L’importanza di definirsi luogo: tre esempi plurali e diversi per lo spettacolo dal vivo

21 Settembre 2023 /

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Scampoli d’estate, giornate brevi e dorate, timori, minacce, emergenze di ogni tipo sullo sfondo, contraddittori segnali di risveglio di coscienze e consapevolezze. In tutto questo, la riflessione culturale arranca, la politica fa il suo gioco, nuovi incasellamenti nel grande gioco di ruolo che la società sembra diventata, assegnano parti e posizioni scomode alle sempre più vaste categorie deboli, o rappresentate come tali. Il che in buona sostanza, diviene la stessa risultanza. Donne, giovani, migranti, come bersagli mobili da colpire in tutti i modi metaforici e non possibili e immaginabili, oppure consegnati alla raffigurazione dolente, rassegnata, depressiva, fino all’autoeliminazione dalla scena.

Gli artisti in qualche modo, in questa partita per la sopravvivenza, consci o no che siano del valore universale del loro testimoniare, sono chiamati, specialmente se performativi, a grandi responsabilità ormai effettivamente politiche. Ai loro corpi, gesti, immagini, lo si evince ogni giorno nella nostra bulimica città, ormai dentro qualunque festival, rassegna, evento cinematografico, viene affidato l’ardire, come qualcuna autorevole lo ha definito, di un pensiero per quanto non ancora articolato chiaramente, di cambiamento. Un anelito trasformativo che non appartiene da tempo ai decisori politici, ben decisi a conservare sé stessi e i propri posizionamenti, tal volta ormai rendite, interpretando a puntino la parte assegnata nel loro schieramento, senza intenzione di mettersi in discussione e cominciare il processo evolutivo necessario da se stessi. Tutto ciò è molto evidente nella relazione di spazi, paesaggi e luoghi di attraversamento che gli artisti instaurano e che in qualche misura è addirittura rivoluzionaria di per sé. Biologia e tecnologia disgiunte per una volta, così come gli spazi, disgiunti dal loro funzionalismo spesso ossimoricamente decadente, da una logorante idea di efficienza e messa a regime, rivelano nella sorpresa e nello spaesamento una carica suggestiva e simbolica davvero potente.

In questo discorso è molto difficile scegliere di cosa raccontare ai pochi o tanti lettori, specialmente in un momento dell’anno come questo, in cui, non esaurite ancora le programmazioni estive, con resoconti e bilanci ancora in sospeso sui festival più importanti appena chiusi o correnti, già i nuovi cartelloni che si annunciano, sovrapposizioni continue sono all’ordine del giorno. Sovrapposizioni che però talvolta consentono di vedere discorsi comuni e parentele laddove sembrava, magari per via di linguaggi differenti, impossibile identificarne.

 In questi tempi si parla tanto di rigenerazione urbana, di fondi PNNR con finalità urbanistiche, ma poco ci si interroga appunto sulla riscrittura artistica dei luoghi, il contenuto civile e la ragione storica, quasi come se ogni volta ci mettessimo per innovare a dover disfare la vecchia tela di Penelope.

C’è qualcuno che non ci sta e in mezzo a diversi tentativi di animare uno dei parchi più ammalianti di Bologna, quale quello di Villa Spada, scelgo di parlarvi della rassegna Feminologica a cura di associazione Youkali, associazione culturale a vocazione teatrale e civile, condotta con piglio e determinazione da Simona Sagone. Una teatrante a tutto tondo che da subito ha intrapreso la difficile strada di partire dalle relazioni di prossimità, di quartiere, dal genius loci del luogo e nel contempo non ha smesso di informarsi, aggiornarsi, evolvere in una direzione pedagogica del suo lavoro e che non disdegna pertanto di allenare la propria vocazione su piattaforme radiofoniche e digitali.

La raggiungo, quando Feminologica la rassegna che terminerà il 15 di settembre è già iniziata da qualche tempo e in serata verrà ospitata una vera e propria chicca. Una mise en espace di un testo mai prodotto finora, scritto da Grazia Verasani, una scrittrice rock e molto complessa che sa indagare come poche l’eterna dialettica tra femminile e maschile, raggiungendo spesso vette di malinconica pietas per questo conflitto che lascia tanti caduti sul campo.

Il lavoro si intitola Vuoto d’Aria e se ne fanno interpreti puntuali e misurati Francesca Fuiano e Marco Cavicchioli, artisti che vorremmo vedere più spesso in giro dalle nostre parti, nei nostri luoghi del cuore, che siano teatri veri e propri o teatri naturali en plein air, come questo di cui raccontiamo.

Sagone introdurrà la serata, intervistando in pratica Verasani, prima dell’esibizione, su questioni di genere e linguaggio, sempre spinose nell’epoca del politically correct: rappresentare la verità brutale della solitudine e del desiderio, o edulcorare in nome dell’appropriatezza, in poche parole’

Vedi – mi dice subito Sagone, con la veemenza e la passione che la contraddistinguono, tracciando con me una storia di geografie e percorsi di memoria ormai estesa – abbiamo raccolto una sfida accettando di costruire la rassegna anche questa volta, perché oggettivamente è scomodo arrampicarsi fin qui con il cantiere aperto. Infatti, si stanno facendo lavori di stabilizzazione presso ex Museo Tappezzeria e di riconsolidamento stradale, post alluvionale. Non possiamo fare neppure attività di bar in questa situazione e dunque bisogna crederci. Credere nei contenuti che proponi e nella tenacia di un pubblico che sceglie nonostante la quantità impressionante di festival in giro. Un pubblico che magari è cresciuto con noi, a partire dai bisogni della comunità, un tema che mi interessa molto sviluppare in senso largo, aperto, non circoscritto.

Noi, infatti, insieme con i cittadini del Quartiere ed altre associazioni ci crediamo dal 2013, partendo dalla constatazione che il Monumento alle Donne partigiane e l’area antistante andassero valorizzate, non solo per il 25 Aprile. Molto di più si potrebbe lavorare in questo parco per creare vere connessioni culturali anche con la preziosa Biblioteca Tassinari Clo che proprio qui accanto ha sede. Noi organizziamo da diversi anni una ulteriore festa celebrativa l’8 di maggio. Ma è sempre troppo poco.

Siamo stati un po’ discontinui all’inizio per via dei finanziamenti e di entrare nel loro meccanismo. Noi abbiamo iniziato con un bando di riqualificazione territoriale eppoi stabilmente dal 2019, con bandi regionali legati anche alla memoria storica, molto conseguente con le premesse iniziali e con le molteplici attività che porto avanti con Youcali, la mia associazione, evocativa sin dal nome, di una comunità della felicità possibile. Lavoriamo tantissimo in modalità laboratoriale nelle scuole. Prevenzione della violenza di genere, valorizzazione del talento femminile sono gli assi portanti del mio operare. Del resto, interconnessi fra loro.

Ci terrei tanto anche a scambi internazionali e alla proposizione di nuove drammaturgie scritte da Donne.

Ma non ho un teatro io e i Teatri non sono ancora a regime in città nel senso di una massima apertura e di allargarsi ad una funzione di scouting e di trasformazione in fucine-laboratorio, in tutti i momenti in cui non si fa cartellone.

Personalmente tengo molto ai laboratori e sono presenti anche in questa rassegna insieme ai talks che precedono gli spettacoli. Prima più sporadici, oggi una vera costante. Credo che realtà nate dal basso come la mia, debbano necessariamente fondarsi sulla pratica oggi anche così discussa dei bandi. Ce ne sono di diversi e questi regionali e dell’uno per mille che pratica Youcali, siano tutto sommato seri perché guardano alle ricadute in termini di coesione sociale delle nostre attività culturali e performative. Al di là di tutto quel che si può dire, io penso che, se una realtà riceve soldi pubblici, in qualche modo sia non solo normale ma anche corretto che ne renda conto alla cittadinanza non solo in termini di trasparenza, ma anche di interesse collettivo. Mi sta bene perché a me viene naturale fare un lavoro civile. Se vuoi la Feminologica è tutto il sapere sulle Donne, la loro storia e la loro condizione che, non ancora ufficializzato, preme per essere raccontato e diffuso. In linea generale tutto il nostro settore dovrebbe più mettersi in rete e concepirsi come comparto del mondo del Lavoro, portare avanti manifesti e piattaforme. Si era cominciato a ragionare così in tempi pandemici, ma le rapide riaperture a grandi eventi hanno ricreato condizioni molto diverse nel settore e tutta l’elaborazione solidaristica iniziale si è un po’ persa per strada.

Io cerco sempre qualità e competenza per quel che posso fare, svincolate dalle tendenze del momento e ci tengo a poter ospitare anche da fuori e a poter pagare tutti equamente. Per questo, nonostante la mia programmazione sia inserita nel cartellone di questa calda e lunga estate bolognese, qui si paga comunque un biglietto. Se guardi, siamo partite con una eccellenza come Malfitano in una sua rilettura della figura tragica di Ecuba, per narrare poi la resistenza delle donne afghane e contemporaneamente omaggiare una grande attrice, drammaturga e internazionalista quale Franca Rame, spesso appiattita sulla presuntamente naturale e del tutto immotivata subalternità alla genialità del marito, ma, si sa, i cliché sono duri a morire, se si fa fatica a metterla in scena anche oggi.

L’8 affrontiamo il tema scottante del Lavoro e del riconoscimento delle competenze femminili. Si parlerà di Donne e sofferti percorsi di riconoscimento.

In scena sarò io e la mia compagnia a mettere in scena l’adattamento da un libro magnifico quale il filo della Speranza. Avremo Anna Salfi, Presidente della Fondazione Altobelli a discutere sui diritti inderogabili delle Donne lavoratrici.

Il tredici e il quindici di settembre due appuntamenti molto particolari cui tengo tantissimo. Nel primo caso affronteremo il grande tema del rapporto tra le Donne e l’accessibilità alle professioni scientifiche, giusto a fagiolo con lo slancio tecnico scientifico rinnovato che sta vivendo la città e l’annuncio da parte della nota virologa Capua del suo stabilirsi a Bologna dopo gli anni americani. In questo caso il composito collettivo modenese Squilibri ci condurrà dopo il talk con la ricercatrice Viviana Casasola, nel complesso, disperatamente lucido mondo della poetessa Sylvia Plath.

Si chiude con un vero e proprio evento-celebrazione che coniuga, genere, internazionalismo e vocazione storica. Parleremo infatti delle madri e delle nonne di Plaza de Mayo alla ricerca di una difficile e tragica verità, chiudendo idealmente dunque il cerchio iniziato con Ecuba. Ci fara da guida in una storia contemporanea ancora tutta da elaborare Cinzia Venturoli, assai nota per il suo indefesso lavoro divulgativo e didattico pedagogico sulla strage del due agosto. Sarò di scena io insieme ad un tanguero vero come Patricio Lolli che poi ballerà in coppia con Veronica Lorenzoni sulle note della fisarmonica di Salvatore Panu. Come dirlo? Una autentica garanzia

In qualche modo, nonostante la tematica, una festa inno alla resilienza femminile che mi pare sia un auspicio per le stagioni a venire. Mi congedo da Sagone su queste parole di consolazione per una situazione forse un tantino spartana per via dei percorsi obbligati e dell’assenza di punti ristoro ed è già sera :

dal tramonto in avanti mi rendo conto del particolare genius loci che anima uno dei parchi più belli di Bologna. Di fatto siamo in un bosco fatato, in una sorta di piccola arena naturale, ma non fatichiamo a immergerci con qualche sedia in fila, nell’universo claustrofobico di una sala d’attesa aeroportuale. Effettivamente le arti performative possono reinterpretare praticamente qualsiasi tipologia di spazio interno ed esterno.

Me ne renderò sempre più conto con le prossime situazioni di cui vado a riferirvi.

Settembre, ad esempio, per ognuno di noi può significare tante cose legate alla transizione, ai periodi di passaggio, ai nuovi nostri mostri comuni o obiettivi comuni, ma certamente dal mio punto di vista, significa festival di Danza Urbana, quello che precede tante ulteriori manifestazioni, che si raccorda con tante altre iniziative a cascata. Un festival iniziato tanti anni fa come evento di nicchia e ad alto tasso di volontarismo e sperimentazione, ad opera di un collettivo studentesco di poco più di una decina di membri che potevano sembrare malati di esotismo o velleitari nella loro determinazione iniziale a seguire, proporre e legittimare le culture di strada ed oggi una realtà consolidata e solidale a livello nazionale, europeo, internazionale.

Purtroppo, quando presumibilmente leggerete queste righe, il festival sarà appena finito, ma posso assicurarvi almeno, quanto le sue risultanze anche quantitative si siano fatte nel tempo sempre più lusinghiere, tanto che non ci si nasconde la grande soddisfazione per i risultati ottenuti dalle parti della Direzione. Il fatto è che Danza Urbana, oltreché una piacevole consuetudine è anche una sorta di rituale collettivo entro il quale ciascuno può rintracciare un suo personale codice motivazionale d’accesso. Un festival che si nutre di mutamenti, di ondeggiamenti, di fluidità ambientale, quando la società che ci circonda viceversa sembra irrigidita in un classismo senza precedenti nel dopoguerra. Il fatto è che nei nostri risicati spazi, tra pubblico e privato, come scopriremo in conversazione con Massimo Carosi in effetti si fa politica anche senza rendersene conto. Silvia Rampelli, premio Ubu recentissimo per la danza ha appena concluso lungo il fiume Reno al tramonto questa edizione e noi facciamo due chiacchiere appunto con il direttore artistico Carosi.

L’edizione 2023 di Danza Urbana è la numero 120 e passa. Una cifra importante che segna una certa età, in qualche modo, un numero quantitativo che obbliga a valutazioni qualitative non da poco. Mi sono chiesta, ora che tutto è un po’ urban style, come voi del nucleo originario, affrontiate questa nuova situazione in cui l’effetto pionieristico si affievolisce ed esistono diverse rassegne emule sia in italia che all’estero. Se sentiate la pressione a dovervi inventare costantemente qualcosa di nuovo o vi riteniate una realtà affermata e stabilizzata con un pubblico ormai fidelizzato, non più da inseguire e costruire, quindi casomai da rassicurare nelle sue convinzioni.

Sono in effetti valutazioni complesse, che ad un certo punto non puoi più fare sull’onda del tuo slancio e della buona volontà. La realtà cambia e tu devi cambiare con lei. Eravamo molto giovani quando abbiamo cominciato. Una decina di volontari che voleva innovare, svecchiare, cambiare, che voleva uscire dall’aura accademica, o ascetico-intellettuale di certa danza sia classica che contemporanea. Ad oggi siamo un nucleo piccolissimo di tre persone, che ci siamo costruite un percorso lavorativo a partire dalla nostra creatura ma che tutt’ora non viviamo esclusivamente di questo. Di quelli che eravamo agli esordi molti hanno abbandonato il settore, molti hanno scelto di vivere all’estero perché è molto duro il mestiere di organizzatore e curatore culturale dalle nostre sponde. Si, è vero che esiste un pubblico cresciuto con noi di curiosi, studiosi, appassionati che accorre ogni anno, ma per fortuna è anche vero che noi coltiviamo futuro e che abbiamo allargato questa sorta di zoccolo duro. In fondo questo anche volevamo insieme a molte altre cose: allargare la base del pubblico della Danza, rendere la danza o, meglio, evidenziarne gli aspetti popolari nel senso migliore del termine : un linguaggio forte che si prestava a narrare la contemporaneità aggredendola li dove si manifesta talvolta con durezza, ovvero nelle strade delle nostre città.

Naturalmente in principio non avevamo tanta consapevolezza, mentre ora ci appare chiarissima la valenza politica di questo continuo rompere e ricreare equilibri e, anzi, la rivendichiamo con forza. Non ci preoccupa avere la certificazione doc. Anzi, il fatto che sia diventato concepibile e di più, diffuso, l’utilizzo ambientale e di contesto nelle arti performative ci segnala casomai che l’intuizione fosse azzeccata e ci stimola al meglio. Ti dirò di più, che sappiamo ci siano realtà più radicali e avanzate della nostra, per tante ragioni strutturali che se vuoi posso accennarti, ma questo ci fa solo piacere e casomai alza l’asticella delle nostre ambizioni. Non è una competizione verso l’esterno, ma una condizione sfidante per noi, che ci spinge a fare tanto. Ad esempio, a seguito del covid, l’università mi aveva chiesto di tenere un corso sull’espressione corporea nei nostri habitat che si prestasse ad essere fruibile in diverse modalità. Ebbene è diventata anche questa una realtà consolidata in cui io risulto professore associato sul sito di Unibo. Però, io lo faccio a titolo gratuito. Questo se vuoi è un paradosso tutto italiano, ma io non me la sentivo di abbandonare i ragazzi ed una missione così stimolante e necessaria appunto rispetto alle cose che mi stai chiedendo. Poi durante i periodi di preparazione intensiva del festival ci sono persone che mettiamo regolarmente a contratto, con modalità di part time, tempo determinato. Infine, nei giorni del festival ci sono anche i volontari.

Più in generale alla competizione preferiamo un discorso di rete. Siamo associati alla rete regionale per la danza, collaboriamo con Ater, cerchiamo di condividere progettualità, piattaforme come danza XL, Dancescapes, con altre realtà nazionali ed estere. Prendiamo l’associazione romagnola Cantieri: abbiamo artisti in comune con la loro rassegna ravennate Ammutinamenti, in pratica siamo in staffetta ideale con loro…con una giornata di sovrapposizione. Importante cercare alleanze e punti di vista che possano reciprocamente arricchirsi.

Mi sembra che la caratteristica principe di quest’anno sia l’estrema varietà dei luoghi e mi chiedevo se sia un po’ decaduto il discorso urbano in senso stretto o quanto stiate cercando di dribblare una certa retorica narrazione delle periferie. Del resto, non penso che la sindemia e la conseguente accelerazione di ripresa non abbiano lasciato tracce profonde proprio nel vostro campo d’azione. La città che abbiamo innanzi oggi è oggetto di rapide trasformazioni nel senso della gentrificazione. Lo spazio realmente agibile si restringe in favore della celebrazione food… immagino sia complicato persino ottenere i permessi per effettuare le performances. Di fatto l’area più centrale della città sembra sempre meno abitata eppure è sempre sovraffollata ad ogni ora della giornata. I fruitori o city users mutano a seconda delle fasce orarie e questa dev’essere una bella sfida da affrontare in senso artistico e organizzativo.

Infatti ormai noi ci pensiamo come operatori e creatori nel paesaggio. L’ambigua prossimità tra Natura e opera dell’uomo, in tutto evidenziata dalla pandemia, ci interessa infatti moltissimo. specialmente in questi nostri territori non abbiamo più una netta distinzione tra aree di archeologia industriale, luoghi di scorrimento, aree agricole o di immagazzinaggio, periferie abitate, piccole aree incolte… non sappiamo più esattamente dove comincia e finisce la città e anche questa denominazione di area metropolitana contribuisce a sottolineare una ibridazione. Terre di nessuno, rinominate, valorizzate dal segno del passaggio del corpo umano in generale, identificate politicamente dal corpo performante o terre di tutti per definizione? Questi interrogativi sono in una sottotraccia molto evidente nel lavoro Porpora che cammina. In effetti la performance più ambita e caratterizzante della rovente estate bolognese. Un viaggio di 4-5 ore a piedi per 18 spettatori alla volta, quindi interpreti loro stessi plasmati dai contesti in cui vanno ad incastonarsi di fatto al seguito degli impulsi nomadici di una biografia fuori dai canoni come quella dell’attivista Porpora Marcasciano. Una scommessa vinta su tutta la linea dato il sold out di ogni replica nonostante l’obiettivo impegno della cosa sotto ogni aspetto.

Io credo che in generale non ci sia niente di più politico del sottrarre il bios quotidiano alle incessanti dinamiche di sfruttamento cui è sottoposto dalle leggi di mercato e questo è evidente con il corpo del performer e dei suoi spettatori. Una sottrazione al consumo, all’attraversamento compulsivo e affaristico, all’uso, in favore di una gratuità di tempo e approccio che è paradigma libertario in qualche misura. O se vuoi una riappropriazione da parte di altre soggettività.

Ma in tutto questo discorso, quello che mi preme dirti è che noi non siamo interessati ad un nuovo astratto che prescinda dalle nostre radici identitarie. Questo lo si può vedere con una operazione se vuoi insolita per noi come quella dello spettacolo Stuporosa negli spazi di s Mattia. Ci ha colpito nel vivo sapere le mille stratificazioni nella storia di questo chiesa sconsacrata che è stata in primis la sede di un ordine monastico femminile in qualche modo indipendente dall’autorità della Chiesa patriarcale. Ci è parso molto giusto risemantizzarlo con un lavoro che mette al centro l’elaborazione femminile del lutto da parte delle prefiche e del loro compianto senza lacrime. Nel festival non sono mancati momenti estremamente popolari rispetto alla fruizione e in parte consuetudinari come piazza S Francesco e i giardini 11 settembre, meticciati abitualmente. Qui abbiamo presentato lavori di artisti vietnamiti e dal Marocco. In effetti c’è anche una mia e di Luca Nava, intensa attività di scouting, puoi ben scriverlo.

Questa attività è proprio possibile in virtù della postura collaborativa e pedagogica che ho cercato di descriverti e che fa si di essere inseriti in una rete molto efficace di scremature, selezioni, bandi, borse di studio, residenze e piattaforme tematiche dedicate che ci consente poi di avere il meglio della scena attuale e di cercare di offrire al pubblico bolognese una panoramica realmente cosmopolita.

Oggi che la cultura genericamente definibile come hip hop è divenuta quasi mainstream, voi non organizzate più la kermesse che richiamava b boys da tutta Italia e che infiammava con sfide e contests la zona delle torri di Kenzo, tra quartiere fieristico e sede regionale. Secondo te, è ancora possibile che ragazzi venuti dalla strada impongano un linguaggio al mondo della danza più codificato?

Allora si noi siamo partiti anche ai tempi, con l’idea di valorizzare le subculture e le marginalità. La cosa più emozionante di quell’appendice di danza urbana che citi era il momento del cerchio e della messa alla prova in collettivo di bravi e meno bravi. Possiamo dire che fossero momenti di autoformazione nella cultura di strada. Ma a un certo punto, da un lato, noi non riuscivamo in pochi a gestire questo flusso che si riversava su di noi…. Poi c’è da dire che ora lo street style è convogliato dalle scuole di Danza. Non è più così facile che una sottocultura si affermi semplicemente per la forza dirompente dei suoi assunti o la rottura degli schemi. In mezzo molte trasmissioni televisive che mettono in scena la ricerca dei talenti hanno contribuito a snaturare fenomeni spontanei e potenzialmente innovativi. Molto più facile vedere pratiche spontanee in Africa, per esempio, dove resiste una grande vitalità in senso politico oppositivo di queste cose. E ogni tanto capita che al di là dei modelli di successo qualche ragazzo di seconda generazione a seguito di laboratori, talks visioni, riconosca in sé attitudini di un certo tipo e decida di intraprendere il difficile percorso del performer. Però ci sono obiettive difficoltà di classe e di cultura in questo nostro depauperato presente. C’è anche una spinta molto forte da parte delle istituzioni, quando siano illuminate, ovvero nel migliore dei casi attente alle pratiche culturali come strumento di indirizzo sociale, a incanalare un po’ tutto. Il tema non è quello di sopire i conflitti sociali, ma il fatto che naturalmente non può modificare per esempio un assetto abitativo problematico la presenza pura e semplice della Danza. Comunque, certamente questa ed altre attività rappresentano forme di presidio. Infatti, ne abbiamo discusso nell’area Scalo Malvasia interessata da politiche rigenerative in questo momento, mentre a Mambo oltre ad aver ospitato due spettacoli abbiamo discusso con il docente Fabio Acca e la danzatrice coreografa Rampelli di una lettura del mondo attraverso i paesaggi e la loro anima. Danzare insomma non per imporre un codice, ma per scoprirne un altro. Comunque, le difficoltà che dobbiamo affrontare sono anche immani dal punto di vista burocratico. Per far approvare complessivamente un progetto o chiudere una strada dobbiamo esibire una documentazione di centinaia di pagine, quando ai nostri colleghi spagnoli ne bastano una trentina. Riguardo alla danza dobbiamo poi sottolineare come da anni stiamo conducendo una battaglia ricolta alle sedi ministeriali e alla Siae perché la normativa è assurda e in qualche modo impone di far diventare privato uno spazio pubblico, delimitandolo e quindi sottoponendolo a pratiche di rendicontazione e sbigliettamento. Noi ci teniamo assolutamente alla gratuità dei nostri eventi, non per timore nei confronti della audience, non perché non ci attribuiamo abbastanza valore, ma per motivazioni squisitamente politiche conseguenti ai ragionamenti di cui sopra. Se hai visto alcune situazioni a pagamento quest’anno è appunto perché realizzate in collaborazione con Ater, obbligato ad esibire i borderò.

Mi congedo anche da Massimo Carosi con la sensazione di aver imparato una quantità di cose che non sapevo, nonostante la decennale frequentazione e con il rimpianto di aver seguito troppo poco la programmazione.

A questo punto direi che sono pronta per una veloce incursione in una manifestazione… in qualche misura peculiare perché non si è mai pensata come festival e perché…estera tra virgolette, in quanto ricchissima di contributi internazionali e situata in area romana, anche se poi i legami forti e imprescindibili della sua curatrice Piersandra di Matteo con Bologna e tutta la scena emiliano romagnola, le sue collaborazioni con Ert, il suo lavoro di drammaturga per Romeo Castellucci sono cosa nota.

Stiamo parlando di Short Theatre, quest’anno al traguardo dei 18 anni di vita, di cui gli ultimi 4 a guida Di Matteo. Non è semplice trovare una definizione esaustiva di quella che non è più una semplice rassegna, ma un progetto di vita, un organismo pulsante e pervasivo che sconfina ora in altri territori della Regione Lazio e che va in una direzione ibridata molto oltre le cose di cui vi abbiamo parlato fin qui anche se ritroviamo spettacoli come Stuporosa di cui vi abbiamo parlato più sopra, presenze di impatto come quella di Fabiana Iacozzilli, incontrata di recente a Bologna in quanto membra della giuria di Premio Scenario.

Le reti e comunità sembrano funzionare e permettere questa apertura verso l’atro e l’oltre di cui si sente disperatamente bisogno. Short ha aperto il tre settembre e chiuderà domenica 17 settembre. Raggiungiamo miracolosamente al telefono Di Matteo in attesa di poter vedere di persona qualcosa della sterminata programmazione.

La cosa che colpisce considerando il calendario non è tanto il numero degli eventi, la durata temporale impegnativa, quanto il continuo espandersi del complesso di iniziative. Fa piacere vedere una fiducia istituzionale estesa e il coinvolgimento di luoghi ufficiali, istituzioni tempio diciamo della cultura romana e dunque nazionale e luoghi decentrati, provinciali addirittura. Questo significa a tuo avviso che si possono ancora intercettare nuovi pubblici e che si possa opzionare con la vostra strumentazione pratico teorica una ulteriore stratificata lettura dei bisogni?

Direi che hai colto nel segno. Il core di Short, tutt’altro che piccolo, breve e ormai non più di nicchia, rimane la zona del Mattatoio, l’Angelo Mai…Pelanda, il teatro India tutti i luoghi che ci consentono di non doverci definire troppo in quello che facciamo, tuttavia già parte di una tradizione. Ma poi si sono aggiunti anche spazi teatrali molto classicamente connotati dall’argentina al Teatro dell’opera di Roma. Poi se prima eravamo arrivati ad Ostia, al Quarticciolo dove comunque si svolge un intenso lavoro culturale durante l’anno ad opera di diverse realtà, adesso ci siamo espansi verso Viterbo e abbiamo pensato ad azioni performative meno connotate in senso urbano.

Short è sempre stato noto per una vocazione nomadica e sperimentale che negli anni aveva sedimentato una comunità itinerante che si ritrovava e continua a ritrovarsi nei giorni della rassegna vera e propria. Certamente una comunità di artisti da ogni parte del mondo che ha l’opportunità di scambiarsi esperienze e anche una comunità di pubblico estremamente fidelizzato costituito da ricercatori, operatori, intellettuali, curiosi, appassionati, alternativi che non si accontentano. Tutto questo è fondante e identitario, ma non basta più. Se dovessi dire di avere una missione con il mio mandato sarebbe indubbiamente quella di creare nessi e relazioni con tutto il vasto mondo associativo, volontaristico presente nei quartieri, nelle Periferie.

Ci può essere un allargamento del pubblico ulteriore, specialmente in favore delle nuove generazioni, ma se abbandoneremo l’idea di essere noi più adulti con un recente passato magari sperimentale o attivistico alle spalle già molto connotato e riconosciuto i depositari della verità e dello stile.

Sono convintissima del fatto che ci sia tanto da conoscere, da raccogliere… tanto lavoro di scouting e valorizzazione perché c’è tanto sommerso di cui nessuno oggi ha interesse a parlare.

Per esempio, io ho intercettato dei giovanissimi molto interessanti a Trastevere che abbiamo coinvolto. Io penso anche che la pandemia abbia impresso una svolta e una accelerazione. In principio la gente era ripiegata sul proprio solipsismo da cameretta, poi ha desiderato di uscire e potersi ritrovare ed esprimere. Ora tutti i segnali, che le pratiche che mettono in gioco il corpo sono sempre sismografi attendibili di ciò che vibra sotto e intorno, mi dicono che c’è un’aria di rinnovata consapevolezza. Consapevolezza se non apertamente politica in senso canonico certamente pero ambientale, sociale, diffusa sulle interconnessioni tra noi tutti e i contesti. La definirei olistica. Siamo tutti organismo ed ecosistema. Il lavoro artistico di per sé mette a valore questa relazione globale ed è per questo che non bisogna mai accontentarsi di scoprire ancora.

Ti faccio qualche osservazione da avvocato del diavolo. Questo essere tutti sulla stessa barca che affonda potrebbe apparire anche angoscioso, sto pensando alla sensibilità giovanile in merito così spesso pessimistica e al conseguente desiderio di distaccarsene, raggelando con il codice umoristico della stand up, per esempio, una volta abbracciata la scelta espressiva.  Pasolini considerava per esempio l’umorismo borghese e conformista…molto spesso i giovani teatranti sembrano in cerca di un facile non ben chiaro successo.

Io credo che il modello culturale dominante sia quello dell’alleggerimento, definiamolo così, perché l’immanenza di problemi stratificati e complessi che coinvolgono totalità, rende difficile distinguere fronti e responsabilità a meno che non si abbiano molte competenze, conoscenze storiche e… concentrazione. ricordiamoci anche di come la soglia di concentrazione e attenzione si sia abbassata vertiginosamente, di come facciamo continuamente appello ai nostri device per organizzare la nostra vita e leggere il mondo… Penso anche che il tema dei giovani non sia solo in generale quello di un generico no future o di un abbattimento del cosiddetto ascensore sociale, ma proprio del bisogno profondo di riconoscimento e ascolto. Questo mi pare sia il successo cui molti di loro aspirano.

Ma questo chiama in causa tutto il sistema assistenzialistico delle residenze, per esempio, e il tema della formazione. Intendo alta formazione forse solo allo IUAV in Italia si può parlare co nuovi codici espressivi, altrove nelle scuole e accademie non è così. E lo stesso discorso vale per la formazione degli intellettuali e operatori. Si dovrebbero studiare discipline nuove, molteplici, diversificate per poter leggere la vita e la scena. Tutto il sistema della critica andrebbe riformato, perché è vero che non abbiamo più una autentica critica orientata e votata al discernere, che sarebbe il suo compito al posto del blaterare e compiacere, però è anche vero che non abbiamo più bisogno di stroncature, mansplaining di qualche tipo, per intenderci, bensì di chiavi di lettura, allargamento dell’accessibilità. Quando abbiamo scelto come anteprima a questa edizione un incontro tra un poeta nero, razzializzato, transgender, non certo una cosa leggera, appunto abbiamo avuto una risposta straordinaria, intensissima, quasi 600 persone di ogni tipo. quest’anno abbiamo 50 progetti e 35 compagnie da tutti i continenti. I giovani però e questo e il loro bello, non si fanno mettere in soggezione da nulla e da nessuno. Non solo è rappresentata una scala graduata di tante location diverse, ma anche di generazioni. Quindi presentiamo i giovanissimi ma anche DeFlorian, Calderoni, Castellucci, Sciarroni naturalmente tra i più recenti. E sono tutte cose anche diversificate al loro interno perché Calderoni, per esempio, è una faccenda quando lavora con Motus e un altro paio di maniche quando lavora con Caleo, come in questo caso. I più giovani hanno un immaginario tutto loro e casomai il tema è che bisognerebbe dar loro l’opportunità di provare esperienze di factory dove poter tentare e anche sbagliare. Questo purtroppo difficilmente accade. Come sempre la potenza femminile viene celebrata con i progetti di due coreografe importanti quali Ligia Lewis e Nagera Belaza…i temi sempre legati ad un discorso civile globale però.

In conclusione di questa intensa carrellata, certo non esaustiva, ma speriamo rappresentativa, cosa ti sentiresti di aggiungere e dove pensi si situi ora la postura di Short, tra il sedimentate, implementare, scoprire e provocare?

Ritengo davvero che Short assolverà bene la sua vocazione se assumerà su di sé un poco di tutte queste posture. Il mostrare il nuovo è inutile se non si da stabilità e occasione di visibilità. Provocare forse è un termine superato perché, se siamo nel flusso delle cose sarà lo scandalo di una realtà predatoria e distruttiva ad arrivare comunque anche in maniera popolare e diretta. La cosa che vorrei sottolineare è che Short non è l’exploit di un festival per quanto ricco e articolato. Ma è un lavoro lungo tutto l’anno fitto di incontri e laboratori anche alla portata di tutti, così come sono gratuite molte situazioni di questi giorni e senza dimenticare l’aspetto della festa e dell’aggregazione che è cosa da sempre realmente popolare. In conclusione, quello che accade qui oggi è già il da dove ripartire di domani

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