Avevamo già compreso da tempo come l’intero progetto di riqualificazione del complesso Salara, attingesse ad un’idea complessa e partecipata di quello che possiamo intendere come cultura partecipata e pubblica.
Ed è dunque per sua natura una progettualità di tipo particolare che non si colloca semplicemente nell’atto rigenerativo quanto piuttosto in una dimensione processuale e trasformativa, i cui segni significativi si vedono nel tempo.
Per quello che riguarda Mambo, il museo della città di Bologna, quello che funge da specchio e termometro di contemporaneità, da tempo avevamo potuto verificare la sua progressiva ridefinizione come luogo di sperimentazione di pratiche politiche sull’Arte, la sua fruizione, la sua accessibilità, la sua aderenza anche ad una lettura dei bisogni di cittadinanza che possono prendere anche la forma del Bello.
Nel corso della luminosa, più che illuminata direzione targata Balbi, se nessuna contaminazione di linguaggi e soggettività è stata lasciata al caso, possiamo dire che sicuramente due aspetti della fisionomia del luogo sono stati grandemente rafforzati: il pieno stare nel discorso pubblico e nei suoi temi caldi, una vocazione pedagogica forte che agisce la relazione, la connessione con i più giovani, a partire dall’infanzia, dismettendo l’indottrinamento. Perché, se arte contemporanea ha da essere, deve essere fatta e vissuta, non semplicemente mostrata o spiegata, dai contemporanei.
Per questo Mambo da un pezzo ha smesso di sembrarci lo spazio algido dove si esibisce la voglia di stupire fine a se stessa, come spesso tutto ciò che è Arty, viene recepito dal comune mortale in cerca di significati, deprivato com’è dal Gran banale Quotidiano in cui si ritrova a vivere, di bussole di Senso.
Ma dobbiamo chiederci a questo punto che tipo di sfida rappresenti per quelle realtà che esprimono un humus di sottoculture urbane fortemente caratterizzate dall’impulso attivistico, essere ospitate? accolte? Nell’Istituzione, per quanto deistituzionalizzata essa sia e quale plus possa definire per la comunità il loro traslarsi in quanto opere dalla dimensione muraria, street art a quella appunto museale.
Martedì 3 ottobre si è tenuta nell’auditorium di Mambo, la conferenza stampa di presentazione di questa che la Crew a geometria variabile nelle sue componenti di Cheap, definisce infestazione, diffusione virale, senza l’accezione però vagamente minacciosa che l’espressione ha assunto in tempi recentissimi, di opere, creazioni che si pongono di fatto come installazioni e, quando vissute con l’interazione col pubblico si appresteranno ad essere, par di capire, più simili ad arti performative.
Questo perché, quando ci sono donne di mezzo tutto può assumere contorni alchemico-trasformativi.
Si tratta a tutti gli effetti, di una collettanea di interventi e azioni che Cheap ha messo in atto negli ultimi anni, dai posters a molto altro, che si è poi inaugurata giovedì 5 ottobre con un lungo opening gratuito e di cui si potrà fruire poi correntemente negli orari abituali del museo fino al 17 dicembre.
Il titolo conferito al tutto, perché, come vedremo a breve, il pacchetto comprende anche talks di approfondimento ed una importante presentazione, è Sabotate con grazia. Allusione forse ad un sottrarsi alle logiche di establishment, attuato con le armi della consapevolezza artistica e del rifiuto delle dinamiche classiche di rimpallo nelle quali si rappresenta il conflitto. In effetti essere interstiziali, carsiche, intersezionali e internazionaliste, cogliendo il meglio di una lunga storia femminile e decoloniale di radicalità. Il fatto è che comunque, ci troviamo di fronte a curatrici, artiste, organizzatrici, dunque pienamente titolate a stare anche dentro questa dimensione, dove a ben vedere, avrebbero potuto volendo, stare da sempre, se come sappiamo, persino opere di street writers si possono staccare dal muro, esporre e persino vendere.
Interessante a questo riguardo, la domanda rivolta da un titolare di bookshops museali importanti, presente in sala sulla commerciabilità dei lavori in esposizione o loro riproducibilità per la vendita minuta e oggettistica. Scontato il diniego, per chi abbia seguito anche solo da lontano la storia di Cheap. Ma vediamo di fare un piccolo riepilogo: Cheap nasce dieci anni fa, dunque va nel novero di questi compleanni d’eccellenza a cifra tonda che cadono in città, dalla volontà congiunta di sei competenze femminili che decidono da subito di non prendere troppo sul serio la loro natura di nucleo compatto sulle urgenze ma diversificato nelle sensibilità, di smitizzare la funzione palingenetica che si tende ad attribuire a tutte le forme d’arte sperimentali, di allargarsi e restringersi a seconda delle occorrenze ed evenienze. Cheap, con intenzione, perché attratte dal mutamento, in controtendenza con la permanenza e durevolezza che si è soliti attribuire a tutto ciò che sedimentando aspiri ad una classicità. Per cui, ci si inventa si un festival artistico che dialoga con alcune delle più importanti kermesse europee a riguardo quali Documenta e Manifesta, ma lo si fonda sui presupposti di impiego di materiali effimeri, riciclabili, sostituibili, accessibili dunque a 360 gradi e soprattutto visionabili universalisticamente nelle strade dei nostri quartieri perché fruibili in quanto affissioni apparentemente affini ad altri claims cui siamo avvezzi in modalità narcotica. Il festival esplode in tutta la sua forza comunicativa, proprio spezzando lo schema dell’assuefazione al bla bla bla. Io che mi occupo di storia dei sistemi di welfare locali, mi chiedo se possa lontanamente esistere un apparentamento, seppure con tutte le cautele di posizionamento del caso, i distinguo e le ovvie diversità di stagione politica ed anche linguistica con gli advertising pubblici che segnarono marcatamente, la fase storica delle grandi riforme e della riorganizzazione sociale locale, dovendo rammentare sempre che non esistevano in forma di tecnologie pret a porter, codici comunicativi che potessero connettere con un semplice click il cittadino all’istituzione. Qui, se ci pensiamo bene, i posters targati Cheap riesco a imporsi per una sorta di imperiosa assertività pur iscritta nella radicalità estrema della critica, della negazione senza appello dei modelli e superano le mille barriere della nostra quotidiana disattenzione anzitutto perché sono belli e pieni di fantasia costituente.
Lo si nota moltissimo ora che vivono in parte e per un poco dentro ad uno dei sacrari dell’arte, che queste opere sono veramente belle e piene di domande, se, per l’appunto il nostro sarà uno stato di grazia mentre le visitiamo.
Serve dunque rammentare che se si decise in coerenza con l’adesione ai mutamenti, di abbandonare la forma festival, in favore di una specie di laboratorio permanente che consenta di ricombinarsi e riassestarsi, di decidere di linkarsi, meticciarsi, contaminarsi con altre situazioni, come può essere stato in estate, per esempio, la seconda edizione del Festival Fuori, non è mai andato perduto l’approccio della call for artists, che consente di avere un campo molto largo di esperienze internazionali, le migliori nel campo della grafica, dello stencil, delle tecniche miste, del fumetto etc..Questa collezione presente al Mambo disegna in effetti una estrema varietà ed in buona sostanza è un po’ come assistere ad un defilé nel senso che cambiano gli umori, le temperature, le situazioni e gli stati d’animo a seconda delle condizioni materiali configurate. La breve incursione che ho potuto fare io a latere della press conf serve giusto per dare un assaggio, un’idea a voi lettori, perché poi non si può spoilerare troppo sugli interventi presenti in due stanze che Flavia Tommasini, nota curatrice e organizzatrice molto rock legata all’esperienza di TPO, portavoce insieme a Sara Manfredi di tutto il gruppo in questa sede, definisce come oscuri oggetti del desiderio, ovvero le “stanze di Guttuso” e di “Cattelan”. Come dire che nulla può veramente intimidire o imbarazzare queste sabotatrici per costituzione. Ci saranno sorprese, pare, piccoli doni per i visitatori, ci viene detto, in ossequio ad uno spirito performativo e partecipato, soprattutto orizzontale, come ci tengono a sottolineare: nulla di algido, nulla di inarrivabile, nulla di estremo nel senso dell’altezza: siamo in un mondo ad altezza di sguardo, volutamente alla portata percettiva di tutti. Il mondo dell’arte è già abbastanza riconducibile ad ego ipertrofici e in questo caso è la società che deve esprimersi e promuovere le idee più fluide, decoloniali, destrutturanti, che si è stati capaci di produrre in quanto corpo collettivo. Imperdibili, le piccole parentesi di installazioni neon, la sezione della campagna La Notte è fica, che a ridosso del lockdown celebrava la libertà di movimento delle Donne, i bagni del Mambo ricoperti completamente di materiale dorato, in stile faraonico, in realtà effetto ottenuto con un materiale che non ti aspetti e non vi rivelerò, che ha in sé una ben dolorosa e attualissima provenienza, ricordandoci le stragi migratorie. Dieci anni cominciano ad essere un tempo congruo per i bilanci ed infatti si avrà anche un public program di tre incontri. Il 21 ottobre verrà presentato il nuovo libro delle Cheap girls, Disobbedite con Generosità, edito da People, naturalmente ispirato ad un iconico poster delle nostre. saranno in dialogo con Maysa Moroni photo editor di Internazionale. Il 16 novembre avremo invece Vanni Attili e Silvia Calderoni, giusto a breve in debutto con la nuovissima produzione targata Motus, che converseranno a partire dal libro -esperienza Civitonia che esce per i tipi di Nero edizioni. Il 14 dicembre, chiusura ideale del cerchio con la presentazione di un Manifesto sull’arte pubblica, che ci consentirà più concettualmente di entrare in tema, manifesto realizzato da Cheap insieme alla docente e critica d’arte Fabiola Naldi. Insomma, esercitate sempre il vostro diritto di critica, ma non autosabotatevi dimenticandovi di questa guerrilla art in scena a Mambo, museo della Città.