La sanità pubblica non è più per tutti, ma nessuno protesta

di Gloria Riva /
10 Marzo 2023 /

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Duecentocinquantamila, secondo la polizia. Un milione per gli organizzatori. Anche in Spagna non c’è mai accordo sulla conta dei manifestanti di piazza, di plaza de Cibeles de Madrid, per la precisione. Al di là dei numeri, le immagini parlano da sé: migliaia di persone — al grido di «la sanidad pública no se vende, se defiende» — a febbraio hanno protestato contro lo smantellamento della sanità pubblica da parte del governo conservatore madrileno, accusato di destinare metà dei fondi pubblici al settore privato e di spogliare gli ospedali statali delle risorse per ridurre le liste d’attesa e assumere nuovo personale.

Anche in Italia il Servizio sanitario nazionale è in crisi, ma da noi nessuno protesta. Eppure ne avremmo tutte le ragioni, se si considera che lo Stato italiano spende in sanità 1.947 euro a persona. Cioè il 6,4 per cento del Pil, proprio come in Spagna. Cifre ben distanti dai modelli con cui ci paragoniamo, Germania o Francia, dove s’investe fra i tre e i quattromila euro a cittadino, arrivando a puntare il dieci per cento del Pil sulla sanità. Sommando i soldi sganciati direttamente dai cittadini per curarsi, Spagna e Portogallo spendono più di noi, mentre l’Italia si avvicina pericolosamente alla Grecia.

In base agli ultimi dati elaborati dall’Osservatorio sui Consumi privati in Sanità dell’Università Bocconi, per colmare questo gap, l’Italia dovrebbe mettere sul piatto della finanziaria 20 miliardi in più per eguagliare Regno Unito e Portogallo, 40 miliardi per essere come Francia e Germania.

Anche l’Ocse ha dichiarato che l’Italia, per garantire la tenuta sociale del Paese, dovrebbe spendere almeno 25 miliardi in più all’anno. A parole tutti difendono l’Ssn («Sono un fervente sostenitore della sanità pubblica», dice il sottosegretario al ministero della Salute, Marcello Gemmato, in quota Fratelli d’Italia), nei fatti quest’anno sono stati appostati due miliardi di euro in più: briciole. Del resto sono 20 anni che la spesa sanitaria è un elettroencefalogramma piatto e gli aumenti coprono soltanto i maggiori costi dell’inflazione.

E allora perché nessuno protesta? Il professor Mario Del Vecchio dell’Università Bocconi allarga le braccia: «È quello che vogliono gli italiani. La collettività ha legittimamente scelto politiche che ridistribuiscono il denaro nelle proprie tasche, come gli 80 euro del bonus Renzi, Quota 100 e altri anticipi pensionistici, il reddito di cittadinanza, il taglio al cuneo fiscale: misure che valgono 42 miliardi l’anno», mostrando come dal ‘12 i trasferimenti economici alle famiglie hanno superato la spesa sanitaria. «Non c’è alcun partito politico che si batta come un leone per destinare più soldi al fondo di sanità pubblica in occasione del tradizionale assalto alla legge finanziaria di fine anno. Ecco perché l’Ssn resta al palo. Quindi, è il momento di dire la verità: con le scarse risorse a disposizione l’Ssn non può offrire un servizio universale. Serve un ridimensionamento delle aspettative e la politica deve ammettere la necessità di un sistema ibrido, pubblico e privato, cercando di governarlo, con un’attenzione esplicita alle iniquità». Nella migliore delle ipotesi, Del Vecchio ipotizza una collaborazione tra pubblico e privato, ma non esclude uno scenario segnato dalla massima disuguaglianza se il privato continuerà a competere e a viaggiare in parallelo al pubblico.

Del resto i cittadini italiani già ora pagano di tasca propria il 75 per cento delle visite specialistiche, il 62 di tac, ecografie e altri accertamenti diagnostici, l’81 dei trattamenti di riabilitazione. Detto altrimenti, solo il 73 per cento della sanità è a carico del pubblico, mentre i cittadini sborsano 678 euro di tasca propria per curarsi. E si tratta di una media: nel dettaglio si passa dagli 849 euro della Lombardia ai 364 euro investiti privatamente dai campani. È forse per via di questo divario che un economista prestato alla politica come Ettore Cinque, già commissario straordinario della sanità campana e oggi assessore al Bilancio, rilancia: «La politica, sul tema del finanziamento all’Ssn, è totalmente assente e distratta. Ma non sta scritto da nessuna parte che nei prossimi anni non sia possibile avviare una grande riforma. Ad esempio, in Campania abbiamo scelto, e sottolineo “scelto”, di aumentare le addizionali regionali per sostenere la sanità pubblica, l’unico mezzo di contrasto alla disuguaglianza».

Un po’ come è stato fatto nel Regno Unito, dove un aumento delle tasse dovrebbe sostenere il National Health Service, o in Francia, dove è stata introdotta una tassa di scopo su alcolici, tabacchi e assicurazioni. In Germania è stato istituto un fondo per le spese assistenziali di lunga degenza, per rispondere alla vera emergenza: gli anziani fragili. L’alternativa, già percorsa da Spagna, Giappone e Francia, è promuovere la sottoscrizione di polizze assicurative. Lo si è fatto anche in Italia, dove è stata introdotta l’obbligatorietà dell’adesione al fondo sanitario integrativo per i metalmeccanici.

Ma in un Paese dove disoccupazione, lavoro nero e precariato sono l’elefante nella stanza, quella soluzione risulta difficile da percorrere. Lo conferma il rapporto di Intesa Sanpaolo Rbm Salute, realizzato con il Censis: il 23 per cento degli italiani ha un piano di sanità integrativa, ma si passa dal 43 per cento di chi vive nel Nord Ovest al nove per cento di chi sta al Sud. «La logica dei fondi assicurativi è quella di raccogliere denaro per pagare le attuali prestazioni sanitarie, ma non è provata l’efficacia di questi strumenti», commenta Luca Baldino, direttore generale dell’assessorato alla Salute della Regione Emilia Romagna che, a proposito dell’adeguatezza dell’Ssn, dice: «È necessario riportare le aspettative dei cittadini a una dimensione di realtà. Ad esempio, molti chiedono di preservare i pronto soccorso sotto casa, quando non c’è il personale adeguato per mantenerli in vita e ne risente la qualità della cura. Ma l’avanzata della sanità privata è spregiudicata: si concentra su attività facili e redditizie, senza alcuna integrazione con il pubblico».

La presenza del privato, specialmente in alcune zone del Paese, è ormai oltremodo diffusa. Non solo del privato-privato, ma anche del privato convenzionato che in molti casi sopperisce alle carenze del pubblico. Per esempio, dal 2019 le Regioni hanno a disposizione mezzo miliardo di euro per modernizzare i sistemi di gestione delle liste d’attesa: semplicemente non li hanno spesi e capita che prenotare una visita in regime di Ssn diventi un’impresa. In alcuni casi per le Regioni è più facile raggiungere gli obiettivi di sanità minima demandando al privato. La Banca dati delle amministrazioni pubbliche dice che lo scorso anno la Lombardia ha conferito alle cliniche private 6,4 dei 22 miliardi di spesa pubblica: più di un terzo è servito per acquistare visite sanitarie, anche da consultori e comunità terapeutiche; i ricoveri ospedalieri sono costati altri 2,1 miliardi e le visite specialistiche 1,1 miliardi. Sempre in Lombardia la spesa per abitante affidata a operatori privati ammontava a 583 euro nel 2012, lievitata oggi a 645 euro. Lo stesso vale per il Lazio: su 12,5 miliardi di budget complessivo, 3,8 sono destinati ai privati. E il peso delle convenzioni private è cresciuto del dieci per cento in dieci anni. Nonostante per le Regioni sia economicamente più vantaggioso sostenere le proprie strutture pubbliche, anziché esternalizzare il servizio alle cliniche, il ricorso a queste ultime è in costante aumento: «Fino a che punto possiamo considerare sostenibile la spesa sanitaria convenzionata?», si domanda Monica Monella, ricercatrice dell’Istat e autrice del saggio “Lombardia e Lazio: quando la sanità pubblica cede il passo ai privati” assieme a Franco Mostacci, dove i due fanno notare come «la progressiva riduzione del personale sanitario, delle strutture pubbliche, delle immobilizzazioni materiali per impianti, macchinari, attrezzature sanitarie e scientifiche fa ritenere che in Italia, ma soprattutto in Lombardia e nel Lazio, siano in corso da diversi anni politiche economiche tese a depotenziare la sanità pubblica, lasciando maggiore spazio agli operatori privati». La vera novità è che in Lombardia si è prossimi al sorpasso: la Regione destina alla sanità pubblica 1.555 euro pro capite, mentre ai privati – sommando agli stanziamenti pubblici i soldi che i cittadini spendono di tasca propria per curarsi — vanno 1.494 euro a persona. La differenza è di solo 61 euro. Proprio come a Madrid, la sanità privata si mangia metà delle risorse. A Madrid, però, si protesta.

Questo articolo è stato pubblicato su L’Espresso il 9 marzo 2023

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