Prima di arrivare a parlare di questo spettacolo a mio avviso molto riuscito, bisogna fare qualche passo indietro e collocarlo, almeno in parte, dentro l’esperienza ormai rodatissima dell’itinerario artistico-progettuale che fa capo al percorso Arte e Salute, ricordando anche che dopo il debutto nazionale del 18 di aprile in sala Salmon di Arena, ad orari variabili, (consultate sempre il sito), lo spettacolo prosegue con successo le repliche fino al 7 di maggio.
Nanni Garella, regista formatosi nella prima giovinezza a Bologna, ma poi forgiato all’esperienza di palcoscenico in anni di lavoro con tutti i più grandi, Castri e Puecher, tra i nomi più significativi tra tanti e da una lunga permanenza milanese, nel 1999 inizia parallelamente ad altre regie e messe in scena, un ambizioso progetto in seno al Dipartimento di Salute Mentale di Bologna. Una direzione di Salute mentale che in verità, non ancora denominata così ed in anni lontani, a manicomio ancora aperto, bisogna dire avesse sempre riconosciuto l’estrema importanza e valenza terapeutica di numerose pratiche artistiche e artigianali.
Garella aveva però in mente qualcosa che andasse oltre un aspetto educativo e curativo in senso stretto e lo incontriamo nel delizioso accogliente cortile di Arena per farcelo raccontare in una breve conversazione poco prima si alzi il sipario: evidentemente non sempre lavorare così intensamente stanca, perché il Nanni bolognese ha la verve e il ciuffo sbarazzino di un eterno ragazzo.
Ricordo, esordisce, lunghe conversazioni in osteria con i vecchi amici conosciuti a Bologna, su questo sogno che avevo in testa: una compagnia di pazienti o utenti, come oggi si dice, del servizio, formata professionalmente in quanto attori.
Questo da senso al termine comunità, alla grande forza resiliente nello stare al mondo di questi soggetti e alla loro capacità di creare relazioni con il sé e il resto della società, molto diverse da quelle solitamente per loro, in quanto “categoria”, abituali, a partire da quelle anche con i propri cari, i cosiddetti caregivers. Teatro Salute agisce uno spazio di emancipazione vera perché anche professionale, economica, meta narrativa e auto-rappresentativa, in modalità colta e mediata. Io ho avuto qui grandi sodali, mentori e maestri, Filippo Renda, Angelo Rossi, padre Casali, purtroppo scomparso, con il quale intessevo conversazioni pazzesche, lui dal suo punto di vista umanistico-religioso, io da ateo e laico convinto. Ma Bologna è forse proprio questo: la capacità di esprimere dialettica.
Voglio aggiungere una cosa: ormai abbiamo realizzato più di 25 produzioni, spaziando da classici contemporanei quali Mamet, Pinter, Pasolini, certo si, assolutamente, Shakespeare…e indietro. Insomma, vorrei dire che oggi si è di nuovo innovativi e coraggiosi a produrre classici. Intendo dire che abbiamo bisogno di Teatro vero e non teatrini. Intendo dire che ci vuole capacità di scrittura e drammaturgia e che ci vuole un investimento in questo senso. Come vedi, anche qui, a parte tutto, ci vuole un cast, una compagnia vasta, una collaborazione di linguaggi e competenze. Certo, possiamo avere molti giovani talentuosissimi e desiderosi di misurarsi con il reale, ma poi abbiamo un tema di formazione, allargamento dello sguardo e dell’esperienza che solo investendo è possibile.
Per questo io dico ci vuole un investimento pubblico: io da anni lavoro con il teatro pubblico e ne sono orgoglioso. Oggi come oggi, riesco solo a concentrarmi su Teatro Salute, perché molto impegnativo. Per fare Porcile abbiamo lavorato tantissimo. Provato per molto tempo. La scabrosità del tema non ha toccato particolarmente i miei attori, i problemi piuttosto erano altri, relativi al senso da dare alla parola tragedia in Pasolini. Oltre al fatto abbastanza banalizzato, di questo linguaggio alto, complicato farlo arrivare alle orecchie degli spettatori… In questo caso di Porcile, io ho scelto di dare rilievo al conflitto generazionale e alle disfunzioni familiari, più che a un tema di transizioni politiche, che naturalmente c’è, però credo che la trasmissione di esperienze e modelli, sia la chiave di volta di Porcile, la diserzione totale, qui punita con l’autodistruzione, un tema molto attuale, dagli schemi produttivi e riproduttivi. Anche l’elogio dell’inutile. Dello spreco, che però, tragicamente, viene recuperato dalla logica del maiale di cui non si butta via niente, ma che, evidentemente, non butta via niente lui stesso.
Affrontiamo allora questo tema della tragedia e questa impresa di ripresentare in modo organico il corpus tragediografico pasoliniano ….
Certo penso che sia molto audace l’idea di rendere in blocco la tragedia pasoliniana, come avviene con questo progetto: spesso, nonostante atti e quadri, in Porcile molto numerosi e che tutti tagliano,( io ho tagliato solo dettagli), poi non è veramente tragedia … Nel senso, talvolta ha gli elementi della costruzione forma tragedia, talvolta invece ha più che altro il senso della tragedia, come evento. In molti casi, quelli in cui per esempio è forte l’elemento profetico-prefigurante, chiaro che il discorso rappresentazione e posizionamento delle classi diventi molto importante. Qui ci sono fatti compiuti e non aspetti vaticinanti e i contadini, non si presentano come elementi di scontro di classe quanto piuttosto come coro puro nei principi ed esterno, a meta tra la villa padronale e la buca della porcilaia, verso la quale essi stessi nutrono una specie di reverente diffidenza: il luogo del sacro e del martirio, secondo la metanoia, o rovesciamento valoriale pasoliniano. So che in passato altri registi, spinti dall’ansia di essere narrativi e popolari e forse più aderenti ad un discorso di ribellione giovanilista e sessantottina, hanno scelto per esempio di tagliare il monologo del fantasma di Spinoza. Io al contrario l’ho messo per esteso in quanto centrale per capire il personaggio trasognato protagonista, che è tutto il contrario di un immoralista perverso. Ma si fa portavoce di un disagio ontologico rispetto alle degenerazioni della sua stessa classe. La fusione di cui si parla in scena è poi la continuità sostanziale con il fascismo che Pasolini rinveniva nel nuovo stato repubblicano italiano.
Quale la chiave di volta, o meglio quale il punto di svolta per leggere questo tuo lavoro?
La grazia, l’umorismo, il sorriso, attenzione non il grottesco, che è una categoria per me molto scivolosa e che applico con il contagocce, specie qui, del tutto fuori luogo.
Io credo in realtà Pasolini non fosse una persona cupa, anche se intellettualmente complessa e tormentata. Penso avesse una pagana gioiosa scissione tra sesso e sentimenti, che, a parte la figura materna, avesse scelto di vivere in una sorta di sfamiglia allargata fatta di sodali, amici, collaboratori e che tutto sommato gli andasse bene così. Cosi, anche il giovane rampollo protagonista di Porcile è in fondo se non sereno, quantomeno placato nel suo essere alieno alle norme e soprattutto, non rientrare, cosa ancora più interessante, in alcuno stereotipo, cioè ne obbediente, ne disobbediente… Letteralmente, fuori da coro, né quello dei bla bla della sua classe di nascita che scrive e riscrive la storia a piacimento, né quello dei contadini o tantomeno degli studenti contestatori, pur sempre borghesi che vanno a protestare sotto il muro di Berlino. Un outsider che proprio per questo conquista una sua forma di pace interiore. Certo, tuttavia, non una voce capace di incidere, tanto che di lui non rimane neppure un bottone. quindi non si pone coerentemente né come eroe né come antieroe. Una testimonianza isolata a sancire l’antinomia tra individuo e società, questa sì, la vera tragedia pasoliniana, che non si ricompone mai e che chiama in causa le sue personali esperienze ed inclinazioni a fronte del giudizio emanato sia dagli avversari che dalla sua parte politica.
In ogni caso questi interpreti sentono perfettamente il tema dell’outsider ed il dispositivo che mi ha permesso di alleggerire il testo e dare anche umorismo al tutto è stato l’intervento fondamentale di Balletto Civile e dell’apporto coreografico di Michela Lucenti.
Abbiamo deciso che dovessero parlare i corpi e i movimenti nello spazio e si è rivelata una scelta azzeccata. Una formulazione inedita che non possiamo definire neppure teatro danza, che parte da elementi biografici forti, o quantomeno di ricerca di individualizzazione. Qui si dà senso e conto dei quadri di cui è composta la tragedia, che ricordiamo, divenne anche un controverso film nel 69. Abbiamo come dei tableaux vivants in scena e dei perfetti cambi d’inquadratura che non lasciano tempi morti e nel girotondo di relazioni intersoggettive veicolano anche l’idea di una classe altoborghese sconcia come una pochade.
Mi congedo da Nanni Garella appena in tempo per correre a sedermi ed assistere allo spettacolo che si rivela all’altezza delle aspettative: incredibilmente uno spettacolo pasoliniano, di solito legato ad una certa idea di verbosità e anche staticità scenica, si rivela animato e mosso come se avessimo di fronte un pop up rivisitato da una estetica di Weimar, tra Brecht e Grosz, insieme pero a richiami continui all’estetica del cinema anni 60-70, tra icone di stile come Silvana Mangano e personaggi alla Bellocchio o Petri. Siamo in una tutta teorica Germania del muro e anche Fassbinder viene in mente con la sua capacità di enfatizzare senza fare tuttavia caricature. Queste famiglie borghesi post-naziste sono peggio che il marcio in Danimarca e i loro rampolli frutti avvelenati per opposti diversi motivi. Solo la classe subalterna sullo sfondo ha ancora in sé rispetto ed innocenza.
Incredibilmente brillanti i dialoghi, nitidi ed efficaci come cristalli e conseguenti al fluido circolare dei corpi: un risultato davvero eclatante su un autore così ispido ed un tema così scabroso quale la zoofilia, a meno di comprendere che non è questo il core scandaloso della tragedia. Bensi il fatto di vivere in una società talmente abietta e dimentica della sua storia, da dover preferire il ritiro volontario dal consesso umano e infine la morte. Deliziosi i dialoghi, svagati e pungenti tra l il narcolettico, depresso, problematico eppur realizzato a modo suo Julian e la aspirante fidanzatina altoborghese contestatrice, tali da richiamare Amleto ed Ofelia, salvo la proattività tutta moderna di questa mancata eroina tragica. Mentre scrosciano gli applausi, ripenso a Garella e alla sua voglia di portare in scena l’Opera da tre soldi e penso che questa squadra saprebbe farlo in modo eccellente. Dopo momenti di inflazione brechtiana, da quanto tempo invece non vediamo in scena niente dal suo straordinario repertorio? Ma più di tutto rifletto su quanto si stia rivelando intelligente e lungimirante per le progettualità di Arena la originale formula collaborativa con il talento appassionato, orientato e rigoroso di Lucenti e Balletto Civile, sia che Michela porti in scena i suoi propri lavori, sia che sia in scena sia che crei partiture coreografiche su lavori altrui, peraltro assai distanti tra loro e dal suo specifico.
Una forma inedita di residenza che tra Arena e Moline sta dando grandi risultati e che mi riempie di buone speranze per il rinnovamento delle nostre forme drammaturgiche.