I movimenti politici non si nutrono solo di teoria o interessi materiali: Furio Jesi ha analizzato il potere della mitologia (e la sua centralità nella cultura di destra).
Un incontro di wrestling, un racconto di vampiri, una collezione di slogan confezionati per indottrinare giovani fascisti, un bestseller strappalacrime scritto da un’autrice reazionaria che conosce fin troppo bene gli istinti più bassi del proprio pubblico. Ciò che accomuna tutti questi esempi è un certo uso del mito o della mitologia che si incarna nell’impiego di archetipi apparentemente familiari, di «grandi idee» e forme narrative presentate come universali e cariche di significato per natura; ma a una disamina più attenta se ne scopre la vuotezza e l’obsolescenza celate dietro la superficie.
Il filosofo francese Roland Barthes è stato tra i primi teorici di sinistra a occuparsi di mito e mitologia in maniera cristallina e accessibile per il vasto pubblico. Nelle pagine di Miti d’oggi (uscito nel 1957 e contenente svariate analisi di fenomeni di costume e cultura popolare nella Francia del dopoguerra), Barthes scrive in aperta polemica contro i giornalisti che attribuiscono una patina di «naturalità» a cose che sono «senz’alcun dubbio storicamente determinate». «Il mito è un linguaggio» sostiene il filosofo francese; e in quanto linguaggio, se ne devono studiare le regole e il funzionamento per «tradurre» il significato recondito che si nasconde dietro il codice.
In Italia, uno dei più intelligenti teorici del mito e della mitologia è stato Furio Jesi, studioso, storico e scrittore (1941-1980). Come Barthes, Jesi vedeva il mito come un linguaggio che occultava fenomeni storici e politici dietro una patina di «naturalezza» volta a conferire loro una validità apparentemente universale. E come Barthes, Jesi riteneva che il mito andasse studiato in tutte le sue sfaccettature e rappresentazioni, con uno sguardo scevro dei giudizi di valore che tuttora portano gli storici e gli accademici a ignorare la cultura pop (o «nazionalpopolare») in quanto presuntamente frivola e volgare, l’inadeguato lumpenproletariat della sfera culturale.
Ma Jesi stava sondando un territorio pericoloso, fino ad allora abbastanza ignorato dai teorici di sinistra, con qualche notevole eccezione (come appunto Barthes). Il mito era infatti stato per lo più appannaggio di pensatori che erano o apertamente reazionari (Mircea Eliade, Julius Evola) o politicamente «sospetti» (Oswald Spengler, Georges Sorel, Károly Kerényi). I collaboratori politici e intellettuali di Jesi guardavano alla sua operazione con malcelata diffidenza – Angelo D’Orsi, che lo aveva affiancato in diversi progetti editoriali, affermerà anni più tardi in un’intervista che in molti temevano che Jesi si occupasse di questi temi perché «Furio alla fine ne è affascinato da queste cose», «questo qui finirà col farsi travolgere e contaminare».
Ma Jesi non era bastian contrario solo per via di queste presunte infatuazioni morbose: nel corso della sua carriera fu sempre affiliato al mondo accademico senza farne veramente parte (finché non vi fu costretto da circostanze materiali); era un attivista socialista che non si iscrisse mai al partito comunista. Mostrava atteggiamenti aperti e concilianti su temi che – negli anni Sessanta e Settanta – erano ancora tabù per i suoi compagni più sciovinisti, come il femminismo o l’omosessualità. Era un uomo dalle forti opinioni, ma anche persona di grande generosità.
Gli esordi
Jesi fu un intellettuale estremamente precoce. Pubblicò il suo primo libro ancora adolescente, affrontando il mondo (che di adolescenziale aveva ben poco) delle ceramiche egizie. Ma da lì in poi, la sua traiettoria intellettuale non fece che diventare più inconsueta. Il suo percorso è un’ottima testimonianza di una stagione in cui talenti eclettici ed eterogenei che operavano fuori dalle istituzioni riuscivano a penetrare le sfere della cultura e dell’accademia prendendo scorciatoie inattese. Benché Jesi venisse da una famiglia borghese piuttosto benestante (suo padre era ufficiale di cavalleria, sua madre era storica e autrice di libri per bambini), si dimostrò essere un figlio dalle decisioni alquanto ondivaghe: abbandonò la scuola senza diploma di maturità e non mise mai piede in un’università in qualità di studente. Ciononostante, fu abbastanza sveglio da attirare le attenzioni di una personalità come il filologo ungherese Karol Kerényi — gli anni della sua gioventù furono segnati da una ricerca quasi febbrile e un continuo scambio con modelli intellettuali che erano spesso notevolmente più anziani di lui. Jesi coniugava un innegabile talento con una grande capacità di autopromozione – sarebbe altrimenti difficile spiegarsi il suo successo nel mondo editoriale in qualità di redattore, traduttore e filologo così come il suo approdo presso le università di Palermo e di Genova in qualità di professore (malgrado ostinatamente privo di laurea e di dottorato).
Dimostrava inoltre una particolare attenzione e curiosità verso argomenti e temi che i suoi compagni tendevano a considerare frivoli. Nei corsi che diede nei tardi anni Settanta presso il dipartimento di germanistica dell’Università di Palermo, Jesi si concentrò su tematiche che di certo non erano bene accette neanche presso gran parte della comunità letteraria dell’epoca. Un esempio particolarmente lampante fu il suo corso su «il vampiro e l’automa nella cultura tedesca dal XVIII al XX secolo», nel quale invitava i suoi studenti ad analizzare questa classica figura della letteratura dell’orrore in quanto (fra le altre cose) simbolo di uno spettrale ritorno di valori aristocratici in epoca borghese, con le classi commerciali che tentavano di detronizzare la nobiltà e prenderne il posto alle redini della società, al contempo ereditandone i valori come una fonte di legittimità. Ma come in ogni storia di révenant, il morto riportato in vita porta con sé un destino inevitabilmente lugubre, come un organo trapiantato che viene rigettato dal corpo malato. Il vampiro diventava così un oggetto di studio su cui Jesi e i suoi studenti mettevano alla prova quel modello che il teorico definiva «macchina mitologica», da lui ideato per analizzare ogni genere di fenomeno politico e culturale, dai rituali e le festività di società europee ed extra-europee alla letteratura tedesca del diciottesimo secolo, dall’ideologia di destra alla posta dei lettori de La Stampa.
Le riflessioni che Jesi propone sul mito sono particolarmente complesse e ricche di sfaccettature; si trattava di un progetto su cui lavorò per tutta la vita, con vari gradi di accessibilità od oscurità. Per quanto fosse un pensatore asistematico, la sua teoria poggiava su un solido fondamento di idee e definizioni che espandeva e completava man mano che ampliava e ridefiniva lo spettro delle sue ricerche.
Non (proprio) morto
Per approcciarci all’idea jesiana del mito, potremmo servirci di un altro esempio che – come nel caso delle sue lezioni universitarie sui vampiri – tratta di cose che sono not quite alive and not quite dead. Un esempio che ci porta a fare una deviazione in territori culinari.
Uno dei saggi più chiari e genuinamente godibili che Jesi scrisse nei Settanta reca l’appetitoso titolo di «Gastronomia mitologica». Nell’incipit l’autore rivolge al lettore un ammonimento che era forse indirizzato anche a sé stesso, quasi avesse preso seriamente i sospetti dei suoi compagni. Jesi scrive infatti che chi si interessa agli oggetti che compongono la scienza del mito, dovrebbe osservare una particolare cautela:
Configurare questi oggetti significa metterli in rapporto fra di loro, e fra di loro e l’osservatore, con intento gnoseologico. Ma, nell’ambito dei miti e della mitologia, chi compone un modello rischia sempre di comporre e combinare fra di loro materiali mitologici: di divenire egli stesso mitografo anziché mitologo.
Jesi identifica quindi una sorta di dilemma etico: chi analizza questi «materiali mitologici» potrebbe ritrovarsi contaminato dalla logica stessa del mito e finire per riprodurne gli assunti e la retorica proprio mentre cerca di decostruirli. L’insidia del mito si cela proprio in questo suo essere facile e «orecchiabile», l’equivalente intellettuale di un motivetto accattivante che spinge chi ascolta a canticchiarne la melodia a tutti i costi e si difende agilmente contro ogni forma di confutazione delle sue dinamiche. Ma il mito – suggerisce Jesi – non è solo «accattivante»: è anche gustoso, e fa gola come una leccornia.
Come stimolo per scrivere la sua gastronomia mitologica, Jesi si serve di alcune pagine di un desueto ricettario francese, in cui viene spiegato come preparare e cucinare i gamberetti. Il manipolatore di miti e il cuoco hanno infatti molto in comune nella visione di Jesi. Entrambi lavorano con una materia prima che – quando è ancora soltanto morta, non lavorata – è tutto fuorché appetitosa: presenta il colorito cinereo della morte, ed è racchiusa in uno spinoso carapace che va opportunamente eliminato se si vuole procedere alla preparazione e alla consumazione. Tale è il gamberetto crudo, tale è il mito al suo stadio primitivo – del resto, c’è ben poco di attraente o affascinante in fenomeni come la violenza mortifera di culti, religioni e ideologie estremiste, o la crudeltà a volte fatale di un rito iniziatico. Ma come un piatto di squisiti e sfortunati gamberetti, il mito può sedurci e stimolare il nostro appetito una volta che è stato dovutamente lavato, cucinato e condito – dopo che il cuoco ha trasformato il suo grigio pallore in un seducente colorito rosso:
Questo colore rosso è il colore di ciò che è vivo, maturo, piacevolmente commestibile. Lo scopo della moderna scienza del mito o della mitologia, lo scopo dei mitologi moderni, è questo: avere sulla tavola qualcosa di molto appetitoso, che senza esitare si direbbe vivo, ma che è morto e che, quando era vivo, non possedeva un colore così gradevole. Il colore della vita non è una prerogativa molto frequente di ciò che è vivo. Ciò che è vivo non è sovente molto commestibile per noi, e il colore della vita è ai nostri occhi il colore di quel che mangiamo con viva soddisfazione.
Gli accesi toni pastello assunti da pietanze sottoposte alle cure di uno chef (o di un chimico) hanno ben poco a che vedere con il colore della vita nel senso strettamente biologico del termine (ad esempio, il colorito di un animale che vive e respira). Ed è parimenti illusorio pensare che i miti conservino un’irrilevanza e un’applicabilità anacronistica che li proteggono dalla realtà e dal cambiamento storico. Come i gamberetti nell’aneddoto di Jesi, i miti ci istigherebbero una naturale repulsione qualora li incontrassimo nella loro forma «primigenia» (foriera di tutta la loro violenza) – per andare incontro a palati moderni, essi vanno quindi «cotti», «lavorati» e «confezionati» per apparire – se non vivi – quanto meno freschi e consumabili (il colonialismo allo stato puro non è più à la page? Parleremo dunque della necessità di «esportare democrazia». Non possiamo essere troppo apertamente classisti e misogini perché abbiamo una facciata liberale da difendere? Non c’è problema: allora sfotteremo le «Karen»).
In diversi momenti della sua carriera, Jesi si ritrovò a specificare la propria concezione del mito anche in termini meno succulenti. Se nella Gastronomia mitologica trovavamo il «consumatore» (e in quanto consumatore, vittima) del mito presentato come uno che – credendosi gourmet – sta in realtà fagocitando un’orripilante carcassa, altri scritti di Jesi si concentrano maggiormente sui meccanismi e i processi che consentono al mito di funzionare. In un abbozzo per un volume sui «miti contemporanei» (tristemente mai concluso), Jesi definiva il mito come un racconto fondativo sulle realtà più basilari della vita umana e della società – un racconto che tutti credono essere veritiero e che si dimostra notevolmente pervicace e plasmabile anche di fronte a grandi svolte epocali, mantenendo inalterato il proprio messaggio o contenuto.
Anche se oggigiorno difficilmente ci viene da credere agli «eroi» nello stesso modo in cui lo facevano gli antichi greci, siamo comunque portati a credere che una forma di eroismo esista tuttora – il mito dell’outsider bandito in un isolamento titanico che trionfa su circostanze estremamente sfavorevoli continua a conquistarci. Se i greci avevano Achille e Medea, noi abbiamo Steve Jobs ed Elon Musk. Jesi suggerisce che tutti i miti della contemporaneità hanno origine in quelli dell’antichità; ma se per i nostri antenati più lontani vi era ben poca o nessuna differenza tra quelle spiegazioni della realtà e la realtà stessa (la seconda scaturiva dalle prime e ne rappresentava un continuo ritorno), per noi i miti hanno valore soprattutto come fantasie d’evasione o strumenti ideologici.
Cultura di destra
È proprio sullo studio di queste implicazioni politiche del mito che Jesi si concentra più esplicitamente in Cultura di destra (1979), a culmine di un percorso analitico che si dipana in tutta la sua opera. In un’intervista a L’Espresso, Jesi definiva così quella «cultura di destra» che dava il titolo al volume:
La cultura entro la quale il passato è una pappa omogeneizzata che si può modellare e mantenere in forma nel modo più utile. La cultura in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari. La cultura in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola, innanzitutto Tradizione e Cultura ma anche Giustizia, Libertà, Rivoluzione. Una cultura, insomma, fatta di autorità, di sicurezza mitologica circa le norme del sapere, dell’insegnare, del comandare e dell’obbedire.
Al di là del comprovare un apparente attaccamento di Jesi a immagini afferenti al campo culinario (anche se una «pappa omogenizzata» è certamente meno invitante di un piatto di gamberetti croccanti), questa citazione ci dà un assaggio del modello usato da Jesi per descrivere l’ideologia di destra: è una cultura – per dirla con Jesi stesso – di «idee senza parole», di significanti vuoti che delle idee hanno solo la posa in quanto si rivelano in realtà immutabili, non sindacabili e – qui risiede la loro forza – rassicuranti, in quanto semplificano le complessità del reale. Lo fanno conferendo un alone di inattaccabile integrità morale e nobiltà alle storie nazionali, a vari generi di comunità e movimenti politici; le «idee senza parole» identificano chiaramente alleati e nemici, e a ogni loro sostenitore assegnano un ruolo stabilito da ricoprire per far sì che le cose cambino o – ben più spesso – rimangano esattamente come sono.
In ognuno dei saggi contenuti in Cultura di destra, Jesi applica il suo modello descrittivo del mito a svariati casi studio, in parte antropologici e in parte letterari. Due scritti in particolare sono dedicati al «culto della morte», quello spirito di sacrificio che vige nelle milizie fasciste, ove i soldati semplici sono tenuti a bada con la promessa che gli incarichi apparentemente arbitrari che svolgono (da missioni quasi suicide contro un nemico che ha un evidente vantaggio a forme di attivismo senza uno scopo o una missione meglio definiti) hanno in realtà un significato simbolico più alto. A chi sta ai gradini più bassi di un progetto fascista è destinata una conoscenza puramente essoterica (con due s – un sapere chiaro e «cristallino» che può essere rivelato al grande pubblico); è il gruppo a cui sono riservate le forme più astratte e misticheggianti di propaganda ideologica, quelle che più di tutte sono in odore di zelo religioso, e che consentono agli adepti di sentirsi come i soldati di fanteria di un movimento millenario molto più grande di loro. Chi invece si trova nelle sfere più alte dell’operazione ha accesso a un maggior numero di informazioni strategiche sull’effettiva realtà che si cela dietro la facciata, oltre a essere più informato sui dettagli del sistema mistico-filosofico che fa da impalcatura ideologica al movimento; è quindi in grado di manipolare questi «materiali mitologici» con una conoscenza e una consapevolezza esoterica (con una sola s – quel genere di conoscenza che è riservata a pochi iniziati).
Ma la cultura di destra non è la prerogativa di una sola corrente politica o di un manipolo di fanatici ai margini di un dato movimento. In un’altra intervista per L’Espresso, recentemente ristampata nell’ultima edizione di Cultura di destra edita da Nottetempo, Jesi sosteneva che i tratti principali di questa cultura (la strategica banalizzazione del passato, il fascino incantatorio delle «parole con l’iniziale maiuscola» il cui significato non viene mai definito…) sono divenuti talmente egemonici che anche chi pensa di combattere contro la cultura di destra finisce in realtà per operare in base a essi.
Il che è vero oggi forse ancor più di quanto non lo fosse quando Jesi scriveva i suoi saggi: basti pensare a come i sostenitori più zelanti delle identity politics (con vari gradi di cinismo) trattano categorie macroscopiche come «Razza» o «Queerness» come se fossero realtà universali definite con la certezza dell’essenzialismo e non necessitanti ulteriori esami critici, se non in maniera puramente performativa; anche queste sono «parole con l’iniziale maiuscola», gli abracadabra di una formula magica che simula coscienza politica e attivismo pur restando perfettamente allineati a un’ideologia neoliberale. Per non parlare della lunga storia di un termine come «Classe lavoratrice», spesso manipolato, esteso o ristretto da varie formazioni di sinistra a seconda del loro progetto critico o politico – generalmente con poca attenzione storica o sociologica a che cosa voglia effettivamente dire «Classe lavoratrice» in diversi contesti e momenti e con una grande facilità a identificare al suo interno i «reietti» del caso che giustifichino una buona misura di disprezzo classista en cachette («Persona X ha origini nella classe lavoratrice, ma ha votato Brexit / Trump / Meloni, quindi ha tradito la classe; Persona Y è operaia, ma è bianca, quindi privilegiata…»).
L’attualità delle manipolazioni mitologiche come strumento ideologico ci mostra come il progetto critico di Jesi – a lungo trascurato dagli annali della critica marxista – vada assolutamente ripreso e ulteriormente ampliato oggigiorno. Fenomeni come la alt-right, le teorie del complotto, o anche la cultura dei meme (ancora una volta: idee senza parole) avrebbero senz’altro suscitato il suo interesse di intellettuale con un fine occhio per tutte le forme del mito – dalle sue istanze più culturalmente alte (… o altisonanti) alle sue manifestazioni più pop. Lo sguardo olistico con cui Jesi riesce a esaminare la cultura di destra e la sua penetrazione in tutti gli strati della sfera culturale e politica (come un blob che non cessa mai di crescere) è rilevante ora più che mai.
Le lettrici e i lettori italiani possono oggi riscoprire Jesi grazie a un’ondata di ristampe arricchite da interventi critici e materiali aggiuntivi, edite principalmente da Nottetempo. E grazie al certosino lavoro di traduzione e mediazione svolto da figure come Alberto Toscano e Andrea Cavalletti, è finalmente possibile anche per le lettrici e i lettori anglofoni leggere Jesi in inglese – purtroppo Cultura di destra manca ancora all’appello, ma (tra le varie pubblicazioni) gli ottimi saggi de Il tempo della festa sono disponibili come Time and Festivity presso Seagull Books e c’è da sperare che questo sia l’inizio di una meritata e tardiva fortuna critica di Furio Jesi all’estero.
Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin il 16 marzo 2023