Quando penso alla fondazione Emilia Romagna Teatro, dunque si sta parlando di programmazioni per tutte le stagioni in 5 città, ovvero Modena in primis, con tanto di sede legale, scuola per attori e finalmente di nuovo due spazi teatrali all’attivo, Bologna, Cesena, Vignola e Castelfranco, di fatto un insieme che costituisce uno dei Teatri nazionali dal 2015, ecco, penso ad un equilibrio da ricercare costantemente che più difficile di così, non si potrebbe, tra molteplici istanze ed esigenze.
Per la verità, i dati statistici, sembrano offrire ampio conforto all’ipotesi che una politica di cartellone d’avanguardia popolare sia possibile: i dati di abbonamenti e sbigliettamenti sulla scorsa( ma in verità tutto continua e mai si chiude in questi cartelloni sterminati), stagione, snocciolati in conferenza stampa a Bologna, sono rimarchevoli quantitativamente rispetto alla media nazionale.
L’incremento bolognese poi e soprattutto a carico delle fasce di pubblico anagraficamente più giovani, è addirittura impressionante. Quali i fattori che determinano questo stato di cose? Naturalmente, come spesso accade, si tratta di fattori estremamente complessi e intersezionali.
Sappiamo già che Bologna, in questo momento, nonostante gli elevati costi della vita e la diffusa gentrificazione, o le crisi aziendali in atto, sia considerata sotto molti aspetti, meta residenziale attrattiva per periodi un po’ di tutti i formati, a seconda delle fasi della vita, delle esigenze e provenienze. Bologna, nonostante le nascite dei residenti, in netto ribasso, cresce tuttavia come popolazione, in controtendenza con altri centri urbani, con una media dell’8 per cento in più di popolazione giovanile rispetto alle altre : un caso di studio?
Ma per collegare un po’ di tutto questo, alle stagioni ERT autunno-inverno, mi consta in un certo senso, partendo dal senso di una piacevolissima conferenza stampa di preview, tenutasi con doveroso anticipo nel bellissimo Chiostro di Arena, quasi un idillico dejeuner su l’herbe urbano, con tanto di presenze volatili insistenti e impreviste a movimentare il tutto, di dire che da queste parti, il fatto di considerare il fattore Cultura, non soltanto un diritto, una questione di critica e consapevolezza, una questione di Bellezza e di fregio, ma anche una filiera produttiva, un biglietto da visita nazionale e internazionale, un volano di promozione turistica di livello e sostenibilità progredite, nonché, last but not least, un fattore educante, siano punti focali di una governance che punta a tenere tante cose insieme. Per esempio, parametri quantitativi e qualitativi, economie di scala, il che significa coinvolgersi in progetti europei, nel discorso del piano nazionale resilenza, naturalmente, nel contesto regionale propriamente di mission, ma anche nei finanziamenti Pon metro, dedicati a 14 aree metropolitane in Italia, tra cui Bologna.
Oplà, noi viviamo, vogliamo vivere di arte e cultura, verrebbe da dire. I risultati sembrano essere più che lusinghieri, confermandosi Bologna come dotta e openminded, se è vero che i successi della scorsa stagione in particolare sembrano premiare l’ibridazione di linguaggi e canoni etici tutti da discutere. Sto pensando naturalmente a due proposte da grandi numeri quale la scommessa produttiva su Lazarus, opera rock e non musical, da Bowie, e all’ultimo urticante lavoro della catalana Angelica Liddell, artista in grado di dividere pubblico e critica ad ogni sua nuova folgorazione. Ma anche alle programmazioni estive di un’Arena diffusa, che ha visto un mix tra talks giornalistici e assoli di qualità in S Francesco, come operazioni di assoluto consolidato successo, per non parlare del festival Fuori, decentratosi infine parecchio che è risultato un grande lavoro artistico e di presa di parola con i più giovani e finanziato appunto con i fondi Pon metro. In altri casi Arena si è posta come centro per chi socialmente si sente decentrato dalle circostanze e stiamo parlando ovviamente Del Capitale, un libro che non abbiamo ancora letto, corale presa di parola del Collettivo di fabbrica GKN insieme ai Kepler452, un gruppo che morde la realtà con empatia e cura per le soggettività di volta in volta coinvolte.
Ma come viene ricordato in conferenza stampa dal direttore artistico Malosti esiste la possibilità di fare prenotazione eppoi effettivi abbonamenti incrociati tra i 5 teatri di Ert e sarebbe doveroso farlo, perché sono cartelloni originali che non vivono di meri scambi tra loro, come una scorsa veloce alle programmazioni tutte sancite da una apposita conferenza stampa in loco, ci conferma. Tutto questo sfuma le domande malandrine su Vie festival, fuggevolmente ricomparso dopo la pandemia a sancire la grande affermazione di Thiago Rodriguez, regista portoghese di impatto, ma di nuovo assente nei cartelloni. Costi elevati, difficoltà in assenza di foresteria agibile, ad ospitare le compagnie in sede, necessità di ripensare la formula, renderla in ogni caso biennale sono tra i giustificativi dichiarati per questa che molti aficionados si vivranno come una sorta di perdita irreparabile, ancorché probabilmente momentanea. Se a Bologna si inaugura con Frankestein, a love story, di Compagnia Motus, allo Storchi di Modena, il talento di Umberto Orsini si mette al servizio di un testo recuperato del grande Testori, nientemeno una biografia di Luchino Visconti. Un sodalizio artistico e intellettuale tra i due che impreziosì la cultura italiana, ma che si interruppe bruscamente e apparentemente inspiegabilmente. C’è da dire che Modena recupera le Nuove Passioni e che tutto il cartellone è un interessante equilibrio tra novità assolute, riprese per merito e successo come Calderon da Pasolini, di Condemi o il ritorno di drammaturghi e registi molto amati come Pascale Rambert, ad esempio. Al Bonci di Cesena vedremo tra le molte altre cose una sorprendente Mariangela Gualtieri, in una versione in trio di Bello mondo, il testo che già folgoro Jovanotti qualche tempo fa, così come verremo ricatturati da Un Pippo Delbono in stato di grazia con il suo Amore e presumibilmente sedotti dal duello tra primedonne di Maria Stuarda per l’interpretazione di Laura Marinoni ed Elisabetta Pozzi. Che poi, il territorio metropolitano non venga abbandonato certo a programmazioni di ripiego, basterebbe citare il fuoco di fila impressionante di cavalli di razza che apre la stagione: Nanni Moretti che debutta nella regia teatrale dirigendo Binasco e Deflorian sui Diari d’amore della Ginzburg, Accabadora da Murgia per la regia di Carlotta Corradi con la strepitosa Anna Della Rosa, la ripresa del Capitale di cui si diceva sopra, proprio in un momento critico della vicenda GKN, o ancora Eva Robin’s, Beatrice Vecchione e Matilde Vigna insieme in un testo che personalmente adoro e che non veniva riproposto da un po’ quale Le Serve di Genet nell’adattamento di Veronica Cruciani. Si comprende bene dunque come questa stagione si presenti come intelligentemente decentrata coerentemente a tutta una filosofia sociale, politica e amministrativa che non ha eguali in Italia in questi territori, ma nello stesso tempo assolutamente compatta e molto poco… liquida se con questo aggettivo ormai si intenda quanto di vago, sfilacciato, sradicato, alieno da tradizioni culturali e rappresentazioni sociali si possa concepire. Se vogliamo esercitarci in un po’ di analisi di segni e linguaggi, dobbiamo ricordare che la scorsa titolazione del percorso di Ert, era una esortazione a volgere il capo verso il nuovo, lo sconosciuto, l’inaspettato forse, che tanto ci tiene in perenne scacco emotivo e in condizione d’emergenza. Per quest’anno, a sancire un bisogno di nuovi radicamenti identitari che al contempo non ci tengano troppo avvinti verso il basso ma aspirino ad un allargamento di respiro e vedute, il titolo è Nuovo Cielo, Nuova Terra. Non uno slogan qualunque, naturalmente, ma un verso shakespeariano, tratto dalla tragedia Antonio e Cleopatra, rarissimamente rappresentata sulle scene, nota per la versione cinematografica ed ora affrontata in quanto produzione Ert, dal suo direttore in persona Valter Malosti insieme ad Anna della Rosa per inizio 2024. Alla vigilia di una nuova conferenza stampa molto attesa in Arena, da parte di Michela Lucenti per il suo progetto Carne che tanti riconoscimenti ufficiali ha già ricevuto e che segna a mio avviso, un punto di svolta importante in quanto summa e sviluppo di tutto un filone di ricerca sul movimento e il gesto politico-poetico, contaminandolo con molteplici tradizioni, con il pensiero queer, i diversi e divergenti abilismi per giungere ad una sorta di distillazione incandescente, mi consta anche di ricordare come si avvicinino altri appuntamenti importanti. Mi sto riferendo al ritorno in versione extended e nuovamente autunnale dell’imperdibile festival Gender Bender e il debutto a Teatri di Vita di un nuovo lavoro da Koltes, le Amarezze, ad opera, è il caso di dirlo, della premiata ditta Casi- Adriatico. Voglio qui tornare ad Arena, con una serie di flashes da conferenza stampa e poi visione di Frankenstein, a love story, ad opera della Compagnia Motus, una prima nazionale, in realtà a quanto pare, primo passo di un complesso progettuale che ha a cuore diversi temi caldi, dallo stigma sociale, all’antispecismo, al diritto riproduttivo per tutte le soggettività che dovrebbe essere coronato da una realizzazione video installativa, dal significativo titolo Frankenstein a history of hate, a tenere insieme due facce della medesima medaglia, cosa che pare cosi difficile a livello mediatico, culturale, di pubblica opinione da farsi in questi tempi, come le recenti cronache di guerra con relativi commentari dimostrano. Del resto, si, come a diretta domanda rispondono, i Motus, questa sorta di collettivo orizzontale a geometria variabile che vede il suo core nel nucleo originario formato dalla coppia Niccolò Casagrande, il loro lavoro è sempre da considerarsi politico. Perché semplicemente dagli albori della tragedia, politico è l’agone teatrale per definizione. L’agorà il luogo dove si discutono le faccende della polis, il luogo in cui si affronta il dibattito sulla gestione etica e giuridica, dei conflitti, delle emergenze, delle divergenze. E soprattutto, la dialettica al calor bianco tra amore e odio, è sostanza incisa nella carne viva di tutta la parabola umana e artistica di questa straordinaria donna che fu Mary Wollonstoncraft Godwin in Shelley, ovvero la visionaria creatrice di Frankenstein, intesa come sorta di tragedia prometeica. In questo senso di linguaggio e visione, vi è una dolente continuità che qui si stempera persino in una materna tenerezza, con gli antecedenti lavori della compagnia dedicati all’immaginario ellenico di ieri, di oggi, forse anticipazioni di un distopico futuro sempre stato presente tra noi. La tenerezza materna anche in questo caso appare filologicamente corretta, non solo come monito e messaggio universalista, comunque lo si declini che il gruppo nonostante la disperata rappresentazione ci consegna, da ricollocarsi forse al posto della paranoia megalomane dell’invenzione e del controllo, ma anche considerando i presupposti di questo romanzo iconico. Come è noto, Mary, figlia di quella Mary Wollonstoncraft paladina dei diritti femminili ante litteram che mori proprio nel darla alla luce e del filosofo liberal Godwin che invece le sopravvisse fino ai 90 anni intrattenendo un complicato rapporto con la sua rampolla più irriducibile veemente carismatica, scrisse, appena diciannovenne, questo capolavoro considerato vertiginosamente fantascientifico e lo scrisse in uno dei numerosi difficilissimi momenti della sua vita. Ovvero quello della morte della sua prima figlia. Come si evince dalla sua avventurosa biografia, ma anche da quella di tante donne intorno a lei, la via della riproduzione sociale è irta di dolore, malattia, morte, vittime sacrificali, quasi appunto tutta la violenza. La bellezza e lo stupore del mondo si condensino in questo dispositivo che, lei già sembra intuire, è anche una costruzione di immaginario e di cultura. Motus rende a mio avviso onore a Mary, traslando nello spettacolo non solo il proprio patrimonio di visioni cyberpunk, l’Anarchia come principio di assoluto, il dispositivo della machinery che è sempre celibe per eccellenza, consegnandoci tre protagonisti in continuità, ma assolutamente prometeicamente in solitaria, l’iconografia di Banksy e del riot, l’indeterminatezza di maschile-femminile, categorie negoziabili, in questo risiede la nostra unica speranza di salvezza di specie, forse sovrapponibili, ma prendendo di peso parole dai diari, dagli appunti della nostra eroina artefice. Un gioco di scatole cinesi, che viene anche sottolineato nel detto microfonato e nello scritto sovraimpresso in cui Mary, l’Autrice, Viktor, lo scienziato positivista in delirio di onnipotenza, la Creatura, che non sa di sé se non ciò che può captare, arguire, imitare funzionalisticamente o che di lei viene detto ci vengono resi come prolungamenti l’uno dell’altra e tutti in cerca di un maternage possibile. La visionarietà è tutta gotica in questo caso e una Natura che per noi è spesso sinonimo di libertà e respiro, viene resa in tutta la sua romantica terribile impostazione di gabbia circoscritta. La Svizzera biografica dell’estensione del romanzo, può essere un posto molto inquietante simile a un centro di accoglienza temporanea, come in realtà forse fu nella biografia errabonda, rocambolesca, precarissima di questi intellettuali spericolati non per caso crossover tra le classi sociali, gli status, i ruoli, le leggi dinastiche e patrimoniali… siamo dalle parti di Cime Tempestose, con pochi rudimentali effetti di velari incellofananti, giochi di luci e soprattutto di suoni e musiche, grazie alla consueta ma mai scontata perizia di Casagrande che aggiunge un tocco di narratività in più a questo comparto e lo fonde benissimo con l’acqua, le maschere, i costumi tra trine e street style. E, a questo proposito, anche un lavoro molto più parlato del solito, in cui il bios, l’autonarrazione, che spettano anche alla creatura cucita dai lavori in pelle, a sancire un nuovo seppur sofferente Umanesimo abbozzato dalla compagnia lasciano un senso di incanto primordiale, un po’ come se principio e fine del mondo si congiungessero. Bene ha fatto Casagrande ad assumersi anche il ruolo di interprete in quanto Creatura: come raccontato in sede di conferenza stampa, a proposito di suture e cuciture, sembra aver introiettato tutto lo stupore e dolore dell’essere al mondo, nonostante anni di assenza dalle scene in quanto attore. Tutta la Pietas della nostra mitica e laica tradizione sta in questa voce. Silvia Calderoni è in qualche modo il perfetto fantasma dello scientista, che noi sentiamo destinato allo scacco in partenza, specie dopo il cult Oppenheimer, Alexia Sarantopoulou, una erratica Mary Shelley, febbrile e dolorosa come si conviene, impotente a ridare la vita alla sua fredda creaturina, capace di concepire l’onnipotenza con la scrittura. Chapeau, perché Motus considerato da sempre legato ad una estetica fatta di immagine e tensione corporea, riesce proprio trattando del sovrumano a restituirci il vibrare della pagina scritta.
Immagine di copertina, Teatro Bonci (Pilù.2008/Flickr)