Il risultato delle primarie ha ribaltato quello delle sezioni mostrando la richiesta di svolta a sinistra di chi vota Partito democratico. Per invertire la rotta neoliberista di quel partito occorrono però rotture e conflitti non un semplice cambio di leadership
Elly Schlein è la nuova segretaria del Partito democratico. Si tratta di un risultato per alcuni aspetti dirompente: una donna di 37 anni, dichiaratamente bisessuale, uscita dal Pd nel 2015 in polemica con la direzione neoliberista impressa al partito da Matteo Renzi e rientrata poche settimane fa per candidarsi alla segreteria, diventa leader del principale partito di centrosinistra italiano. Lo fa spinta da una mobilitazione di questi tempi significativa alle primarie (circa un milione di votanti, una buona tenuta pur con un netto calo rispetto alle precedenti), ribaltando il voto degli iscritti (nel quale era prevalso il presidente dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini) e sulla base di una mozione che dice alcune parole nettamente di sinistra su temi come precarietà, salario minimo, matrimonio egualitario, immigrazione. Lo fa, d’altra parte, sostenuta dalla grande maggioranza dei dirigenti del Pd, gli stessi che sostennero Veltroni e Renzi, il governo Monti e quello Draghi, così come lei, del resto, ha lavorato fianco a fianco con l’avversario Bonaccini fino a ieri.
Il gioco sulla propria contemporanea internità ed esternità al Pd è ciò che ha consentito a Schlein di costruirsi un consenso interno ed esterno al Pd. Un’ambiguità utile ma non riproducibile in eterno. Come si risolverà, nel lungo periodo, la contraddizione tra le parole di sinistra di Schlein e la storia tutta liberista del Pd? In altre parole: è possibile fare la sinistra nel Pd? Un pezzo di elettorato di sinistra, privo di altri riferimenti, ha deciso di scommettere su questa opzione, esprimendo un bisogno di radicalità e cambiamento nello spazio a disposizione: quello delle primarie del Pd. Nella lunga transizione italiana, il Pd è sia uno spazio politico all’americana sia un partito tradizionale all’italiana: può essere attraversato da mobilitazioni in parte esterne e provenienti da sinistra, come in questo caso, ma mantiene poi una struttura di leadership nazionali e locali che ne ha fatto nel tempo uno dei principali punti di riferimento dell’establishment domestico e internazionale. Una reale politica di sinistra richiede, in un modo o nell’altro, un conflitto con questo establishment. Non è un caso se a fare la sinistra nel Pd, nei quindici anni di storia di quel partito, non è mai riuscito nessuno. A Schlein l’onore e l’onere di dimostrare di esserne in grado, sapendo che un centrosinistra maggioritario, oggi, non esiste nella società prima che nella politica.
Dimenticare Lingotto e Leopolda
«Una linea chiara che metta al centro il contrasto a ogni forma di disuguaglianza, il contrasto alla precarietà, per un lavoro dignitoso, e per affrontare con massima urgenza e serietà l’emergenza climatica». Non sono parole che siamo abituati a sentire da un segretario del Pd, tanto meno da una segretaria. Sentire Elly Schlein esordire parlando di salari, precarietà ed emergenza climatica non può che fare impressione a chi ha visto nascere nel 2007 il Partito Democratico con il discorso di Walter Veltroni al Lingotto, tutto costruito sulla centralità dell’impresa e della competizione individuale nella società, per non parlare degli interventi alla Leopolda di Matteo Renzi, che riprendevano pari pari l’elaborazione berlusconiana e confindustriale sulla necessità di facilitare i licenziamenti per incentivare le assunzioni.
È impossibile negare l’effetto dirompente di Elly Schlein, come biografia e come discorso politico, su un partito che è nato liberaldemocratico e ha sostenuto in questi quindici anni politiche tra le più liberiste e antipopolari della storia recente del nostro paese. Una giovane donna, che ha una relazione con un’altra giovane donna, e ha passato gli ultimi sette anni fuori dal Partito democratico, prima in Possibile di Pippo Civati e poi a capo della lista Emilia-Romagna Coraggiosa Ecologista e Progressista, prima di ricandidarsi con il Pd alle ultime elezioni politiche. Va detto che, paradossalmente, anche la mozione di Bonaccini, pur ex-renziano, era sostanzialmente più a sinistra del programma su cui il Pd è nato e delle politiche che ha messo in campo in questi anni. Quattro candidati su quattro alle primarie si dichiaravano favorevoli, ad esempio, al salario minimo legale e al matrimonio egualitario: due misure che il Pd non ha mai promosso nei suoi lunghi anni al governo.
L’opposizione, si sa, fa bene alla radicalità delle proposte, ma non è solo questo: l’impressione è che ci si trovi di fronte a un cambiamento di fase in cui il Pd come l’abbiamo conosciuto in questi quindici anni ha ben poco futuro. La sconfitta netta dell’opzione di continuità con Mario Draghi con cui si è presentato alle elezioni di settembre obbliga per forza di cose a un’inversione di rotta. E il neoliberismo progressista su cui Veltroni fondò il Pd nel 2007, all’epoca per la verità già una copia fuori tempo massimo della Terza Via anni Novanta di Tony Blair e Bill Clinton, non è più un’opzione politica esistente nell’Occidente di oggi. Un Pd il cui voto è sempre più fortemente associato ai livelli più alti di istruzione e reddito e alla residenza nei quartieri centrali delle grandi metropoli, mentre nei ceti popolari l’affluenza crolla, ha evidentemente bisogno di cambiare per non morire. E se la parola d’ordine è cambiamento, diventa naturale che a interpretarla funzioni meglio Elly Schlein che Stefano Bonaccini.
Fluidità e disallineamento
La scelta tra Schlein e Bonaccini può essere letta attraverso tante lenti diverse: sinistra contro destra all’interno del partito, ma anche millennial contro Generazione X, borghesia cosmopolita contro ceti popolari di provincia, campagne d’opinione contro amministrazione locale. Non si è trattato, per una volta, di una scelta tra ex-Democratici di Sinistra ed ex-Margherita. In questo, le primarie del 2023 sembrano essere state le prime primarie 100% Pd, in cui le appartenenze preesistenti alla tradizione della sinistra e a quella cattolico-democratica non sono state determinanti. Anzi: il candidato della «destra» renziana è un classico prodotto della filiera emiliana Pci-Pds-Ds, mentre la candidata «di sinistra» ha iniziato il suo percorso di militanza nella campagna per Barack Obama alle presidenziali americane del 2008. I dirigenti post-comunisti e post-democristiani del Pd si sono mescolati in maniera pressoché indistinguibile tra le due mozioni principali (a cui si aggiungevano quelle di Gianni Cuperlo e Paola De Micheli), in maniera molto diversa rispetto a scontri più classici come quello tra Pierluigi Bersani e Dario Franceschini nel 2009 o quelli tra Matteo Renzi e rispettivamente Gianni Cuperlo e Andrea Orlando nel 2013 e nel 2017.
Si è trattato, anche, delle prime primarie realmente aperte nel risultato, organizzate per scegliere davvero una nuova leadership per il Pd e non semplicemente per incoronare con un plebiscito il segretario già scelto. Non a caso, per la prima volta il voto delle primarie aperte agli elettori ha ribaltato la volontà espressa dagli iscritti al partito, che avevano preferito Bonaccini. Il Pd resta l’unica organizzazione al mondo che fa eleggere la propria dirigenza a chi non ne fa parte, in un esercizio, quello di primarie che non determinano il candidato a un’elezione ma il segretario di un partito, bizzarro quanto ormai radicato nella tradizione del centrosinistra italiano. D’altra parte, quando un partito che alle ultime elezioni politiche ha preso oltre 5 milioni di voti ha poco più di 150 mila iscritti, la crisi di rappresentanza è evidente e le primarie sono lo strumento, pur plebiscitario e paradossale, che il Pd si è dato per affrontarla.
In una campagna all’insegna del fair play (e non poteva essere altrimenti, per due persone che fino a pochi mesi fa erano presidente e vicepresidente della stessa amministrazione regionale), gli unici colpi sono stati la reciproca accusa di essere sostenuti dall’apparato del partito. Il fatto che, per due candidati alla leadership di un partito, il sostegno di dirigenti di quel partito sia un capo d’accusa è un altro dei paradossi tipici del plebiscitarismo delle primarie Pd. «Sarei io il vecchio Pd? L’apparato dei perdenti appoggia Elly Schlein» ha dichiarato Bonaccini al Quotidiano Nazionale. In effetti, sulla carta, l’outsider Schlein era sostenuta dal segretario uscente Enrico Letta, da due capicorrente di peso come l’ex democristiano (ed ex segretario) Dario Franceschini e l’ex diessino Andrea Orlando, nonché dai rientranti ex fuoriusciti di Articolo 1-Mdp guidati da Roberto Speranza e da un altro ex segretario, Pierluigi Bersani. Dall’altra parte, l’insider Bonaccini era sostenuto solo dalla corrente ex renziana Base Riformista e dall’ex sinistra ex renziana di Matteo Orfini. Se però dai capicorrente nazionali si scende sui territori, il discorso si ribalta: a sostegno di Bonaccini c’erano tutti i presidenti di regione del Pd oltre a lui (Eugenio Giani, Vincenzo De Luca e Michele Emiliano), una pletora di sindaci guidati dal fiorentino Dario Nardella e la stragrande maggioranza di dirigenti e quadri locali del Pd.
La divaricazione tra capicorrente nazionali con Schlein e amministratori e quadri locali per Bonaccini già segnalava lo sfaldamento delle filiere di rappresentanza tradizionali, che infatti hanno funzionato in maniera altalenante anche tra gli iscritti e iscritte, con interi territori in cui i circoli hanno votato Schlein in aperta disobbedienza all’apparato locale del partito. Una rivolta degli iscritti, segno della presa sempre minore della dirigenza sul partito, che è stata poi amplificata dal voto alle primarie aperte. L’impressione è che tra le oltre cinquecentomila persone che hanno votato Schlein ci sia stata una componente di elettorato tradizionale del Pd stanca delle sconfitte, dell’assenza di identità e di un’opposizione inconsistente al governo Meloni, ma anche un pezzo di elettorato che non è fedele al Pd, che alle ultime elezioni ha votato per l’Alleanza Verdi-Sinistra o per il Movimento Cinque Stelle, ma che ha comunque approfittato dell’occasione per dare un segnale verso sinistra, anche in un partito che non considera suo.
La scommessa di Schlein, in questo senso, è stata molto spregiudicata: la sua campagna è stata tutta interna al Pd, senza alcun abboccamento con componenti organizzate al suo esterno, neanche a livello locale, scommettendo che quel pezzo di elettorato da lei frequentato negli anni di autoesilio dal Pd, sarebbe comunque arrivato a suo sostegno. E così è stato. Un risultato che dovrebbe far riflettere seriamente i dirigenti di qualsiasi forza organizzata della sinistra politica e sociale: centinaia di migliaia di persone di sinistra, non iscritte al Pd e in parte neanche sue elettrici, hanno scelto, ognuna individualmente o su basi e relazioni completamente informali e non organizzate, di votare alle primarie di un partito che non è il loro, bypassando qualsiasi appartenenza organizzata e dando, semplicemente, un segnale nella direzione da loro preferita nel campo a disposizione, cioè le primarie del Pd.
In questo, le primarie si confermano un potente strumento di attrazione verso l’esterno: a elettori di sinistra privi di riferimenti, il Pd ha dato l’opportunità di votare una candidata a loro gradita: che importa se non si trattava di elezioni politiche ma di organismi interni di un partito. Il voto è sempre di più una forma di partecipazione slegata da qualsiasi appartenenza organizzata: elettori ed elettrici scelgono di volta in volta chi preferiscono all’interno di un determinato contesto, ignorando qualsiasi vincolo diverso dalla singola preferenza nel contesto dato.
In questo quadro, il Pd mantiene una centralità politica nel centrosinistra per la sua capacità di essere uno spazio politico attraversabile e attrattivo verso l’esterno, grazie appunto al meccanismo delle primarie. Alla sinistra resta la soddisfazione di aver prodotto, in qualche modo, sia la candidatura Schlein (che dai circoli della sinistra è stata sostenuta in questi sette anni, da loro è stata chiamata a parlare in giro per l’Italia, a loro ha venduto le copie del suo libro lo scorso anno) sia una parte del suo elettorato alle primarie. Si tratta però di una magra consolazione, di fronte all’incapacità conclamata di mettere in campo un’alternativa credibile sia nei confronti della stessa Schlein (che dopo sette anni è appunto tornata nel Pd, avendo trovato ben poco all’esterno) sia soprattutto nei confronti delle persone che hanno deciso di sostenerla alle primarie e che ora, magari, potrebbero decidere di entrare stabilmente nel Partito democratico. Così come potrebbero abbandonare ogni partecipazione collettiva se la segreteria Schlein si dimostrasse un’effimera parentesi come altre in passato.
Opposizione e alternativa
Non ci sarebbe stata, con ogni probabilità, Elly Schlein a capo del Pd se non ci fosse stata Giorgia Meloni a capo del governo. La presenza di una donna alla guida del primo esecutivo guidato dalla destra radicale nella storia della Repubblica ha sfidato il centrosinistra sul piano della leadership, producendo una segretaria del Pd che sembra essere davvero l’opposto di Meloni in tutto e per tutto: militante fedele di sezione contro eterna transfuga in cerca di identità, diploma alberghiero contro laurea magistrale, autorappresentazione di sé stessa come madre «tradizionale» contro orientamento dichiaratamente bisessuale, nazionalismo dei confini contro battaglie per i migranti. Meloni e Schlein incarnano due polarità opposte del teatro politico, seppure non due opzioni incompatibili, data la condivisione di alcuni presupposti di fondo sulla collocazione internazionale euroatlantica e la compatibilità di ogni scelta politica con gli assetti del capitalismo.
Da destra arrivano festeggiamenti provocatori, e pare evidente che la stampa fascio-trash farà di tutto per incasellare Schlein nello stereotipo della borghese «radical chic» che fa battaglie moralistiche su immigrazione e diritti civili mentre il popolo affamato è difeso solo dalla destra più reazionaria. Non è un caso che povertà, salari, lavoro, disuguaglianze siano stati al centro del discorso d’esordio di Schlein: sfuggire allo stereotipo che le stanno cucendo addosso è l’unica possibilità che ha la neosegretaria di fare un’opposizione che parli davvero alla maggioranza delle persone, facendo saltare il bipolarismo tra neoliberismo progressista e populismo conservatore che domina la politica occidentale. Schlein, pur interpretando in parte lo stesso bisogno di cambiamento sociale, politico e generazionale, non è Alexandria Ocasio-Cortez, per biografia, e ne è consapevole.
Dalle parti del centro liberista di Azione-Italia Viva, invece, sono già fioccati i paragoni tra Elly Schlein e Jeremy Corbyn (per la serie «cose che la destra dice che sarebbe una figata se fossero vere»), nel tentativo di attrarre le componenti più moderate del Pd, sia nel ceto politico sia nell’elettorato. Componenti che non si limitano solo alla corrente ex-renziana: non dimentichiamoci che i due grandi sostenitori di Schlein, Franceschini e Orlando, erano ministri del governo Draghi fino a pochi mesi fa, e che l’uomo che ha proposto la sua candidatura, Enrico Letta, è lo stesso che ha deciso di improntare tutta la campagna elettorale del centrosinistra alla continuità con l’esperienza di Draghi. Per non parlare del sistema di relazioni locali, nazionali e internazionali che ha fatto in questi quindici anni del Pd prima di tutto un fornitore di amministratori formati allo stato e un garante di assetti ed equilibri di fronte agli attori più vari, dai sindacati alla Bce.
Il rischio è che Schlein da una parte non sia Corbyn nella capacità di rompere davvero con il neoliberismo progressista, dall’altra venga comunque trattata da media e avversari come se lo fosse. Uno scenario in cui il Pd avanzi timide proposte moderatamente di sinistra su salari, redistribuzione, diritti ed ecologia, la destra le massacri come se avesse di fronte una piattaforma rivoluzionaria, e la sinistra si trovi a difendere una barricata che non è neanche la propria, è tutt’altro che improbabile. Più che Jeremy Corbyn, in questo scenario Elly Schlein si troverebbe a emulare Benoît Hamon, che prese la guida del Partito socialista francese per riportarlo a sinistra dopo il governo liberista di Manuel Valls ma riuscì in questo modo a perdere sia il voto di sinistra sia quello moderato, portando il Ps al minimo storico del 6% alle presidenziali del 2017. Del resto, senza andare troppo lontano, anche Nicola Zingaretti, nel 2019, fu eletto a capo del Pd con una piattaforma di rottura con il neoliberismo renziano, senza però proporre un’alternativa che non fosse il ritorno a un «centrosinistra normale» anni Novanta. Invertire la rotta del neoliberismo progressista implica rotture e conflitti, non un semplice cambio di leadership nella continuità.
Sullo sfondo resta la prospettiva della ricostruzione di un fronte di centrosinistra in grado di contendere il governo alla destra, riprendendo il tentativo fallito con la caduta del governo Conte II, a causa di attacchi esterni e dell’inconsistenza politica del progetto stesso. Il centrosinistra è l’opzione politica del compromesso, di un patto interclassista tra interessi sociali diversi che trovano una convergenza in nome di una prospettiva politica comune. Non, quindi, l’opzione politica che piacerebbe di più a chi scrive, ma quella di cui si sta concretamente parlando.
Il punto è che se le parole d’ordine di Schlein sono sicuramente più nette a sinistra di quelle dei leader del centrosinistra degli ultimi anni, resta poco chiaro quanto siano condivise dal suo partito e quale blocco sociale e politico si intende costruire intorno a esse. Il Pd è nato come partito privo di legami organici con le organizzazioni di classe: la segreteria Schlein proverà a costruirne, sulla scia dell’alleanza con una parte del mondo sindacale che sostenne Corbyn dentro il Labour? Oppure si proverà a fare del Pd stesso un’infrastruttura di massa, nonostante il crollo delle iscrizioni che non accenna a fermarsi da quando il partito è nato? Quali compatibilità si cercheranno con quei vasti settori di Pd che si concepiscono sostanzialmente come referenti politici dell’establishment nazionale e internazionale? E quale compromesso sociale si proporrà a quei segmenti dell’élite economica che, non disposti a partecipare ad alcun tipo di mediazione, già all’epoca del Conte II si misero direttamente all’opposizione? Anche una prospettiva di semplice centrosinistra, ben più moderata di quella che piacerebbe a chi legge o scrive su Jacobin Italia, ha bisogno di radici profonde in diversi settori della società, volontà di rappresentarne le istanze, capacità di conciliarle in una comune visione riformatrice. Dove si trova, nell’Italia di oggi, il potenziale compromesso sociale che un nuovo centrosinistra rappresenterebbe?
L’impressione, per ora, è che Schlein sia stata scelta più come leader dell’opposizione, come efficace contraltare mediatico a Giorgia Meloni, che come punto di riferimento di una nuova proposta di governo. La sua elezione, del resto, avvicina il Pd ai potenziali alleati del Movimento Cinque Stelle, per non parlare dell’alleanza Verdi-Sinistra, con il rischio di avere tre partiti che competono per lo stesso spazio, peraltro elettoralmente non enorme. Lo scenario peggiore, tra i possibili, è quello a cui si faceva riferimento citando Hamon: una proposta politica massacrata da destra e incapace di coinvolgere a sinistra, chiusa nella caricatura della «sinistra Ztl isolata dal popolo», il cui eventuale fallimento porterebbe un’ennesima ondata di delusione. D’altra parte, sarebbe miope negare che l’elezione di Schlein segnala il risveglio, seppur contraddittorio, di un pezzo di popolo democratico e progressista, e un evidente spostamento a sinistra dell’asse del dibattito. Si direbbe un contesto potenzialmente molto interessante sia per le forze organizzate della sinistra sia per sindacato e movimenti, se non fosse per la debolezza di questi soggetti in questa fase. Se nei corridoi del Nazareno si parla, magari in modo spurio e insufficiente, di lotta alle disuguaglianze, redistribuzione fiscale, questione salariale, riduzione dell’orario di lavoro, conversione ecologica, welfare universale, scuola e sanità pubbliche, ciò dovrebbe stimolare a riprendere e rilanciare la battaglia su questi temi nelle piazze e nella società italiana.
Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin il 27 febbraio 2023