Si chiama water grabbing, è la prosecuzione su scala locale delle guerre dell’acqua dichiarate da anni. A spese dell’ambiente e al costo di sconvolgimenti sociali a danno dei più deboli.
La crisi idrica che stiamo attraversando ha riportato in auge nel dibattito pubblico il tema della gestione dell’acqua. Abbiamo visto, nelle scorse settimane, come la prolungata fase siccitosa ha spinto il governo alla costituzione di una cabina di regia ad hoc: misure urgenti confluite nel Decreto Siccità. Però le soluzioni proposte vanno nella direzione opposta rispetto a una governance intelligente di gestione della crisi idrica. Nel piano di interventi tutto è incentrato su nuove colate di cemento: semplificazione e commissariamenti di nuove opere come invasi, bacini, dighe. Non vengono tenute in considerazione le cause a monte dell’emergenza, che riguardano proprio l’impermeabilizzazione del suolo dovuta all’eccessiva cementificazione, i cambiamenti climatici e i tanti casi di water grabbing sul nostro territorio. In Italia l’acqua c’è, quello che manca è una gestione adeguata delle risorse.
Water grabbing
Si definiscono water grabbing tutti quei casi di appropriazione e depauperamento di risorse idriche ai danni di popolazioni ed ecosistemi. Esistono varie forme attraverso cui questo avviene: Vandana Shiva nel suo Le Guerre dell’Acqua spiega bene la vastità del problema, dando un significato al concetto che va ben oltre la semplice «privatizzazione» dell’acqua come merce, ma che si estende anche alla sottrazione di questa attraverso l’inquinamento delle risorse idriche, il disboscamento, l’impermeabilizzazione del suolo, i cambiamenti climatici e tutti quei fattori del nostro sistema di sviluppo che influenzano negativamente il ciclo idrologico.
Partendo dalla definizione «ampia» di water grabbing, è utile considerare come questa dinamica di spoliazione combinata con i sempre più frequenti periodi siccitosi – causati dai cambiamenti climatici – stia portando a condizioni di scarsità idrica sempre più gravi in Italia, compromettendo la salute e il benessere della popolazione e degli ecosistemi nel nostro territorio.
Le alluvioni – come quella che si è abbattuta sulla Romagna in questi giorni – non sono causate esclusivamente dalle piogge torrenziali, ma anche e soprattutto dall’incapacità del terreno di assorbire l’acqua piovana. Questa incapacità è a sua volta determinata tanto dalla cementificazione e dalle soluzioni non sostenibili di incanalamento artificiale dei corsi d’acqua, quanto dalla distruzione dell’humus del terreno, a causa dell’eccessivo uso di pesticidi, diserbanti usati dall’agricoltura industriale. A lungo andare queste pratiche aumentano la sterilità del suolo, impedendo alle acque di penetrare nel sottosuolo, favorendo così il processo di desertificazione.
Agroindustria e acqua virtuale
Un punto importante su cui riflettere è quindi legato alla produzione di alimenti: in Italia ogni anno si prelevano 33 miliardi di metri cubi di acqua sul territorio nazionale, di questi circa il 22% viene disperso prima del consumo a causa delle carenze della rete idrica. Dei 26 miliardi di metri cubi che si consumano, il 55% circa della domanda proviene dal settore agricolo e dall’allevamento. L’utilizzo d’acqua per l’irrigazione si concentra al nord con in testa Lombardia 42%, Piemonte 16,6% e Emilia-Romagna 6,8%.
Oltre all’acqua proveniente dal nostro territorio, per avere una stima precisa dell’impronta idrica del nostro paese, bisogna considerare anche i consumi in termini di «acqua virtuale», cioè quella utilizzata per produrre alimenti, beni di consumo e servizi che utilizziamo ogni giorno. Su questo Marta Antonelli e Francesca Greco hanno fatto luce nel loro testo L’acqua che mangiamo: l’Italia è il terzo importatore al mondo di acqua virtuale, dopo Giappone e Messico, con i suoi ben 62 miliardi di metri cubi all’anno, spesso sottratti a paesi più poveri. La maggior parte delle risorse idriche che importiamo sono destinate alla zootecnia: come riporta un dato della Water Footprint Network per produrre un chilo di carne bovina sono necessari 15.000 litri di acqua.
L’agrobusiness produce scarsità di risorse idriche, non solo in relazione ai consumi d’acqua, ma anche per quanto riguarda la contaminazione provocata dal deflusso di fertilizzanti azotati e pesticidi. Un rapporto dell’Ispra del 2021 ci dice che in Italia ogni anno si usano 114.000 tonnellate di pesticidi, che rappresentano circa 400 sostanze diverse. Nel 2019 le concentrazioni misurate di pesticidi hanno superato i limiti previsti dalle normative nel 25% dei siti di monitoraggio per le acque superficiali. Tanti gruppi e associazioni come l’Ari (associazione rurale italiana) denunciano da anni le pratiche agricole adottate dalle grandi imprese del settore, promuovendo un modello ecologico di agricoltura che non sia puramente predatorio.
Militarizzazione e water grabbing
Si possono considerare forme di water grabbing anche il furto di acqua dovuto alla militarizzazione dei territori. La guerra in Ucraina ha favorito una corsa al riarmo in tutti gli Stati aderenti all’Alleanza atlantica, anche la nostra penisola è attraversata da grandi esercitazioni in Sardegna nel poligono di Teulada e nuovi progetti di infrastrutture militari ad alto impatto ambientale in Toscana e Sicilia.
Il 2 giugno 2022 un corteo imponente ha attraversato le strade e i campi di Coltano, una piccola località della Toscana, per protestare contro la volontà di costruire nell’area un’enorme base militare su una superficie di 73 ettari e con 440mila metri cubi di edificato.
È recentissima la notizia di una nuova base di addestramento in Sicilia. Il progetto prevede la costruzione di un hub militare di oltre 33 chilometri quadrati che dovrebbe sorgere tra i comuni di Gangi, Sperlinga e Nicosia, con la creazione di un deposito di armi, automezzi e munizioni nella zona artigianale dismessa di Sperlinga, e la trasformazione di alcuni edifici comunali in caserme per ospitare i militari. Da qui la protesta dei residenti che sotto la sigla di «comitato identità e sviluppo» si oppongono al progetto che, come ci spiega Tiziana Albanese «è totalmente incompatibile con la vocazione naturalistica, agricola e turistica della zona».
Come già esposto in precedenza, la Sicilia è la regione maggiormente soggetta al processo di desertificazione, in questo contesto le basi militari non solo contaminano il suolo e le falde acquifere con sostanze tossiche (tra cui Pfas) e scarti bellici, come avviene nelle basi di Niscemi e Sigonella, ma consumano esorbitanti quantità di risorse idriche. Come ci spiega Antonio Mazzeo in un libro curato da Daniele Padoan, un rapporto del Public Works Department del Pentagono riporta che il consumo medio settimanale di Sigonella è di 1.900.000 litri d’acqua al giorno, che a fronte di circa 5.000 militari Usa presenti nella base, equivale a un consumo di 380 litri pro capite. Se prendiamo i dati del consumo pro capite al giorno delle città di Palermo (168 litri), Caltanisetta (130), Agrigento (130), Enna (118), ci accorgiamo che il water grabbing delle basi militari siciliane provoca un deterioramento ambientale, sociale ed economico per tutta l’isola, intensificando il processo di desertificazione.
Infrastrutture e crisi idrica
«Una decisione storica attesa da più di cinquant’anni» ha esultato il ministro delle infrastrutture Matteo Salvini dopo l’approvazione in Senato del DL Ponte, che darà il via all’iter per la costruzione del ponte sullo stretto di Messina, l’ennesima grande opera inutile e dannosa per l’ambiente. Da nord a sud l’Italia è costellata di infrastrutture che hanno favorito solo il business del cemento, senza un’effettiva ricaduta positiva per la popolazione, al contrario molto spesso queste hanno contribuito al degrado delle risorse idriche.
Uno dei casi più eclatanti è quello del Tav e nello specifico tra le tratte più critiche da questo punto di vista ci sono la Bologna-Firenze e la Torino-Lione. Nel primo caso, la costruzione di 73 km di gallerie sottostanti la valle del Mugello, ha causato il prosciugamento di 81 corsi d’acqua, 37 sorgenti, una trentina di pozzi e cinque acquedotti. Poi c’è anche l’inquinamento del territorio per i depositi di terre di scavo contaminate da idrocarburi. Per questo disastro ambientale erano state emesse 19 condanne nel 2014 ai vertici di Impregilo, che successivamente sono state annullate dalla Cassazione, in conclusione nessuno ha pagato.
Per quanto riguarda il tratto Torino-Lione, a seguito di un’inchiesta dei comitati legati al movimento No Tav si evince dai dati forniti da Telt (la società italo-francese incaricata della realizzazione dell’opera) che il solo cunicolo esplorativo costruito tra il 2013 e il 2017 ha prodotto 245 fuoriuscite d’acqua per una portata complessiva di 102,6 litri al secondo. Su base annua il volume d’acqua fuoriuscito equivale al fabbisogno di una comunità di 40.000 persone, se l’opera venisse realizzata per intero, le perdite ogni anno sarebbero tali da coprire i volumi d’acqua necessarie al fabbisogno di 600.000 persone. Possiamo così affermare che la lotta del popolo No Tav è anche una lotta contro lo spreco e per la salvaguardia delle risorse idriche, che va a beneficio non solo della Val Susa, ma di buona parte del bacino del Po.
Le Olimpiadi invernali Milano-Cortina 2026
Per quanto riguarda i casi di water grabbing in Italia le Olimpiadi invernali Milano-Cortina 2026 rappresentano sicuramente l’esempio più emblematico. Come abbiamo potuto constatare negli ultimi anni le precipitazioni nevose sulle Alpi sono crollate a picco con il 63% di neve in meno rispetto alla media degli anni precedenti. Un report di Legambiente mette insieme un po’ di dati per inquadrare la drammaticità della situazione per quanto riguarda il turismo alpino e i consumi idrici:
Considerando che in Italia il 90% delle piste è dotato di impianti di innevamento artificiale il consumo annuo di acqua già ora potrebbe raggiungere gli 96.840.000 di metri cubi che corrispondono al consumo idrico annuo di circa una città da un milione di abitanti.
Le Olimpiadi invernali di Pechino dello scorso anno sono state le prime nella storia svolte su piste composte dal 100% di neve artificiale. Sono stati impiegati circa 222,8 milioni di litri d’acqua per innevare tutti gli impianti. Immaginare di utilizzare una quantità analoga di risorse idriche per le prossime Olimpiadi di Milano-Cortina ci dà la portata dell’ingiustizia climatica a cui stiamo andando incontro. La realizzazione di questo ecodisastro si dipana attraverso la costruzione di mega bacini artificiali, infrastrutture stradali ed edili, molte delle quali già in opera, che andranno a devastare il già fragile ecosistema alpino.
Water grabbing e lotte territoriali
Studiare le alterazioni del ciclo dell’acqua è un buon punto di osservazione per cogliere meglio le contraddizioni dell’attuale modello di sviluppo e l’Italia è – e sarà – un hot-spot per quanto riguarda gli effetti più gravi dei cambiamenti climatici. Come dimostra un recente studio il Mediterraneo è tra le zone della terra che si stanno riscaldando più velocemente e con più intensità e questo provocherà sconvolgimenti sociali ed economici considerevoli nel prossimo futuro. Come scriveva il geografo Jean Labasse si combatte su due fronti: è una battaglia per l’acqua e di migliore qualità per tutti ed è una battaglia contro l’acqua in difesa dalla sua violenza.
Ricardo Antunes nel suo Capitalismo Virale, sostiene che la pandemia ha reso più evidente il deserto prodotto dal sistema economico neoliberale nelle nostre società, mi sembra che lo stesso si possa dire proprio in questi giorni della crisi idrica. È uno schema che si ripete, in cui si passa da uno «stato d’emergenza» all’altro e dove l’emergenzialità diventa occasione di speculare sul disastro.
A questa governance si oppongono i numerosi comitati, associazioni, collettivi che proprio nell’ultimo periodo sono stati protagonisti di una grande azione di solidarietà nelle zone alluvionate. Una buona parte di questi sono gli stessi che animano la galassia del climattivismo e che il 17 giugno hanno convocato a Bologna la marcia «10.000 stivali verso la regione».
Le lotte sociali contro il water grabbing – che in India e altri stati del mondo è da anni un tema centrale nell’agenda dei movimenti ecologisti – anche alle nostre latitudini stanno assumendo una centralità sempre maggiore. Nel prossimo futuro approfondire la ricerca del nesso acqua-energia-cibo sarà necessario per formulare una strategia politica per una transizione ecologica che tenga conto delle disuguaglianze sociali.
*Federico Scirchio, laureato in filosofia e militante di ecologia politica, si occupa di temi legati all’ecologia e alle nuove tecnologie
Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin il 7 giugno 2023