di Sergio Caserta
Leggere Nell’acquario di Angiporto Galleria, il libro autobiografico di Francesca Spada, curato dalla figlia Viola Lapiccirella, per l’editore Zamorani, è stato ripercorrere un pezzo importante del mio vissuto politico, dopo il primo romanzo che lo precede, “Mistero napoletano” di Ermanno Rea che tratta lo stesso argomento, la vicenda della giornalista de l’Unità, morta suicida, nel contesto della Napoli del secondo dopoguerra e dei primi anni sessanta.
È una storia personale e politica che ha appassionato schiere di lettori, per l’intreccio intrigante tra le vicende umane dei personaggi e il loro agire pubblico, come esponenti di un grande partito, nella tormentata storia di Napoli comunista, le cui propaggini giungono fino ai nostri giorni. Napoli protagonista di questa e di mille altre storie umane, Napoli grandiosa e miserabile, colta e plebea, Napoli piena zeppa di intellettualità aristocratica, Napoli lazzara e violenta, prevaricatrice, mendicante, Napoli guappa e illuminista, Napoli tutto e il suo contrario.
L’essenza di questa storia è nel rapporto di una generazione di intellettuali comunisti, giornalisti e dirigenti del PCI, alle prese con i tormenti delle proprie convinzioni e l’adesione al partito, la sottomissione alla sua ferrea disciplina, alle logiche degli apparati burocratici che macinavano vite e coscienze, in nome del bene supremo dell’unità del Partito.
Francesca Spada, giornalista comunista, docente di filosofia, pianista, donna sensibile, emancipata e aperta, non poteva non entrare in conflitto con quella granitica struttura e con il conformismo imperante a quel tempo. Il manoscritto, rimasto nascosto tra le carte del compagno Renzo Lapiccirella, è venuto alla luce di recente, è stato fedelmente trascritto per la pubblicazione dalla figlia di entrambi Viola, seguendo alcuni consigli di Ermanno Rea, collega ed amico di Francesca e di Renzo, autore, tra gli altri testi, di “Mistero napoletano” deceduto nel 2016.
È la storia di quella parte del partito napoletano d’ispirazione gramsciana che immaginava un comunismo più autenticamente rivoluzionario e libertario, dotato di uno spirito critico più acuto e di una coerenza morale più integra, che si batteva contro la visione incarnata dalla destra comunista di ortodossia stalinista, di integralismo ideologizzante e di relativismo pragmatico, che vedeva nel partito il fine per preservare la continuità di un potere, nelle difficili contingenze del Paese e della città.
Si potrebbe dire idealismo contro realismo, forse, ma lo schiacciamento di ogni forma di critica alla ragion di partito, è stato il veleno che incuneatosi fin nei gangli più profondi dell’identità comunista, ha poi condotto nel tempo al ripiegamento continuo verso le posizioni che ne hanno alla fine causato il collasso.
Il libro è una raffinata rievocazione, ricca di riferimenti poetici e letterari, di un mondo di rapporti umani, di amori e disamori, di stati d’animo e di sentimenti contrastanti e contrastati in un microcosmo di gente che voleva cambiare la storia. Di una generazione successiva perché nato all’epoca dei fatti narrati, ho avuto però la fortuna di conoscere di persona Renzo Lapiccirella, quando tra il finire degli anni settanta e i primi anni ottanta, fece ritorno a Napoli, da dirigente nazionale di primo piano del partito, figura prestigiosa ma quanto mai lontano dalla gestione del potere.
Era silenzioso e raramente interveniva nei dibattiti del comitato federale, si sedeva di solito nelle ultime file e fumava in continuazione (allora era ancora consentito), era magro e con gli occhiali rotondi come un giovane (io) immaginava dovesse necessariamente essere un intellettuale comunista. Fu così che simpatizzammo ed alcune volte lo accompagnai in auto a casa, zona Mercato mi sembra. Si accendeva l’ultima sigaretta e così potevamo scambiare due parole, io gli chiedevo dal basso della mia poca esperienza come vedesse l’attualità politica o la prospettiva del comunismo e lui con grande disincanto una volta se ricordo bene mi rispose “sai, già negli anni trenta, avevamo capito che il mercato aveva vinto e che non se ne poteva fare a meno, era già tutto finito”. Una lezione di realismo da un marxista puro, per me fu quasi uno shock, ma avevo capito in poche parole, quanto grande, complessa e drammatica fosse la storia comunista.
Agli occhi dell’establishment di allora, Francesca, Renzo, e tutti gli altri protagonisti di quella “corrente culturale” dovevano apparire niente di più che esistenzialisti scapigliati, poco inclini alla disciplina e dediti al disordine politico e alla trasgressione, ma invece rappresentavano l’essenza di un pensiero critico che se opportunamente valorizzato, avrebbe senza dubbio migliorato e di molto la qualità dell’agire politico, del partito nel suo complesso.
Purtroppo le cose sono andate diversamente e resta l’amarezza per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, come per gli amori della giovinezza che sono irrimediabilmente passati mentre avremmo voluto che non finissero mai.