In ritardo sui troppi treni in corsa di una stagione estiva vorace e un tantino ipertrofica dal punto di vista delle proposte, mi ritrovo finalmente a scrivere, qualche tempo dopo una ricca conferenza stampa in Marescotti, della edizione del festival di Santarcangelo, iniziato venerdì 7 luglio.
Naturalmente, un programma che si estende su due settimane intensive di lavoro all’insegna di un cosmopolitismo programmatico, ha le sue belle difficoltà ad essere descritto e raccontato.
Raggiungo pertanto telefonicamente Tomek, come tutti amichevolmente chiamano il “papa estero” del festival per così dire, ovvero il direttore artistico di origine polacca, giunto al secondo mandato dei tre anni contrattuali previsti, il che significa per lui dover affrontare i nodi inerenti continuità- discontinuità o tentare di rideclinarli. Già sappiamo naturalmente che in verità il nostro direttore artistico conosce molto bene la realtà, la vita culturale italiana per aver vissuto anche a Roma ed ha una eccellente padronanza della nostra lingua, cosa che gli consente di sviluppare in maniera chiara e forbita ragionamenti complessi
E naturalmente sappiamo anche che un festival così longevo e articolato, territorialmente radicato come una tradizione locale e nazionale imprescindibile, nel contempo così internazionalmente stimolante sempre, ha dietro di sé necessariamente una squadra di lavoro affiatatissima e solerte ed un think tank di supporto dislocato a tutti i livelli del discorso. Ovvero una amministrazione comunale convinta in prima fila nel sostegno quale quella capitanata dalla giovane ed assidua sindaca- follower Alice Parma e da una presidenza della rete dei Comuni consorziati affidata allo studioso e docente all’università di Urbino Giovanni Boccia Artieri, aggiungendo a tutto questo il contributo della Fondazione Maggioli, quello di Hera che si preoccupa della sostenibilità ambientale del festival, quello di numerose ambasciate estere ed istituti di Cultura di diversi paesi.
Insomma la visione c’è e si conferma e rafforza, come poi scopriremo durante l’intervista, ma Santarcangelo non è un fatto di uomini soli al comando
Si potrebbe cominciare da diversi punti di vista, ma non posso esimermi dal richiamare la tragicità degli ultimi catastrofici eventi naturali, particolarmente gravi in terra romagnola per chiederti come possono aver influenzato e condizionato questa edizione del Festival-
Dobbiamo precisare che la collina santarcangiolese è stata anche graziata per molti aspetti. Tuttavia, è stato anche angoscioso preparare il festival in questo contesto tanto drammatico. Nessuno può dire di essere uscito indenne da questa vicenda, se poi pensiamo che abbiamo dovuto rinunciare a certe location tradizionali e proporne altre. Come sai il festival è tradizionalmente una festa mobile che vive anche di corsi e ricorsi storici sull’utilizzo di certi luoghi e diciamo che in fondo può essere stato uno stimolo in più a costruire cose nuove. In ogni caso il parco Baden Powell, tradizionalmente Imbosco per tutti quanti, l’after festival più glam e carico della penisola, è risultato inagibile e abbiamo dovuto inventarci una nuova area all’entrata del paese. Cosi come la rappresentazione di Chiara Bersani ha dovuto essere collocata in questo podere meraviglioso fuori dal paese, anche se ciò comporta un piccolo sforzo organizzativo in più. Tutto questo ha rafforzato la nostra convinzione di lavorare in una certa direzione che hai molto ben presente, olistica direi. Fortemente contraria allo specismo gerarchico e alle logiche del consumo sfrenato e inconsulto in capo ad una logica di capitalismo ultraliberista Molti artisti raccolgono il grido di dolore che viene dal pianeta, dalle sue creature che subiscono devastazioni, mutilazioni e mortificazioni e questo ha un forte impatto nella costruzione complessiva del festival, nella sua comunicazione conseguente fruizione-
A questo proposito, il claim di quest’anno, Enough, not enough, si presta a diverse interpretazioni, ha una sua ambiguità pop …che risulta seducente. Vuoi dirci qualcosa a riguardo?
Con buona pace di tutti quelli che fanno campagna contro le esterofilie linguistiche, dobbiamo ammettere che la lingua inglese consente molti più giochi di parole… questo ha molto a che vedere con l’impostazione di tutta la rassegna…ho detto in sede di conferenza stampa bolognese che rimarco le scelte fatte fin qui, ma è chiaro che ogni volta ci si sposta un pochino più in là… se l’anno scorso abbiamo sondato i temi e le sensibilità, quest’anno, poiché è evidente a tutti che soluzioni ai conflitti e alle emergenze non si sono trovate, ci si fa carico della difficoltà di trovare una risposta di efficacia e coerenza allo stato di cose.
Ci può essere una nota di impazienza e indignazione in questo abbastanza, come limite di tolleranza, ma anche un interrogarsi sulla parte che ognuno di noi può fare… sarà sufficiente? Ci sarà il classico troppo da cui sono afflitte le nostre bulimiche società? La mia inclinazione è quella di vedere un insieme di sforzi personali che possono fare massa critica quando diventano collettivi.
Hai sentito su di te la responsabilità di una possibile fine di luna di miele con l’establishment critico opinionistico e con il pubblico, dopo una edizione in cui magari si guarda con benevolenza al nuovo arrivato, per poi magari pretendere” nuovismo” ad ogni edizione successiva? si è anche discusso parecchio di certe selezioni e certe poetiche artistiche che spingono sul pedale della proposizione del famoso Messaggio…
La responsabilità di fare un lavoro culturale coerente e di elevato livello qualitativo, di dare sempre il massimo, incontrando e soprattutto ascoltando e seguendo realmente il lavoro del più alto numero di talenti interessanti possibile, la sento tutta, ma so che stare in pista e rendersi visibili quando si mette la firma della curatela di un progetto, quando parimenti si va in giro a vedere i festival degli altri è il prezzo implicito e devo dire che non mi spaventano le critiche. veramente accetto la pluralità e differenza dei punti di vista …Questa è politica, dibattimento. Il teatro è gesto politico, perché rivendica due cose, il farsi largo, prendersi spazio e il prendere parola. Sono convinto che in questo momento non ci sia nulla di più politico dell’arte performativa, perché anche ibridando i corpi con medium e tecnologie differenti, ci offre una implicita rappresentazione problematica dello stato presente delle cose. Inoltre, come potrei dirtelo, le stesse provenienze geografiche, le stesse travagliate biografie personali e professionali, lo status di migranti della conoscenza, di spiriti esuli per definizione come quelli degli artisti, che per sete esplorativa, per ricerca di risorse e stimoli, addirittura perché perseguitati, nutrono in loro il seme nomadico, sono dimostrazione plastica di quanto ciò che agiamo sia sempre e comunque politico. Indipendentemente dalla nostra consapevole o addirittura meditata intenzione di lanciare una sfida, un appello, un messaggio in tal senso.
Non siamo amministratori, non siamo decisori, non siamo nelle élite del controllo, del potere, della politica come sistema e neppure nel discorso delle formazioni anti o contro. Ma siamo indubbiamente altro, dai modelli dominanti, siamo testimoni con i nostri corpi, che spesso portano i segni di una tangibile denuncia, di una realtà che è dentro e intorno a noi.
E ti dirò anche che oltre al segno, alla presa di parola, alla definizione di uno spazio, noi rivendichiamo la condizione di testimoni del nostro tempo e dunque narratori.
Non hai notato come infine quelli che sono grandi temi universali, come la pace, la guerra, la sopravvivenza, siano in realtà assenti da un dibattito pubblico? Non hai notato che, nonostante la nostra iperconnessione continua, le autentiche informazioni, notizie, che non suonino semplici comunicazioni di servizio e di consenso, sono totalmente assenti dalle nostre reti? Se non ci fossero gli artisti cosmopoliti che svolgono un costante lavoro dialettico tra radici e spaesamento, identità, appartenenze e comunione universalistica, noi tutti saremmo molto più poveri di punti di vista, approcci e conoscenze, dei mondi più o meno lontani che ci vengono resi comunque difficilmente visibili.
In questo senso puoi anche capire che il mio concetto di continuità sia in realtà aggiornamento e adattamento, innovazione graduale e progressiva … certo che le novità ci sono, nel senso come dicevo di posti mai utilizzati prima per il festival e spostamenti per alcune situazioni più consolidate, dei nuovi lavori di artisti affermati come Kristal Rizzo, che da anni è costantemente presente al festival o naturalmente anche si, ci sono nuovi incontri maturati in un anno di sensibile ascolto e ricerca. Tuttavia il nuovismo ad ogni costo, sganciato da una visione e da un impianto valoriale non mi interessa.
Trovo che i festival debbano essere grandi occasioni di incontro, con la grande comunità sia stanziale che transeunte del pubblico e della critica dei festival, ma anche degli artisti tra loro, che è bene creino reti di supporto e piattaforme. Il grande problema che ha l’arte oggi, essendo quella più di massa e anche in fin dei conti più sperimentale, a forte trazione pubblica è di avere un ‘etica di progettualità e di sostenibilità non solo ambientale, ma anche di riproduzione sociale possibile del fatto culturale. ecco che il problema del nuovo e del vecchio se le esperienze hanno tempo di sedimentare e trasmettersi diventa molto relativo e si legge sotto tutta un’altra luce. Per questo amo i ritorni come ad esempio quello di Eva Geatti, che è stata qui molto tempo a lavorare con i giovanissimi in modo laboratoriale. Oppure di Francesca Pennini che torna dopo un terribile incidente quasi a nuova vita qui. Per questo, sapientemente una novità quale DanzEr, prima edizione di un progetto teatrale sulla danza diffusa nato da diversità istituzionali di settore compatibili tra loro tra macro e micro come assessorato Regionale, ATER, Aterballetto ed ERT, un po’ sorto dalle ceneri di Ebal, oppure una rilettura della critica, in versione laboratorio itinerante di giornalismo culturale, realizzato da Altre Velocità, convivono con conferme come i laboratori ormai tradizione come la non scuola di Albe e quello Let’s Revolution-Teatro Patalo, cosi come appunto la mitica camera di decompressione che è l’Imbosco di via Morigi. La qualità è importante, ma per dare contorni al senso desiderante, partecipato e festoso che Santarcangelo di fatto è ed è sempre stato, contano anche i numeri e dunque oltre 40 artisti per 96 repliche e dieci giorni di programmazioni, vogliono già significare qualcosa.
Siamo poi molto orgogliosi, dopo aver fatto il nostro scouting, di poter sostenere le nostre scoperte e cosi, grazie al progetto Fondo, che per noi è motivo di vanto in quanto tavolo di lavoro per il supporto delle creatività emergenti che mette insieme Santarcangelo Festival e 12 realtà nazionali, vedremo due nuove produzioni di Emilia Verginelli, performer e regista con una formazione nel mondo del volontariato e dell’attivismo, che ha segnato indelebilmente la sua prima giovinezza e di Agnese Banti, che propone invece un originalissimo dispositivo coreografico per voce cavi, altoparlanti. Sara Sguotti è l’altro nome emergente della giovane danza che vi sentiamo di consigliarvi. Ma accanto a ritorni dal Brasile come Ana PI o dal Sudafrica come Ntando Cele, che sanno ben mescolare postura queen e tematiche ambientali, a proposito di fatti politici, voglio segnalarvi anche per tutti in piazza Ganganelli la nuova versione della performance Scream for Belarus di Jana Shostak, che è l’adattamento della sua azione artistica di protesta davanti alla sede della Commissione europea a Varsavia, contro gli abusi nei confronti della popolazione e degli oppositori, commessi dalla familistica dittatura bielorussa nel silenzio assordante dell’opinione pubblica e tutto sommato financo delle istituzioni europee.
A proposito di piazza Ganganelli… ritornerà la cena benefit comunitaria offerta dalle associazioni di categoria del territorio in favore evidentemente delle popolazioni alluvionate, ma riprenderemo anche la consuetudine del ristorante del Festival che era mancato a tanti.
Direi che il quadro fin qui delineato, sia pur per sommi capi è estremamente composito ed esaustivo delle nostre curiosità. Tuttavia, mi stavo chiedendo se alla fine stavi già dispiegando dentro di te una possibile traiettoria per chiudere questo triennio.
Diciamo che ho già delle intenzioni su linee di sviluppo da seguire, ma è anche vero come ti accennavo all’inizio, che assemblo poi molte sollecitazioni che mi arrivano anche dalle critiche e dalle reazioni, dall’impatto che poi le cose hanno sul pubblico … Sai che sono molto presente in giro e raccolgo tutti gli spunti. Eppoi sai bene che il Festival è un lavoro continuo nel corso dell’anno e ci sarà modo di definire tappe. Qui non esiste cappello a cilindro da cui spuntano cose, ma un intelligente lavoro di squadra e bisogna render atto a tutti i suoi componenti di una grande abnegazione e passione.
Mi congedo dall’amabile direttore artistico rivolgendo a mia volta un grato pensiero a Irene Guzman e Matteo Rinaldini, a loro volta affabili capi ufficio stampa di una schiera di volontari e collaboratori davvero paziente ed empatica. Non resta che augurare a tutti: Enjoy, ricordando che il festival chiuderà ufficialmente i battenti domenica sedici luglio.