delle due grandi associazioni professionali degli operatori del settore (l’altra è l’AIFOS), ing. Santi, pronunciate ad Ambiente e Lavoro nell’ottobre 2023. “Per le aziende la sicurezza è diventata una commodity, come per le famiglie sono, ad esempio, il sale o lo zucchero: si compra, ma non si può verificarne la qualità”.

La vigilanza è efficace a macchia di leopardo, e sconta comunque un crescente depauperamento di risorse dei servizi ispettivi delle ASL o strutture equiparate nelle regioni a statuto speciale. Non bastano i nuovi 800 ispettori tecnici dell’INL neo assunti ad invertire la tendenza, anche perché, si badi, nelle regioni a statuto speciale magari finiscono per essere “prestati” agli organismi specifici ivi previsti dall’autonomia speciale e sostitutivi dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, organismi in evidenti difficoltà o, peggio, operative.

L’assicurazione obbligatoria INAIL è regolata da norme in gran parte irrimediabilmente invecchiate (il TU 1124 è del 1965, le maggiori modifiche risalgono al 2000 …), da rivedere totalmente, e facendole magari virare più fortemente logiche prevenzionali e non solo assicurative (per quanto imprescindibili rimangano queste ultime); lo stesso dicasi per l’intero apparato sanzionatorio.

Il SINP, come abbiamo anticipato, opera anch’esso per logiche assicurative e non prevenzionali: conosciamo numeri e tante altre informazioni su infortuni e malattie professionali, ma mancano gli indici di frequenza e gravità; i costi degli infortuni, quindi della non sicurezza, sono solo stimati, anche se con buona approssimazione. Ma soprattutto, non esiste alcuna rilevazione globale dei costi/investimenti per la sicurezza, siano essi tecnici, consulenziali, organizzativi, formativi, da confrontare con i risultati.

Infine, per quel che riguarda tutti gli strumenti volontari, con la parziale eccezione di SGSL e MOG, considerati oneri e costi, mancano efficaci politiche pubbliche di diffusione/valorizzazione, implementazione, e la bilateralità, anch’essa operante a macchia di leopardo, non può bastare. E sono irrisorie i finanziamenti diretti, ridotti alle poche centinaia di milioni annui (anzi di fatto biennali) dei bandi ISI dell’INAIL e di altri consimili bandi/premi/concorsi, come pure le incentivazioni economiche, anch’esse per lo più ridotte agli sconti sul premio INAIL: ma sarebbe improponibile un credito di imposta per gli investimenti in prevenzione e sicurezza sul lavoro? Ne abbiamo tante, di simili agevolazioni, magari settoriali e non tutte avanzate.

Ma questa ipotesi, che non mi risulta mai seriamente messa sul tappeto, conferma quanto ad esempio afferma l’avvocato Fantini, già dirigente del Ministero del Lavoro ed uno degli estensori del Tu 81/2008, e che mi sento di condividere senza riserve: quel che manca, in Italia, è una politica della prevenzione e sicurezza sul lavoro; peggio, sembra che manchi persino la consapevolezza che serva una simile politica. Solo una tale politica potrebbe affrontare organicamente problemi e carenze sinteticamente enumerati sopra, e con impatti economici e sociali affatto trascurabili. Ma non se ne vede neppure l’ombra; davvero, viene da citare Francesco Guccini, quando, nella sua canzone “Una piccola storia ignobile” del lontano 1976, ad un certo punto dice “E i politici han ben altro a cui pensare”.

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