Le autoblindo irrompono nel cortile del Palazzo, il presidente Luis Arce affronta personalmente un ex comandante in capo dell’esercito che le guida, Juan Josè Zuñiga: nel faccia a faccia entrambi sembrano digrignare i denti. A un tratto si danno le spalle, apparentemente dirigendosi decisi ciascuno al proprio intento: la rinuncia dell’altro. Fine del video (ormai c’è sempre un video). Il Presidente rientra nel suo ufficio e sostituisce d’una sola firma autenticata l’intero vertice delle forze armate. Il generale, già ex, si allontana in un blindato. Ma solo per raggiungere qualche giornalista e denunciare concitato che il suo golpe in realtà gli era stato suggerito dallo stesso capo di stato, del quale è amico fin dai tempi delle scuole secondarie, per risollevare la propria immagine pubblica logorata dall’inflazione. Arce, sdegnato, lo smentisce.
Questa la succinta ma rigorosa cronaca dei fatti visibili. A cui seguono senza soluzione di continuità le ipotesi (tutte interne al labirinto politico boliviano) e il folclore (vissuto come tale essenzialmente oltre frontiera, in Italia, in Europa): il golpe come inestinguibile mito sudamericano nella lotta tra democrazia (più o meno compiuta) e potere personale. Certo e accreditato il panorama politico complessivo: il Movimiento al Socialismo (MAS) e il suo leader storico Evo Morales, alla fine di una ventennale egemonia ma intenzionati a riprendersi la guida del paese andino nelle elezioni del prossimo anno; Luis Arce, che pure deve la Presidenza al sostegno di Morales, riluttante a riconsegnargli oneri e onori; numerosi i militari che sgomitano per posizionarsi al meglio (nascosti ma puntualmente in prima fila i capi del Batallon 601, i servizi segreti); in piazza i sindacati (COB) tradizionalmente espressione organizzata dei lavoratori.
Latitudine estrema dell’Occidente, questa periferia andina è nondimeno uno scenario politico a noi meno estraneo di quanto si può essere portati a pensare. Anche qui ed esplicitamente manifesto c’è sconcerto per la crescente insolenza della vita pubblica, di cui ovviamente la politica costituisce la prima ribalta. Il romanziere Maximiliano Barrientos, che ha narrato molto della violenza in Bolivia, specialmente quella dei militari, ha fatto propria la tesi del post-pudore indicata dal filosofo del diritto andaluso Victor Vazquez come caratteristica di questa nostra epoca: per il bene e per il male la censura moralistica in politica è finita. Forse, però (e persino più d’un equivoco golpe la deflagrazione dei web-media parrebbe testimoniarlo), non si tratta di una fine gloriosa: “l’arma pubblica più potente di questo tempo senza più vergogna è l’impudicizia”, ammonisce Salman Rushdie.
Questo articolo è stato pubblicato su Il diavolo non muore mai il 27 giugno 2024