Un Paese allo specchio nella bomba alla stazione

di Davide Conti /
2 Agosto 2023 /

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La strage fascista della stazione di Bologna del 2 agosto 1980 rappresenta, come in un complesso racconto autobiografico del Paese, elementi e fasi storiche diverse che pure hanno drammaticamente caratterizzato la direzione e il senso del decennio ‘70-‘80, ovvero quegli «anni del tritolo» pregni di complicità statali (per questo abrasivi nella memoria pubblica delle istituzioni) che prima precedettero e poi si sovrapposero a quelli «di piombo» (più comodamente raccontati dalla retorica celebrativa ufficiale).

All’interno di quella vicenda ritroviamo in prima fila i fascisti vecchi e nuovi dell’epoca. Tutti provenienti dal Msi ovvero da quel partito che secondo l’attuale Presidente del Consiglio ebbe «un ruolo molto importante nel combattere la violenza politica e il terrorismo» e nel «traghettare verso la democrazia milioni di italiani usciti sconfitti dalla guerra». Quel Msi dalla cui radice origina il partito postfascista al governo che oggi attraversa per la prima volta l’anniversario della strage.

NELLE SEDI MISSINE degli anni Settanta si erano formati i terroristi dei Nuclei Armati Rivoluzionari: Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini (condannati in via definitiva come autori della strage) e Gilberto Cavallini (condannato in primo grado). Mario Tedeschi, indicato dall’ultima sentenza come uno dei responsabili del depistaggio della strage, il Msi lo aveva invece fondato insieme a Pino Romualdi, Giorgio Almirante ed altri camerati reduci della filo-nazista repubblica di Salò.

IL GRUPPO DEI NAR che colpì a Bologna rivendicò omicidi contro militanti di sinistra, magistrati e uomini delle forze dell’ordine; raid armati contro sedi di partiti politici (Pci) e Radio Città Futura (durante la trasmissione del collettivo Radio Donna); attentati dinamitardi e terroristici riusciti e falliti. I fascisti si sono invece sempre dichiarati, nonostante le condanne, estranei alla strage. Da ciò ha preso le mosse la retorica dei vari e trasversali comitati che ne rivendicano l’innocenza in nome di una bizzarra battaglia «garantista» in favore di terroristi che non solo hanno goduto dei benefici di legge previsti ma da anni ormai sono fuori dal carcere.

Il senso personale e politico di questa non assunzione di responsabilità alberga altrove. Ammettendo di essere gli autori materiali della strage avrebbero dovuto anche indicare chi li aveva mandati a compiere il massacro. «Il silenzio è d’oro», amava ripetere Licio Gelli, e lo è stato anche per Fioravanti, Mambro e Ciavardini che oggi, nonostante il vittimismo, sono liberi.
LE STRAGI PERÒ non sono state solo cimento di terroristi neri. La storia di Bologna conferma l’elemento che si è definito fin dalla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 come il fattore fondamentale dell’eversione stragista: la responsabilità, non solo penale ma politica e istituzionale degli apparati di forza dello Stato.

Questi ultimi vedono condannati per depistaggio i loro esponenti di vertice tanto al Sismi (il generale Pietro Musumeci, capo del servizio, il suo braccio destro colonnello Giuseppe Belmonte e l’agente Francesco Pazienza) quanto all’Ufficio Affari Riservati (nella persona del suo indiscusso capo, Federico Umberto D’Amato, ritenuto uno dei mandanti dell’eccidio assieme al capo della Loggia P2, Licio Gelli) fino al colonnello dei carabinieri Piergiorgio Segatel, condannato in primo grado per false informazioni.

VI SONO POI UOMINI che hanno svolto quella funzione di «vaso comunicante» tra «mondo di sopra e mondo di sotto» già chiarita, in altro contesto, da un altro ex Nar, Massimo Carminati. Tale vestito ben si dispone sulla figura di Paolo Bellini, condannato in primo grado nell’ultimo processo e arrestato lo scorso giugno per le minacce contro la ex moglie (che ha testimoniato contro di lui) e il figlio del giudice che presiedeva la Corte D’Assise di Bologna che ha emesso la sentenza.

Neofascista di Avanguardia Nazionale, assassino del militante di Lotta Continua Alceste Campanile, amico di famiglia del procuratore capo di Bologna Ugo Sisti (che avrebbe dovuto gestire le indagini dopo la strage e che venne trovato il 3 agosto nell’albergo della famiglia Bellini), killer della ‘ndrangheta della famiglia Vasapollo e uomo assoldato dal colonnello del Ros dei carabinieri Mario Mori negli anni delle stragi di mafia ‘92-’93 come infiltrato nelle cosche.

Il carattere della strage e la sua misura strategica di eversione della Costituzione trovano, in ultimo, nel finanziamento e nella regia della loggia P2 la loro espressione più visibile. Come, su tutto questo, sia politicamente e mediaticamente sostenuta ancora oggi, a fronte della mole di documentazioni e prove, una campagna innocentista (argomentata con «teoremi» complottisti su inesistenti «piste internazionali» o con il fasullo «spontaneismo» dei Nar) in favore dei responsabili fascisti Mambro, Fioravanti, Ciavardini resta forse l’ultimo «mistero» della strage.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 2 agosto 2023

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