Forse l’unica, originale eccentricità riconoscibile nell’ultra-reazionario proclama elettorale di Javier Milei, con cui ha però raccolto un corposo 30 per cento nelle primarie presidenziali di domenica 13 agosto in Argentina, è la disinvoltura con cui il candidato manifesta il proprio disprezzo per la pur grande e riconosciuta cultura umanistica (e per la cultura tout court) del suo paese. E’ stato il più votato. Indice di quanto possa disorientare la disperazione generata dalla micidiale spirale debito pubblico- inflazione-impoverimento di massa.
Né Patricia Bullrich, che pur ha accentuato il suo radicalismo conservatore, né -tanto meno- Horacio Larreta, l’altro contendente l’eredità neo-liberista dell’ex presidente Mauricio Macri, sono riusciti a frenare la mareggiata ultrà. Solo sommati i loro suffragi sfiorano quelli di Milei. E sia pur di poco, resta ancor più indietro il candidato del peronismo governante, il ministro dell’economia Sergio Massa, ritenuto a sua volta moderato e controverso. Sono i maggiori candidati, tra i quali poco più di 30 milioni di argentini sceglieranno nel prossimo ottobre il nuovo capo di stato e di governo.
Milei dice esplicitamente ed anzi enfatizza quanto Trump negli Stati Uniti, Bolsonaro in Brasile, Kast in Cile ed altri ancora qua e là in Occidente e altrove parzialmente camuffano per evitare di accendere eccessivi allarmi nelle opinioni pubbliche a cui si dirigono: basta con le regole, ridurre lo stato a un solo incontrastato gendarme del conflitto sociale e poi vinca il più forte. “Avanti Libertà”, è il motto della sua retorica elettorale. Dinamitare il patto sociale che sebbene malamente tiene assieme la società argentina, il risultato che persegue.
Promette di abolire fin da subito i ministeri dell’Ambiente, della Sanità, della Pubblica Istruzione, del Lavoro e Previdenza Sociale. Sono quelli che in ogni comizio indica a dito, uno di seguito all’altro, come le oscure grotte del malaffare politico. I nascondigli della “casta”, come l’apostrofa. Niente da dire, invece, su Lavori Pubblici, Difesa, Economia e Fiscalità, da decenni e decenni fonti di appalti super-lucrosi e favoritismi clientelari clamorosi, una storica stratificazione di privilegi che mortifica la produttività e ipertrofizza il debito pubblico.
Segue un minestrone di scelte i cui sprezzanti criteri prescindono dal principio di non contraddizione, fondamento del sapere occidentale. No all’aborto, alla maternità surrogata, alla crisi climatica, al Banco centrale, alla moneta nazionale, ai contratti collettivi di lavoro, ai sindacati: si alla dollarizzazione dell’economia, al commercio degli organi umani (“… non è forse, ciascuno di noi, proprietario del proprio corpo: perché dunque non potrebbe disporne come meglio crede?”), alla liberalizzazione delle droghe e delle armi personali, al matrimonio tra persone del medesimo sesso.
In gran parte, si tratta di temi che da tempo galleggiano sulla confusione epocale portata dalla crisi di credibilità delle istituzioni e dello stesso pensiero comune ben oltre i confini argentini e latinoamericani. Milei li ha raffazzonati e li sbandiera come altrettanti simboli dell’anarco-capitalismo: “libertà e proprietà”, la sua sintesi. A montarvi la guardia ha messo comunque Victoria Villaruel, che l’accompagna nel ticket presidenziale e celebra ad ogni momento i meriti della dittatura militare, simpatie e vincoli con i suoi esponenti più revanscisti.
I capelli arruffati e l’ancor giovane sguardo ipnotico delle prime apparizioni televisive, l’intimo sentimentale che lo vuole psicologicamente dipendente dalla sorella, le note meno brillanti della carriera di economista, appartengono a un ritratto di colpo sbiadito. Nei pochi giorni trascorsi dalle primarie, in queste ultime ore, anche la percezione pubblica di Milei si vede lambita dal cataclisma finanziario seguito alla sua affermazione. Il banco centrale ha dovuto svalutare il peso argentino del 20 per cento, al mercato nero ci vogliono quasi 700 pesos per acquistare un us-dollar, i negozi sono sguarniti e il salario di un lavoratore dipendente basta solo per metà mese.
Come un inamovibile macigno, a schiacciare l’economia argentina resta infatti lo straordinario debito di 44mila milioni di dollari contratto con il Fondo Monetario Internazionale (FMI) da Mauricio Macri, nell’ultima parte del suo mandato presidenziale. Tutti lo ritengono impagabile, compresi gli stessi creditori. Ma intanto l’ Argentina deve pagarne almeno gli interessi, per continuare a ricevere da parte del Fondo le erogazioni periodiche che per il suo esangue sistema finanziario sono come un bicchiere d’acqua all’assetato perduto nel deserto.
Il peronismo, tanto quello radicale e prevalentemente suburbano di Cristina Fernandez de Kirchner, quanto l’altro burocratico e conciliante del presidente Alberto Fernandez non sono riusciti a sottrarsi ai vincoli del debito-trappola. Neppure sul piano teorico. Giudicato impraticabile e velleitario il disconoscimento del debito preteso da Cristina, per un paese di economia esportatrice, dunque soggetto a ritorsioni letali; ma insostenibile anche il suo pagamento, anche se massimamente dilazionato. Men che meno in un’annata di siccità che ha tagliato le risorse in valuta. Il governo ha finito per esaurirsi nei contrasti interni.
Questo articolo è stato pubblicato su La voce d’Italia il 16 agosto 2023