Il “viaggio” di Michel Foucault in California

di Silvia Veroli /
23 Aprile 2023 /

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C’è un Michel Foucault che nasce dopo il 1975, a quarantanove anni; è quello delle rivelazioni più dirompenti sulla sessualità che tanto impressionarono l’intellighenzia francese, un neo Foucault esito della due giorni trascorsa dal filosofo nella Death Valley in California dove fece esperienza in compagnia di Simeon Wade (docente universitario e studioso della storia intellettuale della civiltà occidentale) e del suo compagno, il pianista Michael Stoneman di un viaggio con l’Lsd. Un trip studiato dagli ospiti americani del filosofo francese nei minimi dettagli, in cui lo psichedelico venne preparato in dosi controllate e assunto ascoltando Stockhausen e bevendo Chartreuse; era il week end del Memorial Day, l’ultimo lunedì di maggio in cui negli Usa si celebrano i caduti in guerra, come sfondo gli scenari da universo parallelo della Valle incredibile scelta da Antonioni per il suo Zabrinskie Point che come noto prende il nome da una delle zone più mozzafiato del Death Valley National Park.
Un viaggio, geografico e mentale, che portò il filosofo del crimine, della follia e della sessualità, a riveder le stelle tridimensionali e vicinissime «il cielo è esploso e le stelle mi stanno piovendo addosso. So che non è vero ma è la Verità. L’unica cosa a cui posso paragonare questa esperienza è il sesso con uno sconosciuto. Il contatto con un corpo sconosciuto porta a un’esperienza della Verità simile a quella che sto provando ora». «Una delle esperienze più importanti di tutta la mia vita», ha detto. Vita che avrebbe voluto concludere assumendo Lsd, come Aldous Huxley : malato terminale nel 1984 reclamò la vicinanza dei suoi compagni di quell’avventura che non riuscirono però a raggiungerlo in tempo. Lo racconta Simeon Wade, il suo Virgilio nella discesa a Dante’s View, nel libro cronaca Foucault in California , edito in inglese nel 2019 e riproposto ora dalla eccentrica casa editrice Blackie Edizione con copertina pop, alla maniera di Warhol la cui arte riecheggia nel memoriale «il cielo intero rimbombava, vibrava e lampeggiava come una sala giochi. Pensai: è come Warhol. Sì, Warhol. Le stelle assunsero la forma di giganteschi addobbi natalizi (…). Sapevo che l’elisir paradisiaco mi permetteva di vedere l’intero spettro luminoso di ogni stella».

Il racconto, romanzo di formazione queer, ha l’introduzione di Heather Dundas, narratrice e drammaturga con una predilezione per i temi di arte, mostri femminile, filosofia del ventesimo secolo. A lei si deve l’opera maieutica di aver fatto venire alla luce il manoscritto che Wade ha tenuto nei suoi archivi per quarantuno anni, lo ha convinto a forza di incontri e corrispondenza analogica che si è trasformata in amicizia; la vicenda di Foucault in California, liquidata di norma con una noticina poco convinta nelle biografie del filosofo, ha avuto per decenni i contorni confusi di una leggenda metropolitana banalmente rubricabile alla voce «Foucault che si cala gli acidi nella Death Valley». Le indagini di Dundas, all’inizio scettica e intenzionata a sfatare una fake, hanno portato a evidenze fotografiche e lettere manoscritte. Ci sono diapositive che mostrano Foucault e Stoneman esili come molti ragazzi degli anni Settanta, l’autore di Sorvegliare e punire (pubblicato nell’anno del viaggio memorabile) con l’usuale maglia a collo alto, il bel cranio rasato, giacche bianche o a righe da Cappellaio Matto di Tim Burton. Fanno venire voglia di essere stati lì, una nostalgia retroattiva per un mondo in movimento con la colonna sonora dei Pink Floyd e Petti Page: una playlist sarebbe davvero opportuna, in accompagnamento al libro. La musica infatti ha un ruolo centrale nel racconto, come il la storia del pensiero. Il diario dei giorni in cui nasceva l’amicizia di Wade e i ragazzi californiani con Foucault (prima di quel maggio non si conoscevano, l’invito al viaggio fu temerario e formulato a margine di un convegno del pensatore francese negli States) è soprattutto l’annotazione dei loro dialoghi, in particolare delle domande che Wade e Stoneman gli rivolgevano, avidamente, su argomenti di ogni tipo.

«Conosci Bachelard?» «Fai la spesa nei mercati all’aperto a Parigi?». «Ci sono giornali che leggi regolarmente?». «Che opinione ha di Chomsky?» «Hai mai assaggiato la Tequila Sunrise» «Marx intendeva davvero distinguere strutture e sovrastrutture?».

La descrizione vera e propria del trip occupa poche pagine ed è raccontata senza schiamazzi, con pochi tratti decisi: le stelle, i transfer in auto lambendo Furnace Creek, laghi salati e dune di sabbia, l’aria calda, Foucault con gli occhiali da sole prestati deliziato dal fatto di somigliare al figlio di Kojak ed Elton John. Contano di più il flusso di complicità e amicizia che hanno generato il viaggio, il trasporto e la fiducia dimostrata dall’uomo famoso che si affida a un consesso di fan per un’avventura nel deserto; contano i riverberi dell’esperienza sul resto del soggiorno in California e sul lavoro del filosofo.

Prima e dopo spicca la radiografia di un’epoca, e guardarla in controluce è un po’ prenderne parte : è fatta di città come New York, un luogo amato da Foucault perché era possibile restarvi anonimi, cibandosi di cibo già distribuito da vending machine . E ancora Parigi e Berkley di cui nel 75 si rimpiangeva la versione del decennio prima, l’arte, Leonardo e Magritte citato dal cinema, Godard, la pellicola di fantascienza barocca Zardoz (omaggio a Oz) con Sean Connery vestito come Borat e diretto da Boorman dopo il successo di Un Tranquillo week end di paura. Il Taoismo, la letteratura, Sotto il Vulcano di Michael Lowry e Faulkner, la musica classica e elettronica. La nascita del movimento gay, l’importanza delle parole: gay ad esempio era già obsoleta «qui si può parlare liberamente di omosessualità, la parola non è peggiorativa, non significa più niente». E ovunque la California, distaccata dal continente e in scivolamento verso l’Asia, lontana anni luce dall’Europa ma anche dagli United States «America e California non sono la stessa cosa».

Si indovina un Foucault che, se non fosse morto prematuramente, avrebbe amato la tecnologia (sprona i ragazzi californiani a girare gli audiovisivi da sé con le macchine nuove), che già preferiva il cinema al teatro, lo studio dei meccanismi di potere a quello della letteratura. Che tra le distese di sale e monoliti simili a quelli di Henry Moore aveva capito gli usi del piacere e la cura del sé, e li avrebbe messi come titolo al secondo e terzo volume della sua Storia della sessualità.

Questo articolo è stato pubblicato su Alias il 22 aprile 2023

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