Karl Marx, la libera filosofia e il materialismo antico

di Antonio Montefusco e Luciano Canfora /
15 Luglio 2023 /

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Una conversazione con Luciano Canfora sulla tesi dottorale di Karl Marx, la libera filosofia e il materialismo antico.

La sofferta Eleonor Marx trovò, tra le carte della zia Sylvie, la lunga lettera con cui Karl annunciava a suo padre l’abbandono degli studi giuridici a cui era stato destinato dalla famiglia. Il diciannovenne, studente a Berlino, la scrisse di notte, sviluppando con un lungo discorso quello che, più che un passaggio di facoltà, si può definire una «conversione» alla filosofia. Siamo nel 1837; Karl Ludwig Michelet, filosofo che si era occupato  lungamente di Aristotele, aveva da poco pubblicato le Lezioni di storia della filosofia di Hegel (1833), ricomponendo in una stesura unica un complesso ciclo di lezioni tenute tra 1805 e 1828 a Jena, Heidelberg e Berlino. È difficile pronunciarsi sul grado di affidabilità ma, soprattutto, di autenticità di queste lezioni, che arbitrariamente trasformano in un disegno unico materiali diversi (essenzialmente composti da autografi e appunti degli studenti). Sappiamo però che il Marx che afferma di aver letto «tutto Hegel», intende «questa» storia della filosofia; e che quando annuncia la sua «conversione», Karl spiega al padre di voler trovare strade alternative a questo preciso impianto filosofico. È un’inquietudine che il klub degli hegeliani di Berlino (tra cui primeggia il suo mentore Bruno Bauer) condivide totalmente. Già in questa lettera al padre, Marx afferma di aver già provato a uscire dall’idealismo hegeliano. In maniera molto significativa, egli porta a esempio di questo tentativo una sua opera intitolata Cleante: il riferimento è a Cleante di Asso, successore di Zenone e autore di un inno a Zeus. Proprio quest’ultimo testo, trasmesso in maniera frammentaria, è commentato nel capitolo dedicato allo stoicismo nelle lezioni di Hegel nella versione di Michelet. Marx afferma di aver fallito in questo suo primo tentativo di superare la visione idealistica assoluta della realtà proposta da Hegel: si intravede già, però, una riflessione sulla divinità e sulla religione influenzata dallo stoicismo (ma anche da Spinoza).

Insomma, il cambio di «facoltà» è davvero un cambio di passo epocale per Marx. In tale passaggio, il rapporto con la storia della filosofia antica è cruciale. Superare l’idealismo significa anche cercare alternative al complesso filosofico platonico-aristotelico, che era diventato egemonico e vincente proprio grazie alla modalità con cui esso era stato trasmesso, filtrato e ampiamente riscritto dal cristianesimo. Non è un caso se, nel 1841, Marx ritornerà all’immanentismo moderno, e quindi a Spinoza, come attesta il quaderno con annotazioni dal Tractatus. Il 1841 è anche l’anno della dissertazione dottorale di Marx, sottoposta a valutazione universitaria a Jena. Lo studio era cominciato nel 1838, quando lo studente si era risolto a dedicare il suo studio a Epicuro e alla differenza con Democrito in materia di fisica: di nuovo un tema «antico», di nuovo un nocciolo di pensiero che va oltre Platone e Aristotele, e di nuovo, un complesso filosofico su cui Hegel si era pronunciato nelle sue Lezioni. Approvata dalla commissione, la dissertazione era destinata alla pubblicazione: il titolo avrebbe permesso al brillante dottore di iniziare la carriera accademica sotto il patrocinio di Bruno Bauer. Per questo Marx la rilavorò in profondità, ma la rielaborazione (successiva alla discussione) non arrivò fino in fondo. Negli anni Quaranta dell’Ottocento il clima in Prussia era cambiato, e la censura aveva fatto un salto di scala: ne fanno le spese anche questi hegeliani, e in particolare Bauer, costretto ad abbandonare la cattedra. La carriera di Marx è compromessa, ma non il suo progetto intellettuale, come ben sappiamo. La rielaborazione della tesi è lasciata interrotta.

La tesi, in questa forma ripensata, è stata appena ripubblicata, in italiano, dall’editore Laterza (Karl Marx, Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro): la traduzione è basata su un’edizione piuttosto reticente e dimenticabile, quella degli Editori Riuniti del 1980. La particolarità di questa nuova edizione non sta nel testo, ma nella ricchissima introduzione (di 130 pagine) di Luciano Canfora, studioso di filologia classica, professore universitario e intellettuale notissimo per i suoi studi e per le sue posizioni politiche e storiche. Nell’introduzione, Canfora dimostra, attraverso un minuzioso studio del testo della tesi e del contesto in cui nasce, l’importanza di questa riflessione sulle filosofie antiche di impianto materialistico per Marx.

Partiamo dalla vicenda completamente dimenticata di David Borisovič Rjazanov (1870-1938): fu un filologo «a tutto tondo», eroicamente capace di prendere dei treni economici, in vagoni di quarta classe senza riscaldamento, soltanto per controllare la punteggiatura nei manoscritti marxiani. Prima vicino ai vertici socialisti (in particolare a Kautsky), Rjazanov entrò nel partito bolscevico con Trockij nel 1917, per poi dedicarsi integralmente al progetto dell’edizione integrale delle opere di Marx e Engels. L’ideazione della cosiddetta Mega (Marx-Engels-Gesamtausgabe) fu forse il suo capolavoro: grazie al sostegno di Carl Grünberg, direttore dell’Institut für Sozialfoschung di Francoforte, Rjazanov riuscì infatti a mettere d’accordo la Spd tedesca, gelosa custode dei materiali manoscritti di Marx (passati dalla figlia Eleonor a Laura Lafargue e poi confluita nell’archivio del partito tedesco) e l’istituto Marx-Engels di Mosca (Mei) in vista di un progetto editoriale bilingue. Le opere dei due fondatori del socialismo scientifico sarebbero state pubblicate non solo in traduzione russa, come voleva Mosca, ma parallelamente anche nella loro lingua originale, in tedesco: il che significava che l’edizione di quei testi comportava l’accesso all’originale, a ciò che si avvicinava di più al pensiero autentico di Marx. Nel 1927 uscì il primo volume della Mega a Francoforte a cura di Rjazanov; l’iniziativa, nonostante i vari contrasti, continuò fino al 1933 in Germania, ma con la messa fuori legge della Spd, il Nachlass viene trasferito ad Amsterdam, presso l’Internationaal Instituut voor Sociale Geschiedenis, dove ancora oggi è possibile consultarlo: la tesi dottorale, con la collocazione Nachlass Marx-Engels, A3, consiste in verità in una copia calligrafica incompleta della tesi, che Marx aveva fatto preparare per la pubblicazione, mai avvenuta. Importante è notare che l’edizione dei testi marxiani nella Mega e nell’edizione russa inizia proprio con la Dissertazione dottorale; non è una prima edizione (la tesi era stata pubblicata già da Franz Mehring nel 1918), ma quella di Rjazanov si basa su un lavoro di scavo, che aveva rintracciato e studiato anche i sette fittissimi quaderni in cui il giovanissimo Marx, nel 1839, aveva raccolto i brani greci e latini su cui aveva basato la sua riflessione. 

La successiva vicenda di Rjazanov è significativa, e va ricordata: egli seguì con dedizione le contrastate vicende della pubblicazione critica dei testi di Marx, fino a quando venne coinvolto nel processo a Isaak Rubin, accusato di essere una spia menscevica. Il Grande Terrore prima lo allontanò dal suo amato incarico all’Istituto Marx-Engels per inviarlo a fare il bibliotecario a Saratov, poi, dopo aver subito il macero dei suoi libri, egli venne arrestato e fucilato nel 1938. Nel frattempo, la Mega aveva chiuso i battenti nel 1935: evidentemente la filologia faceva a pugni con il nuovo clima staliniano. 

Ma anche successivamente, la tesi dottorale di Marx subì alterne vicende: nella serie Mew, patrocinata dalla Ddr e iniziata nel 1956, la tesi venne esclusa, per essere recuperata soltanto a partire dal 1964, in una sede accademica appartata, e finalmente riconosciuta ufficialmente come fase «importante» dello sviluppo del pensiero marxiano nel 1975, quando era cominciata la nuova serie della Mega: naufragata con la Ddr ma poi oggi ripresa sotto l’egida di un network di istituti e studiosi internazionali. Cominciamo da qui: perché l’edizione di Rjazanov è così importante? Quali sono i problemi editoriali di questa edizione? Qual è la ragione delle fortune alterne del testo?

Iniziamo col dire che la maggiore disattenzione verso il testo del lavoro dottorale di Marx viene da Marx stesso, perché egli inizialmente, sospinto da Bauer, punta a una riscrittura tutt’altro che superficiale, anzi molto in profondità, della tesi. Basta guardare con attenzione l’unica copia superstite. Marx non solo aggiunge una prefazione molto battagliera (la Vorrede), che sicuramente non era destinata alla commissione giudicatrice di Jena; vi sono sia fitti interventi autografi e due capitoli lasciati in bianco. Questi capitoli mancano non perché siano stati distrutti ma perché non c’erano: Marx si riprometteva di riscrivere completamente queste parti. Dopodiché, come ben sappiamo, la vicenda accademica di Marx fallisce. Bauer, che peraltro non aveva un carattere delizioso, aveva un atteggiamento di superiorità rispetto a questo uomo più giovane ma di gran genio; Marx da parte sua non era disposto ad accettare il suo paternalismo. I rapporti si guastano presto, poco dopo l’allontanamento di Bauer da Bonn per ragioni politiche. Il protettore accademico non c’è più, Marx è anche impaziente di darsi un’autonoma ragione di vita: muoiono il padre, e anche il suocero, che era stato un sicuro punto d’appoggio. Karl si mette a fare il giornalista e abbandona il progetto universitario. In più, egli comincia a interessarsi a tutt’altro: i primi articoli giornalistici riguardano tra l’altro la censura o la questione ebraica (nella celebre recensione a Bauer, ulteriore punto di attrito tra i due). L’antichità classica a quel punto esce di scena e lui non se ne occupa più, non ci rimette più mano. Per fortuna il manoscritto, sia pure così incompleto e ritoccato, non si è perso, ed è merito della figlia di averlo consegnato, a inizio Novecento, a Franz Mehring (1846-1919). Quest’ultimo [seguace di Lassalle e poi spartachista, autore della prima biografia di Marx, Ndr] fece un’edizione sommaria del testo, meritoria ma filologicamente insoddisfacente: per esempio scartava volutamente i quaderni preparatori, considerandoli superflui. La cosa non poteva piacere a Rjazanov, il quale si era messo alla caccia di autografi di Marx, anche quelli del giovanissimo Marx, al punto che pubblica, con l’aiuto di Grünberg, anche un suo tema ginnasiale sempre di soggetto classico. Ma torniamo alla tesi dottorale. Rjazanov si accinge a dare veste scientifica a un testo che era stato pubblicato alla buona, suscitando scarsissima curiosità fuori della cerchia degli studiosi. Anche per i socialisti, infatti, quell’opera rappresentava la «preistoria» di Marx, non aveva rapporti con il grande punto di riferimento ideologico. Rjazanov lavora mantenendo buoni rapporti con le istituzioni che detengono l’eredità di Marx, in particolare il Partito socialista tedesco, ma sapendo di essere abbastanza controcorrente, di fare cioè un lavoro che noi chiamiamo con grande rispetto filologico ma che ai suoi referenti politici non interessava granché. Per giunta – e questo è un merito ulteriore di Rjazanov – capendo che le traduzioni, come si prospettavano ormai in Unione sovietica, erano sì benemerite perché davano divulgazione al pensiero marxiano, ma non potevano sostituire il testo autentico, che non poteva che essere in tedesco, scelse di lavorare in collaborazione con l’Istituto di Francoforte e mise in essere una combinazione russo-tedesca che funzionò dignitosamente per i primi volumi.

Soffermiamoci allora sulla Vorrede, che lei valorizza molto studiando le modalità con cui Marx prepara la tesi per la stampa. In questa prefazione, totalmente nuova rispetto alla dissertazione, compare una citazione antireligiosa di Prometeo (si tratta di un verso di Eschilo): «detto francamente, io odio tutti gli dei». La citazione, riportata in greco, è seguita dall’affermazione marxiana secondo la quale lo stesso Prometeo può dirsi «il più grande santo e martire di tutto il calendario filosofico». Questo roboante finale antireligioso è preceduto da un (altrettanto forte) elogio della filosofia che si appoggia su David Hume: una difesa della filosofia che ne afferma la piena libertà contro ogni costrizione. Lo sfondo storico di questo testo (che lei fa risalire in maniera convincente al 1842, poco prima della cacciata di Bauer) è la nuova politica censoria del ministro della cultura prussiano Johann Albrecht Friedrich Eichhorn, rivolta in particolare contro gli orientamenti hegeliani dominanti nelle università. Ci spiega l’importanza di questo riferimento a Prometeo? Bruno Bauer, che pure fu animatore soprattutto della critica alla religione, sconsigliò Marx di tenere quel riferimento, proprio mentre affermava che la vera «prassi» diventava ormai la pratica della filosofia. Qual è il nocciolo teorico su cui Marx propone una nuova strada?

La Vorrede è un testo di battaglia, un deciso passo in avanti rispetto al corpo della tesi, è soprattutto un passo in avanti nel valutare, a mente fredda e matura, il ruolo di Hegel nella comprensione della storia della filosofia, in particolare delle filosofie post-aristoteliche. Quella di Marx è una considerazione generosa del giudizio di Hegel, ma anche una lieve forzatura. Mi spiego. Nella Vorrede Marx dice – e io condivido pienamente la cosa, perché è molto vera e denota l’acume di quest’uomo – che le filosofie post-aristoteliche segnano un grande progresso rispetto ai due colossi Platone e Aristotele, che hanno prevalso per varie ragioni, anche per le scelte compiute dalla tradizione filosofica nel corso del tempo. Non parlo dell’epoca romana, nella quale lo stoicismo ha un grande peso e una grande diffusione; è in epoca cristiana che Platone e Aristotele «vincono» la battaglia della sopravvivenza nell’ambito del corpus filosofico antico, a danno non soltanto dei pre-socratici (elemento quasi ovvio, perché  questi ultimi sono considerati poco più che materialisti balbuzienti) ma anche a danno della filosofia post-aristotelica, nella quale ci sono senz’altro elementi inquietanti: e qui dobbiamo far riferimento al materialismo di Epicuro, che si riaggancia seppure in modo innovativo al materialismo atomistico di Democrito; lo stoicismo è considerato in certo senso «eretico» già nella sua struttura di pensiero fondamentale rispetto alla trascendenza cristiana, in ragione della sua visione immanentistica della divinità. Quest’idea di divinità presente nell’umanità è di per sé la più forte delle eresie possibili rispetto al pensiero cristiano, e questo elemento li ha penalizzati moltissimo.

Marx capisce benissimo, invece, che il pensiero antico ha fatto un passo gigantesco in avanti proprio nel periodo successivo ad Aristotele, e generosamente, troppo generosamente, attribuisce questa percezione a Hegel medesimo. Al contrario, se uno legge attentamente quello che noi abbiamo delle Lezioni di storia della filosofia [con i problemi filologici a cui abbiamo accennato sopra, Ndr] vediamo che in realtà questa intuizione, in quelle lezioni, non c’è. Al contrario, c’è un salto mortale: Epicuro viene trattato come un imbecille, il suo pensiero è un «Vermischung», un guazzabuglio, gli atomi sono un’assurdità, come anche le molecole «a cui credeva persino Locke». In definitiva, possiamo dire che Hegel sia tranquillamente contrario alla scienza moderna! Per quanto riguarda lo stoicismo, Hegel salta a piè pari quello antico e si occupa di Seneca, sostenendo molto brevemente che tale corrente di pensiero vada ascritta all’epoca romana, e costituisca una risposta all’imperialismo di Roma. Hegel è completamente fuori strada. Certo, non sappiamo se si è veramente espresso in questi termini: in queste ultime settimane abbiamo appreso dai giornali che migliaia di pagine di scolari che annotavano le sue lezioni sono venute fuori in Baviera, vicino Monaco. Sono lezioni non solo di storia della filosofia, ma anche di Estetica e di tanto altro. Un’équipe sta lavorando alla decifrazione: vedremo. Allo stato attuale ci dobbiamo accontentare delle edizioni di Michelet: diamo quindi per assodato che Hegel si sia espresso così. 

Rimane comunque il fatto che in quella Vorrede venga attribuita a Hegel un’intuizione che è di Marx stesso, e questo mi preme soprattutto mettere in rilievo. Aggiungo però dell’altro. Siamo di fronte a un Marx al quale non interessano affatto gli aspetti sociali, egualitari, per esempio presenti nel pensiero di ispirazione epicurea. Perciò ho messo in rilievo che, mentre Marx trascura tali aspetti, Hegel di tutto Epicuro salva il fatto che, secondo una maliziosa notizia di Diocle di Magnesia, riferita da Diogene Laerzio, Epicuro si sarebbe opposto al principio comunistico della comunità dei beni. A Hegel questo dettaglio piace, e per questo lo valorizza, senza rendersi conto della tendenziosità dell’informazione. Per carità, stiamo parlando di un genio, ma quando parliamo del mondo antico bisogna sempre andare coi piedi di piombo, le fonti ci giungono talora in modo mediato ed è bene andare a verificarle direttamente. Hegel si serviva della Historia critica philosophiae di Johann Jacob Brucker di inizio Settecento in cui già c’erano delle operazioni piuttosto disinvolte, nella fattispecie su questo problema. Marx salta a piè pari questa questione che, nella maturità, gli sarebbe sembrata molto più interessante. Perché? Perché gli preme in quel momento l’aspetto laico, antireligioso, di superamento del pregiudizio religioso. E quindi ricava dal Προμηθεὺς δεσμώτης, la tragedia Prometeo incatenato di Eschilo, un verso dalla forza enorme («odio tutti gli dei»), trascrivendolo in greco e traducendolo con entusiasmo. Inoltre parafrasa quasi alla lettera il primo elogio di Epicuro che si trova nel De rerum natura di Lucrezio, dove il filosofo greco è rappresentato come colui che ha liberato l’umanità dalle catene della religio: la citazione è ampia e molto fedele [si tratta dell’immagine di Epicuro come colui che ha calpestato la religione, Ndr]. 

Troviamo una conferma anche nelle aggiunte manoscritte fatte da Marx rispetto all’originario corpo della dissertazione; le note riguardano essenzialmente Schelling e il suo pensiero religioso. Per dirla in breve, c’è una perfetta congruenza tra quelle aggiunte, che prendono di mira il bigottismo religioso, e l’interpretazione di Epicuro e di Prometeo nella Vorrede. Su questa base, dunque, diventa molto importante l’elogio della filosofia completamente libera, basata su una citazione di David Hume, molto efficace, ma anche sull’ironica presentazione di Pierre Gassendi [1592-1655: teologo e scienziato francese, Ndr], come uno che aveva quasi avuto paura di aver rilanciato Epicuro… Il tema diventa: la religione va cancellata perché è una catena che impedisce al pensiero la propria libertà, che può essere esercitata soltanto con la filosofia. Questo è il Marx della Vorrede. Una posizione paradossale: in pochi mesi, è molto più avanti rispetto al Marx della tesi, è già molto indipendente rispetto a Hegel, ma non è ancora il Marx militante politico.

Infatti lei fa anche riferimento alla celebre antologia curata da Paul Nizan sui materialisti dell’antichità, uscita nel 1936 (oggi ripubblicata da Eutimia). Siamo nel periodo del Fronte Popolare, e Nizan era all’epoca molto legato al Partito comunista francese (sarebbe poi stato accusato dai comunisti di essere una spia per le critiche all’Unione Sovietica all’epoca del patto Ribbentrop-Molotov). Anche in questa antologia campeggia la centralità di Epicuro, ma la sua interpretazione è molto forte: a differenza del «Joseph de Maistre» del mondo greco, cioè Platone, Epicuro propone una condanna che «colpisce allo stesso tempo la società del III secolo e ogni possibile società». Mettendosi a difesa degli schiavi, egli non propone «un’evasione verso il cielo, ma una impresa terrestre». Si tratta di un’interpretazione suggestiva, senz’altro, ma senza quella cautela necessaria che prima invocava.

Sì certamente, la differenza è lampante, la cautela è d’obbligo. Ma è apprezzabile la valorizzazione di Epicuro, come quella poi di Lucrezio nel suo attacco alla religione romana (anche su Lucrezio si concentra Nizan).

Arriviamo allora allo specifico dell’interpretazione di Marx. In maniera molto raffinata, lei fa riferimento a un articolo molto importante di Cyril Bailey, famoso commentatore di Lucrezio, che, l’anno dopo la pubblicazione della tesi da parte di Rajzanov (quindi nel 1928), in un saggio sulla rivista Classical Quarterly, giudicò la dissertazione di Marx di grande interesse e innovatività. Per entrare più nello specifico, lei insiste sulla novità dell’interpretazione di Marx per due ragioni. Una è il rapporto con Hegel (che appunto aveva giudicato le tesi epicuree Vermischung, un guazzabuglio); l’altra riguarda invece l’interpretazione specifica della cultura filosofica greca. Marx insiste sulla differenza tra Democrito ed Epicuro, e utilizza in maniera innovativa il punto di vista di Lucrezio sulla natura degli atomi. Anche rispetto alla cultura tedesca, ed europea, del tempo, emerge la grande capacità di lettura e di intuizione filologica di Marx.

Aggiungiamo un particolare un pochettino polemico. È invalso, da ultimo, e chissà perché, un atteggiamento di sufficienza ironica verso Marx, in particolare in ragione di una famosissima lettera del 27 febbraio del 1861 a Engels, in cui Marx afferma di leggere per sollievo, la sera, le Guerre civili romane (il De bellis civilibus) di Appiano nel testo greco originale. Faccio l’esempio di uno studioso che si chiama Wilfried Nippel, che si è occupato di storia economica del mondo antico, e che si dimostra molto devoto del pensiero di Max Weber, sempre pronto a trovare Weber moderno e convincente e Marx arcaico. Bontà sua: ognuno ha le sue convinzioni e ha il diritto di pensare ciò che vuole. In un articolo del 2005, Nippel ironizza su questo riferimento di Marx, esprimendosi anche in maniera goffa: arriva a dire che Marx «fanfaroneggia» («fanfarronne quelque peu»), chissà perché. Se lui fosse più preciso si accorgerebbe che Marx discute con estrema precisione dei passaggi dal testo greco di Appiano. 

Marx è interessato dal grande rilievo che Appiano riserva alla rivoluzione di Spartaco, ma anche alle riforme agrarie tentate prima da Tiberio e poi da Caio Gracco. Nippel avrebbe dovuto sfogliare la dissertazione, per esempio nell’edizione Mega 2, dove c’è non solo il testo ma anche i materiali in greco che Rjazanov non trascrisse (si limitò a inserire l’indicazione dei passi discussi da Marx), e i quaderni preparatori, fitti di trascrizioni di testi latini (soprattutto di Lucrezio e di Seneca, ovviamente), e greci (soprattutto Plutarco e Sesto Empirico, in quanto entrambi molto critici verso la tradizione atomistica, in particolare di Epicuro e del suo pensiero non solo fisico, ma anche etico). Già Franz Mehring aveva ricordato come Marx padroneggiasse magnificamente le fonti antiche; lo stesso Mehring racconta che il filosofo spessissimo rileggeva le tragedie di Eschilo: in altri termini, egli ha continuato a frequentare tali testi ancora molto dopo gli studi universitari. Questa frequentazione diretta ci permette di capire la grande forzatura geniale che egli compie rispetto ai versi del secondo libro del De rerum natura in cui Lucrezio introduce una sua idea della libertà, con l’affermazione del libero arbitrio posseduto dagli atomi. Lucrezio non lo afferma in maniera così esplicita; Marx forza o, se vogliamo, esplicita ciò che in Lucrezio era implicito, rilanciando questa idea straordinariamente spiritualistica che attribuisce una libera volontà a ogni singolo atomo. È un concetto lontano dal materialismo scientifico francese, statico, vecchio, nobile quanto si voglia, ma fondato sulla dicotomia materia/spirito. Sono visioni tradizionali, nelle quali ognuno si schiera o da una parte o dall’altra, pensando che la materia sia inerte, semplicemente manovrata dall’intelletto umano. Io credo, e non penso di compiere un eccesso dicendolo, che in questa interpretazione di Marx (a partire da Lucrezio) sia presente l’intuizione della visione della materia come energia; emerge quindi una visione molto più vicina alle idee scientifiche del ventesimo secolo. Questa originalità viene anche dalla frequentazione diretta dei testi antichi, filtrati attraverso la testa di un giovane di grande ingegno com’era il Marx ventenne. 

E da questo si vede anche la grande differenza con Hegel, il quale, come abbiamo detto già, è invece «anti-scientifico». Passiamo all’ultima domanda. Il titolo del saggio che fa da introduzione alla tesi è «Il dottor Marx». Immagino che lei faccia riferimento, in maniera polemica, all’infelice espressione di Benedetto Croce, che ironizzò sul fatto che «nel socialismo che si vantò scientifico, Marx era un dottore in filosofia che discettò su Epicuro». Allo stesso tempo, il titolo mi ha evocato la figura storica di Marx che qui cogliamo all’inizio di una vita accademica che egli poi non ebbe la possibilità di proseguire. A quel punto Marx diventa un outsider, che però mantiene una capacità di aggiornamento, di discussione, di approfondimento, che sembrano restare tipici di un profilo da ricercatore universitario.

Eh be’, sì, pensi al posto fisso che occupava alla British Library di Londra, lo 007.

Mi viene in mente, con le differenze del caso, anche l’esperienza di Antonio Gramsci, anche lui filologo di genio, destinato dai suoi docenti a una carriera universitaria (e anche i compagni di partito lo consideravano «più un filologo che un rivoluzionario»). Questo essere dentro/fuori  l’Accademia, essere outsider ma capace di dialogare con la cultura più «elevata» e istituzionale, quanto ha contato per figure come Marx e per la ricezione del suo pensiero?

Giustissima domanda! Per un verso bisogna ribadire, credo, il fatto che Marx si formi nel cuore della cultura più alta del tempo, quella tedesca idealistica ruotante intorno all’università di Berlino. Poi c’è la scelta di vita: esule più volte, randagio, una vita tremenda descritta in lettere in cui si parla dei debiti accumulati col salumiere, una condizione per cui deve continuamente chiedere aiuti economici. In quella stessa lettera del febbraio 1861 a Engels, Marx racconta con amarezza come fosse sul punto di andare in Olanda a chiedere soldi a uno zio ricco. Karl non sa se otterrà questi quattrini, ed Engels, il destinatario della lettera, ha fatto del suo meglio per aiutarlo. Ma questa situazione non gli ha impedito di continuare a studiare da libero ricercatore materie per le quali esisteva una consolidata scienza ufficiale: l’economia politica, tedesca e non solo, rappresentata da grandi personaggi tutti accademici coi quali egli è in costante polemica. 

Quali sono state le conseguenze? Innanzitutto, una certa difficoltà a recepirlo, a leggerlo. A lungo Marx è rimasto ai margini, ignorato dall’alta cultura. Quando pubblica il primo volume del Capitale nel 1867, cerca invano una recensione su una rivista piuttosto importante a cura di Edward Spencer Beesly, che era professore di economia a Londra, che peraltro presiedette la prima seduta inaugurale della Associazione Internazionale dei Lavoratori, la cosiddetta Prima Internazionale. Ma costui alla fine non riesce, o non vuole, non si sa, a far pubblicare questa recensione, in una rivista riconosciuta, circolante nel mondo accademico, e quindi questo libro importante che è il primo volume del Capitale non ha neanche questo riconoscimento. Marx ha molto patito questa situazione, anche se non era il tipo da cadere in depressione. Certi accenni polemici molto aspri qua e là disseminati nel primo libro (ma anche nei successivi, pubblicati da Engels), si spiegano proprio con la volontà di contrapporsi alla scienza ufficiale, che a sua volta lo rifiutava. Però egli sa anche quanto sia importante aggiornarsi: per esempio per quel che riguarda il mondo antico, guarda a opere di riferimento di prim’ordine. A un certo punto segnala a Engels la pubblicazione della Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft  [un’enciclopedia di riferimento di studi classici, oggi ripubblicata e aggiornata, Ndr], il cui quinto volume è del 1848. Marx polemizza contro alcune voci di questa enciclopedia, per esempio la voce Economia. E non bisogna dimenticare quanto spesso egli citi la Storia romana del Mommsen. È vero che nel Capitale Marx sostiene che Mommsen passi «da un quiproquo all’altro». È falso, senz’altro, ma per Marx è molto forte la tentazione di sfidare la scienza ufficiale, della quale ovviamente capisce l’importanza. Il fatto che si cimenti con Mommsen significa che Marx ha capito che quello è il «meglio» della scienza dell’antichità di quegli anni. E forse anche degli anni successivi.

Gramsci è, seppure in un contesto italiano, nella stessa posizione e non ha avuto modo (il meglio lo ha fatto in carcere) di far circolare da vivo la sua geniale lettura critica della scienza ufficiale. Chi ha saputo valorizzare al meglio questo aspetto è Palmiro Togliatti. Non è da dimenticare che l’ultimo scritto di Togliatti, pubblicato su Paese sera nel giugno del 1964, è la recensione all’antologia Duemila pagine di Gramsci del Saggiatore. Togliatti vi afferma solennemente che Gramsci appartiene alla cultura italiana, non può rimanere legato soltanto al partito [«Antonio Gramsci è la coscienza critica di un secolo di storia del nostro paese… Sono oggi presenti nella ricerca politica, nelle posizioni ideali e pratiche del nostro partito. Ma i compagni mi scusino se dico che non è questo, a mio modo di vedere, ciò che conta di più», Paese sera libri, 19 giugno 1964, Ndr]. Il segretario del Pci vuole dire che Gramsci ha discusso a distanza con i principali esponenti di questa cultura, quelli di maggior rilievo. E c’è una pagina di Gramsci, nei Quaderni dal Carcere, che, quasi profeticamente, riflette su questo punto. Gramsci dice che il marxismo è il frutto della cultura più elevata del suo tempo; e tuttavia, calandosi nella realtà concreta, ha dovuto banalizzarsi e semplificarsi fino a diventare altra cosa rispetto a quello che era dal punto di vista intellettuale e filosofico. Il vero compito che avremo – dice ancora Gramsci – è quello di riagganciarlo, allinearlo di nuovo alla cultura più elevata. In questa acutissima pagina, Gramsci riconosce l’inevitabilità di diventare una filosofia comprensibile e quindi adatta a una battaglia quotidiana, ma è consapevole del rischio che tale filosofia perda la propria specificità, originalità e elevatezza. Il programma, per l’uno e per l’altro (e anche per noi) resta questo.

Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin l’8 luglio 2023

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