«Barbiana, quando arrivai, non mi sembrò una scuola. Né cattedra, né lavagna, né banchi. Solo grandi tavoli intorno a cui si faceva scuola e si mangiava». In pochissime parole estratte da Lettera a una professoressa, il testo più famoso uscito da Barbiana scritto da don Lorenzo Milani e i suoi ragazzi nel 1967, troviamo l’immagine nitida di che cosa fosse la scuola di don Milani, una scuoletta di campagna, una multiclasse come si sarebbe detto allora. Eppure a quella sperduta scuoletta hanno guardato con interesse e stupore Erich Fromm, Alex Langer, Franco Fortini, Pier Paolo Pasolini, Neera Fallaci, Tullio De Mauro e tantissimi altri, ieri come oggi. E allora, quale è il segreto di questa scuola? Perché don Milani ci è ancora indispensabile?
La prima cosa importante da dire è che da Barbiana arriva una indicazione molto precisa su chi debba essere al centro del processo educativo, non perché gli altri contino di meno, ma perché da sempre a rischio di esclusione. Chi non possiede la lingua, chi non è destinato all’istruzione, perché “bravo”, “meritevole”, o semplicemente di famiglia predestinata a studiare. Sia Lucignolo o Franti, è lui, secondo don Milani, che avrebbe più bisogno della scuola, mentre, troppo spesso, ne viene espulso. La scuola, così, diventa un ospedale che «cura i sani e respinge i malati», come è scritto in Lettera a una professoressa. Una scuola buona soltanto per riprodurre, per dirla con il sociologo Pierre Bourdieu, il capitale culturale della famiglia. «La distinzione in classi sociali non si può fare dunque sull’imponibile catastale, ma sui valori culturali» (Pierre Bourdieu, Jean-Claude Passeron, Les héritiers, 1964; trad. trad. it., I delfini, 1970). Lorenzo Milani questo lo sa bene fin da ragazzo, anche perché lui stesso ha un rapporto conflittuale con la scuola e perché i suoi genitori sono davvero speciali, la sua istruzione si fa altrove. Insomma, riprendendo Bourdieu, possiamo dire che Lorenzo Milani è un predestinato: è figlio di Albano Milani Comparetti e di Alice Weiss, sposati con rito civile. Il padre discende dall’illustre filologo Domenico Comparetti, mentre la madre, ebrea triestina non credente, imparentata con Italo Svevo, impara l’inglese da James Joyce nel periodo in cui lo scrittore si trova a Trieste; è inoltre cugina di primo grado di Edoardo Weiss, allievo di Freud e fondatore della Società italiana di psicoanalisi. Irredentista, repubblicana.
Milani sa bene cosa significa possedere la lingua da generazioni. Si trova però nella sua vita di prete a ragionare prima sugli operai di Calenzano (Firenze) poi sui contadini del Mugello e vede che quello che va bene per lui e per chi è come è lui, non va bene per loro e la sua diventa una indicazione di metodo: non escludete gli ultimi. Non certo un Bignami buono per tutte le stagioni, non un libro che dice come si fa scuola buona, ma un ragionamento preciso su quello che si trova davanti in quel momento, in quella stagione, in quei luoghi. Eppure, malgrado sia molto chiaro, quello di travisare quanto ha detto o fatto o scritto don Lorenzo Milani pare sia uno sport antichissimo. Fin dagli anni di Calenzano, la prima chiesa a cui viene assegnato una volta uscito dal seminario nel 1947, don Lorenzo suscita sconcerto e preoccupazione, polemiche, viene senza dubbio frainteso. A provocare scandalo soprattutto la sua idea che sia inutile dire messa a chi non la capisce, a chi «non possiede le parole». Un’idea che è davvero rivoluzionaria, e se un aggettivo così logorato ha ancora un senso questo senso possiamo trovarlo in questa lettera che don Lorenzo scrive a Ettore Bernabei, futuro direttore generale della RAI, in quel momento direttore del Giornale del Mattino di Firenze.
«Io sono sicuro dunque che la differenza tra il mio figliolo e il vostro non è nella quantità né nella qualità del tesoro chiuso dentro la mente e il cuore, ma in qualcosa che è sulla soglia tra il dentro e il fuori, anzi è la soglia stessa: la Parola. I tesori dei vostri figlioli si espandono liberamente da quella finestra spalancata. I tesori dei miei sono murati dentro per sempre e insteriliti. Ciò che manca ai miei è dunque solo questo: il dominio sulla parola».
L’idea che solo la scuola possa operare questa trasformazione, dare la parola a tutti i cittadini e le cittadine della Repubblica è un’idea che in questi anni non ha, ovviamente, solo don Lorenzo Milani ma che lui esprime a partire dal punto di vista di chi ormai è perso alla scuola. Questa indicazione è quella più preziosa ancora oggi e averla a mente in modo limpido distingue chi è davvero convinto che tutti debbano avere l’uso delle parole non per diventare tutti artisti, come ha scritto Gianni Rodari, ma perché nessuno sia mai più schiavo
Questo articolo è stato pubblicato su Treccani il 21 maggio 2023