Per un giorno Casal di Principe è stata capitale d’Italia. Come Cutro nelle settimane precedenti. Paesi del Sud considerati malati di cultura mafiosa, pieni di oziosi e nullafacenti, parte di un’Italia minore, che assurgono invece al ruolo di anticipatori di un’Italia possibile, solidale, antimafiosa, generosa, orgogliosa, coraggiosa.
Per un giorno gli abitanti di questa cittadina casertana si sono sentiti orgogliosi di essere “casalesi”, perché compaesani di don Peppino Diana (il prete ucciso nella sua chiesa il 19 marzo del 1994, che con il suo comportamento di sfida quotidiana ai camorristi riscattava anche le troppe vigliaccherie dei suoi colleghi) e al tempo stesso orgogliosi di essere italiani perché accomunati al capo dello Stato dal dolore (personale e pubblico) per le tante vittime innocenti che hanno provato a contrastare il potere mafioso sacrificando la loro vita.
Che bello vedere il capo dello Stato sedersi in mezzo agli studenti, mettersi all’altezza dei loro sentimenti, dire parole che sanno di autenticità rispondendo a quelle altrettanto autentiche dei giovani che lo hanno accolto: “noi non vogliamo andare via da questi posti, vogliamo restarci per provare a cambiarli, se ci viene data la possibilità di farlo”.
Dopo Cutro, dunque, Casal di Principe. Dopo la tragedia degli immigrati morti in mare, il presidente Sergio Mattarella ha voluto essere presente al ricordo di una vittima di un’altra tragedia, quella dei morti per mafia, in questa “via crucis” laica nei luoghi-simbolo e nei problemi irrisolti di una nazione ferita dalla disumanità, dalla disunità e dalla violenza.
Sul problema delle mafie bisogna, però, ricordare semplici ma amare verità. L’impegno repressivo dello Stato è cominciato seriamente solo qualche decennio fa, dopo una secolare sequenza di “delitti senza castighi”. Se si volesse definire in poche parole cosa hanno rappresentato le mafie nella storia d’Italia si potrebbe parlare della più lunga e anomala guerra civile che si è svolta all’interno di un paese occidentale, con caratteristiche del tutto atipiche: essa non è stata occasionata da contrapposizioni etniche tra popoli diversi membri della stessa nazione, né da differenze di credo religioso, né da rivendicazioni di autonomia da parte di territori che pretendevano un primato su altri, né motivata da altre cause tipiche delle guerre intestine che hanno insanguinato molte nazioni al mondo. No. Si è trattato di una anomala e originale guerra civile, perché i carnefici combattevano unicamente in nome del potere e della ricchezza ed erano alleati con una parte di coloro che dovevano tutelare le vittime.
Il nostro non è, certo, uno Stato dominato dalle mafie, ma uno Stato che ha convissuto con le mafie. E lo ha fatto dal 1861 in poi. L’Italia presenta nella sua storia un lungo deficit di statualità di cui la convivenza con le mafie è sicuramente l’espressione più concreta, più tenace, più inaccettabile. Una guerra totale alle mafie non è stata mai proclamata, mai combattuta fino in fondo e mai vinta definitivamente. In alcune realtà si è accettato, quasi come fatto naturale, che ci fosse la caserma dei carabinieri, la piazza, il campanile e la cosca mafiosa.
Le mafie non appartengono alla categoria delle criminalità di predazione né alla violenza di ribellione, né tantomeno alla tradizione di contrapposizione alle istituzioni da parte dei violenti del popolo. Appartengono, invece, alla storia della “violenza di dominanza”, quella violenza che risponde alla “brama di autorità, di prestigio, di gloria e di potere”. Ma per esercitare potere stabile e continuativo i mafiosi hanno bisogno del riconoscimento di chi il potere già lo esercita nelle istituzioni preposte (politica, apparati di sicurezza, magistratura, economia). Una mafia che non si rapporta con i poteri costituiti è semplice criminalità.
Si può parlare di mafia solo in presenza dell’incontro tra strutture delinquenziali e circuiti politico-istituzionali, solo se si instaura un rapporto tra strutture criminali e poteri legittimi. La mafia, insomma, è “una declinazione criminale del potere”.
Sergio Mattarella prova a delineare con la sua presenza (le sue parole e la sua storia personale) un’Italia non indifferente ai drammi umani, più unita e senza relazioni con le mafie. Un’Italia possibile, se si vuole.
Questo articolo è stato pubblicato su Repubbllica il 22 marzo 2023