Una intervista che squarcia il velo di silenzi omertosi e compiacenti sulla sistematica violazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati da parte d’Israele. A parlare è Francesca Albanese, Special Rapporteur dell’ONU sulla situazione dei diritti umani nei Territori occupati. Albanese è anche Research Fellow all’International Institute of Social Studies of Erasmus University Rotterdam. Delle tematiche che sono al centro delle documentate denunce della Special Rapporteur dell’Onu, non c’è traccia alcuna nelle parole del ministro degli Esteri Antonio Tajani in questi giorni in missione in Israele e a Ramallah. Per il titolare della Farnesina la tragedia palestinese semplicemente non esiste . se non in termini di generica riproposizione di un indefinibile impegno per rilanciare un inesistente processo di pace, o, comunque, non è tale da poter perturbare il “roseo” futuro nelle relazioni Italia-Israele.
Da più parti, e non solo quella palestinese, si denuncia il regime di apartheid che Israele avrebbe instaurato.
La situazione nel territorio palestinese – invito a usare il singolare per preservare l’importanza dell’unità territoriale della Palestina, o ciò che ne resta – è estremamente complessa, volatile e violenta. È il frutto dell’incancrenirsi di un’occupazione che da quasi 56 anni opprime un intero popolo con mezzi sempre più sofisticati, in violazione dei trattati internazionali e nell’impunità più totale. A Gaza, due milioni di persone vivono sotto assedio e spesso sotto attacco militare di Israele. In Cisgiordania, alla presenza dei militari israeliani si aggiunge quella di 750 mila coloni e per garantire la loro sicurezza i diritti fondamentali dei palestinesi sono violati sistematicamente. Gerusalemme è illegalmente considerata ‘annessa’ allo stato di Israele contro la stessa Carta dell’Onu. Le risorse del territorio occupato sono utilizzate a beneficio esclusivo di Israele, non esistono diritti civili e politici perché non c’è attività politica che non sia passata al vaglio o che non venga soppressa da Israele e, spesso, anche dalle autorità palestinesi. Persino esporre in pubblico la bandiera palestinese è proibito perché, nella logica dell’occupante e del colonizzatore, l’identità nazionale palestinese è una minaccia per quella di Israele. Questo regime è incontrovertibilmente apartheid: adesso la comunità internazionale comincia a prenderne consapevolezza, anche se i paesi occidentali fanno fatica anche solo a considerare l’utilizzo del termine nei confronti dello stato di Israele. Io sostengo che il crimine di apartheid costituisca un elemento analitico necessario ma non sufficiente, giacché chiede l’uguaglianza, ma non mette in discussione la mancanza di sovranità di Israele sul territorio che occupa dal 1967. Chiedere uguaglianza tra coloni e palestinesi, tra occupanti e occupati, non ha senso dal punto di vista legale.
Come definirebbe quindi ciò che accade?
Il concetto che a mio parere meglio si adatta alla situazione è quello di colonialismo d’insediamento (settler-colonialism). Un termine che descrive il controllo da parte di un popolo su di un altro a mezzo di presenza fisica del colonizzatore, con intento acquisitivo, segregante e repressivo. È quello che è successo in Algeria, in Sudafrica, in Canada, negli Stati Uniti e in Australia, con il trasferimento massiccio di coloni europei e la sottomissione delle popolazioni indigene locali. Ed è quello che sta succedendo in Cisgiordania e a Gerusalemme Est: si cacciano i palestinesi per sostituirli con una minoranza di israeliani, spesso originari dell’America o dell’Europa, che arrivano con la missione ideologico-colonizzatrice di ‘riprendersi la terra che Dio ha promesso loro.’ Anche Gaza rientra in questa logica come riserva, parte del territorio dove ammassare e rinchiudere i nativi sgraditi, invisi al colonizzatore.
La legalità internazionale s’invera nelle risoluzioni Onu, nel diritto internazionale, nel diritto umanitario, nelle delibere assunte dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, nella Convenzione di Ginevra sulla guerra. Cosa ne è della legalità internazionale in Palestina?
La giustizia in merito alla Palestina è più vicina agli interessi geopolitici degli Stati occidentali, ma questo deve cambiare e bisogna ri-orientarla verso il diritto internazionale. Non può esserci pace senza libertà e pieno godimento dei diritti e delle libertà fondamentali di tutti e tutte.
Israele e i suoi sostenitori in Italia la accusano di essere parziale, “filopalestinese”, e di non avere l’equilibro necessario per ricoprire l’importante incarico che assolve.
Il mio ruolo mi impone di condurre inchieste in modo imparziale ed indipendente, e di relazionare in modo onesto e trasparente sul contenuto delle mie osservazioni alla luce del diritto internazionale; ed è quello che faccio. Israele è potenza occupante nel territorio palestinese dal 1967 e opera marcatamente al di fuori di ciò che è permesso dal diritto internazionale. Non è un caso che il mio mandato, creato nel 1993, mi obblighi a relazionare sulle violazioni del diritto internazionale commesse da Israele. Ciò nonostante, io ho chiarito dal principio del mio mandato che intendo esaminare le violazioni commesse da chiunque nel territorio palestinese occupato, incluso le autorità palestinesi. La questione della mia presunta parzialità ha altra matrice…
Quale?
Le campagne diffamatorie contro il mio mandato sono solo l’esempio più recente di una campagna globale guidata da Israele e dai suoi sostenitori, con l’obiettivo di distrarre la comunità internazionale dai potenziali crimini di guerra e crimini contro l’umanità che Israele commette ogni giorno e per cui è sotto inchiesta dalla Corte Penale Internazionale. Citando il mio collega Nils Melzer, il precedente Relatore Speciale sulla tortura, “Se un governo si rifiuta di impegnarsi in un dialogo costruttivo e viola ripetutamente i suoi obblighi in modo grave, allora c’è un punto in cui devo rendermi impopolare e mobilitare il pubblico. Qualsiasi altra cosa mi renderebbe un traditore del mio mandato.”
Nel giustificare le azioni condotte in Cisgiordania e a Gaza, Israele invoca il diritto di difesa dalla minaccia terroristica.
Israele è la potenza occupante – in quanto tale, è ossimorico che invochi il diritto all’autodifesa ‘in bianco’ contro il popolo che sta tenendo sotto occupazione da quasi 56 anni. Vorrei ricordare inoltre che la creazione di gruppi ritenuti terroristici, Hamas in primis, è stata sostenuta da Israele stesso – Hamas, per l’appunto, è stato aiutato a crescere e ad inserirsi nella scena politica palestinese da Israele, per contrastare una forza politica (guidata da forze laiche) in grado di unire tutto il popolo palestinese, volutamente frammentato da Israele. Tale unità rappresentava una minaccia per Israele, che invece ha sempre mirato a rompere e prevenire una simile realtà politica, elemento fondante del diritto all’autodeterminazione. Inoltre, dal 22 Novembre 1967, quando il Consiglio di Sicurezza ha ordinato l’immediato ritiro delle forze di occupazione israeliane dal territorio palestinese, in quanto tale occupazione non ha ragion d’essere. Tale ordine, incessantemente rinnovato dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU (ultima risoluzione: 2234 del 2016), viene continuamente ignorato da Israele, che rafforza la sua stretta sul territorio palestinese ostentando, ancora una volta, la lettura apologetica di una guerra difensiva, presupponendo equivalenti interessi, poteri e mezzi da entrambe le parti.
Sul piano umano, cosa l’ha più colpita nell’esperienza che sta conducendo?
Mi colpisce l’ignoranza dei fatti fondanti della questione israelo-palestinese, l’uso arbitrario della legge internazionale e, ancora di più, la mancanza di empatia con il popolo palestinese. Ma mi colpisce anche la solidarietà di tanti nei confronti del mio mandato. Io credo nella forza delle leggi, nella potenza della ragione umana, e spero che tutto questo sinergicamente funzioni prima o poi.
Questo articolo è stato pubblicato su Il Riformista il 15 marzo 2023. Immagine di copertina, Adrian Abdul Baha/Wikimedia Commons