Lo stile letterario di Marx

di Daniel Hartey /
4 Febbraio 2023 /

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C’è una relazione profonda tra le scelte stilistiche delle opere marxiane e lo «spirito concreto» delle loro innovazioni teoriche.

Karl Marx è stato uno dei più grandi intellettuali del diciannovesimo secolo. Fu anche uno dei più grandi scrittori. Come Charles Dickens, Honoré de Balzac e le sorelle Brontë, Marx spicca tra le vette della prosa ottocentesca.

Marx’s Literary Style di Ludovico Silva, recentemente tradotto in inglese e originariamente pubblicato come El estilo literario de Marx nel 1971, mostra indiscutibilmente che i due aspetti sono correlati [il libro venne pubblicato anche in Italia da Bompiani ma risulta ormai fuori catalogo, Ndt]. Marx è stato uno dei più grandi intellettuali perché è stato uno dei più grandi scrittori.

Un poliedrico venezuelano

Tradotto con gusto da Paco Brito Núñez, verso la cui iniziativa i lettori anglofoni nutrono un debito di gratitudine, Marx’s Literary Style è uno di quei libretti (appena 104 pagine) che hanno un impatto che supera di gran lunga le loro minuscole dimensioni. Dovrebbe essere considerato un classico del genere accanto a Il grado zero della scrittura di Roland Barthes, Jane Austen o The Secret of Style di D. A. Miller e Grammatica della moltitudine di Paolo Virno.

Formatosi in un collegio gesuita privato a Caracas, poi a Madrid, Parigi e Friburgo, Ludovico Silva (1937-1988) è stato un venezuelano poliedrico: poeta, saggista, editore e insegnante di filosofia. Ha svolto un ruolo attivo nel fronte culturale latinoamericano, fondando e dirigendo una serie di riviste d’avanguardia.

Silva si teneva a distanza dalle organizzazioni ufficiali della sinistra rivoluzionaria, anche se, come ci informa Alberto Toscano nella sua eccellente introduzione, simpatizzava per il Movimiento de Izquierda Revolucionaria. Negli anni Settanta guardava con favore agli esperimenti jugoslavi di autogestione e all’esperienza del poder popular a Matanzas, Cuba.

La sua morte prematura, all’età di cinquantun anni, fu causata da cirrosi epatica, che provocò un infarto. «Esistenza tormentata? Sì! – ha ricordato suo fratello maggiore Héctor nel 2009 – Insieme abbiamo viaggiato nel regno dei chiaroscuri dell’alcol». Baudelaire aleggiava come un santo patrono malato sulla sua vita e sul suo lavoro.

Marxismo e stile

Lo stile letterario si è rivelato un concetto curiosamente produttivo per i critici marxisti. Per Fredric Jameson lo stile è sinonimo di modernismo: l’invenzione ex nihilo di tanti linguaggi privati che rappresentano il Dna letterario dei loro creatori — da Marcel Proust e Gertrude Stein a Martin Heidegger ed Ernest Hemingway.

L’intreccio dello stile con il modernismo per Jameson rappresenta una categoria periodizzante. Egli identifica l’era del capitalismo di mercato con la spinta narrativa del realismo e afferma che quando il capitalismo monopolistico divenne dominante, limitò il potere della narrazione, scatenando le minuzie affettive catturate negli elaborati idiomi privati dello stile modernista. Quest’ultimo, a sua volta, alla fine ha lasciato il posto sotto il tardo-capitalismo all’assenza di stile del postmodernismo, in cui si dice sopravviva solo l’effetto vuoto del pastiche.

Per Terry Eagleton, invece, lo stile è allo stesso tempo politico e teologico. Considera la polemica come un prerequisito stilistico per ogni rivoluzionario, trasponendo l’insorgenza incipiente del proletariato nel dominio del discorso. Allo stesso tempo, lo stile è una forma di sensualità linguistica: deve rappresentare il mondo ma non dimenticare mai la propria materialità, percorrendo una linea sottile tra oggettività autonegativa e formalismo autoreferenziale.

Lo stile raffinato, per Eagleton, è sempre un compromesso tra immediatezza corporea e astrazione concettuale. Nei suoi primi lavori (ai quali è tornato di recente), ha letto tutto ciò come una prefigurazione cattolica e sacramentale del superamento dell’alienazione.

Infine, per Raymond Williams, che era molto più scettico nei confronti della categoria di Eagleton o Jameson, lo stile era una modalità linguistica di relazione sociale. Intepretò le lotte stilistiche di scrittori come Thomas Hardy, che cercavano di combinare le espressioni concrete di uomini e donne comuni della classe operaia con le modalità più avanzate di articolazione borghese, come un’interiorizzazione letteraria della natura divisa in classi di linguaggio nella società capitalista in generale. Per Williams la battaglia per una buona prosa era coestensiva alla lotta per relazioni sociali giuste, dunque lo stile non poteva essere giudicato in forma isolata.

Lo stesso Marx era profondamente consapevole dell’importanza dello stile. In uno dei suoi primi articoli giornalistici, pubblicato nel 1842, si scagliò contro un decreto di censura prussiano promulgato da Federico Guglielmo IV che presumibilmente «non avrebbe impedito indagini serie e modeste sulla verità». Così dicendo, tuttavia, il decreto vincolava lo stile con cui i giornalisti erano legalmente autorizzati a scrivere.

Marx era sprezzante:

La legge mi permette di scrivere, solo che devo scrivere in uno stile che non è il mio! Posso mostrare il mio volto spirituale, ma devo prima metterlo nelle pieghe prescritte! Quale uomo d’onore non arrossirà di fronte a questa presunzione…?

Marx identifica lo stile di uno scrittore con la sua fisionomia unica o il suo essere spirituale interiore. La legge sulla censura statale richiedeva effettivamente che gli scrittori avvitassero i loro volti letterari in un rictus decretato dallo stato, imponendo loro un’identità aliena che soffocasse le loro forme singolari di espressione.

La risposta di Marx ha informato la sua prima più generale critica dello stato moderno. Vedeva quest’ultima come premessa di una scissione tra società civile e politica: tra «l’uomo nella sua esistenza sensuale e immediata» (il borghese) e «l’uomo come persona allegorica e morale» (il cittadino). Questa scissione, sosteneva, era la forma politica dell’alienazione capitalista.

Dalle poesie d’amore ai massimi sistemi

Ludovico Silva è un’importante figura di questa ricca vena di stilistica materialista. È impossibile leggere lo stile letterario di Marx e non venirne fuori con una comprensione letteraria molto diversa da quella con cui se ne era entrati.

Lo stile è stato storicamente visto come «l’abito del pensiero», un supplemento estetico o una «rifinitura» superficiale aggiunta al significato primario comunicato. Silva si sforza di evidenziare, tuttavia, che questa visione dello stile basata sul senso comune è inadeguata a una vera comprensione dell’opera di Marx. Lo stile di Marx è un aspetto costitutivo del suo progetto complessivo di critica. È anche il mezzo con cui rende sensibilmente percepibile l’astrattamente concettuale, e in questo senso ha una funzione pedagogica.

Nel capitolo 1, Silva individua le origini dello stile letterario maturo di Marx in quattro aree: le sue prime (fallite) composizioni poetiche; il suo intenso studio estetico e linguistico dei classici (latino e greco); la sua passione giovanile per l’idealizzazione metaforica; e la sua prima critica spietata dei suoi tentativi formativi di scrittura letteraria. Marx si accorse molto presto dell’inadeguatezza dell’astratto sentimentalismo romantico che caratterizzava le prime poesie d’amore che aveva scritto per Jenny von Westphalen, che in seguito sposò. Come disse in una straordinaria lettera a suo padre nel 1837: «Tutto ciò che è reale è diventato nebuloso e ciò che è nebuloso non ha contorni definiti».

La lettera testimonia la travolgente conversione di Marx dalla poesia alla filosofia hegeliana, ma la traiettoria oltre Hegel è già prefigurata: Marx aveva compreso la necessità di uno stile aderente al reale e all’attuale, concentrato e compresso, e animato dalla densità oggettiva. Questo è lo stile che caratterizzerà le successive opere pubblicate di Marx ed è racchiuso nella frase paradossale di Silva «spirito concreto».

Il capitolo 2 è il più lungo del libro ed espone le caratteristiche fondamentali dello stile di Marx. Silva sostiene che l’opera di Marx debba essere intesa come un’unica «architettura», un termine che prende in prestito da Immanuel Kant che la definisce «l’arte dei sistemi» [die Kunst der Systeme]. L’architettura è comune sia alla scienza che all’arte: la scienza si basa sulla conoscenza sistematica e affinché l’espressione diventi arte deve, secondo la lettura di Silva, essere governata dall’arte dei sistemi.

Silva insiste in tutto il libro su una netta divisione nell’opera di Marx tra quelle che ha preparato con cura per la pubblicazione e quegli infiniti manoscritti o quaderni incompiuti che non ha mai pubblicato. Mentre questi scritti fanno tutti parte dell’architettura della scienza (un unico progetto di critica dell’economia politica), solo quelle opere che Marx ha rielaborato per la pubblicazione – il più famoso, il volume 1 del Capitale – esemplificano l’arte del sistema sovrapponendo la struttura scheletrica della scienza con la carne vitale dell’espressione metaforica.

L’invocazione casuale di Silva all’architettura kantiana solleva una questione spinosa: fino a che punto possiamo dire che il materialismo storico di Marx erediti nozioni preesistenti di scienza e sistematicità dall’idealismo tedesco? Silva sorvola la questione.

Dialettica dell’espressione e della metafora

La seconda caratteristica dello stile di Marx è ciò che Silva chiama «l’espressione della dialettica» o «la dialettica dell’espressione». Si riferisce qui all’uso costante da parte di Marx di chiasmi o inversioni sintattiche in cui i termini della prima metà di una frase sono invertiti nella seconda: «La vita non è determinata dalla coscienza, ma la coscienza dalla vita» (L’ideologia tedesca), o «L’ipoteca che il contadino ha sui beni celesti garantisce l’ipoteca che il borghese ha sui beni contadini» (Le lotte di classe in Francia, 1850).

È una figura che incarna il movimento dialettico della realtà stessa: «Il segreto letterario di quanto siano ‘rotonde’ e sorprendenti tante frasi di Marx – scrive Silva – è anche il segreto della sua concezione dialettica della storia come lotta di classe o come lotta tra opposti». Lo stile di Marx è una riproduzione o rappresentazione mimetica dei movimenti reali della storia: «Il linguaggio di Marx è il teatro della sua dialettica».

La terza e più importante caratteristica dello stile di Marx è il suo uso della metafora. Il libro si concentra su tre delle più note: la (s)fortunata metafora struttura-sovrastruttura, la nozione di «riflesso» e la religione come forma di alienazione. Come Aristotele prima di lui, Silva sottolinea l’importanza cognitiva di tali metafore, ma anche – in modo cruciale – insiste sulla necessaria distinzione che deve essere fatta tra metafore e conoscenza scientifica teorica.

In alcune brillanti analisi, svela la totale inadeguatezza delle metafore struttura-sovrastruttura e del riflesso come base per la teoria scientifica, ma ne sostiene ancora il potenziale pedagogico. Si percepisce qui il disprezzo di Silva per le parodie dogmatiche dell’opera di Marx nei manuali ufficiali del Partito comunista dell’epoca. La sua argomentazione si avvicina stranamente a quella dell’opera di Williams, Marxism and Literature, pubblicata solo sei anni dopo, che sfidava anche le metafore struttura-sovrastruttura e riflesso.

Williams e Silva concordano sul fatto che, se seguite strettamente fino alla loro conclusione logica, queste metafore invitano alla divisione tra una base economica e un regno celeste di idee proprio quando Marx aveva cercato di esporre il loro intreccio totale. Non sorprende quindi che Silva abbia scelto come una delle sue epigrafi la frase «il linguaggio è coscienza pratica» (da L’ideologia tedesca), che ha costituito anche la base della matura teoria del linguaggio, della letteratura e della forma di Williams.

Ironie della storia

Il resto del libro rivela la sottile connessione tra polemica, presa in giro, ironia e alienazione che ricorre in tutta la scrittura di Marx. Wilhelm Liebknecht scrisse una volta che lo stile di Marx gli ricordava le radici etimologiche della parola stessa: «Lo stile è in questo caso quello che era originariamente nelle mani dei romani, lo stilo, una matita d’acciaio appuntita per scrivere e per pugnalare…».

Marx sapeva scrivere sporco; era maestro della lama a distanza ravvicinata. Eppure Silva insiste anche, giustamente, che l’ardente indignazione di Marx andava di pari passo con l’ironia: «Quanti hanno cercato di imitare lo stile di Marx, solo per copiare l’indignazione dimenticando l’ironia!». Proprio come la «dialettica dell’espressione» era una stilizzazione del movimento dialettico della realtà, così l’ironia è la modalità stilistica della concezione generale della storia di Marx. Secondo Silva:

Se Marx è un materialista, è perché ha sempre cercato di scoprire, andando oltre o al di sotto dell’apparenza ideologica degli eventi storici (stato, diritto, religione, morale, metafisica), le loro strutture materiali sottostanti. Per questo le sue ironie stilistiche giocano sempre un ruolo fondamentale: quello della denuncia, dell’illuminazione della realtà.

Ancora una volta, un aspetto dello stile di Marx viene letto come formalizzazione letteraria di un processo storico.

Il libro termina spingendo questa argomentazione alla sua logica conclusione: l’alienazione è una grande metafora. Proprio come la metafora richiede il trasferimento di un significato a un altro, così nella società capitalista «troviamo uno strano e onnicomprensivo trasferimento dal vero significato della vita umana verso un significato distorto». Piuttosto che essere una semplice figura retorica che può essere estratta dalla realtà che «semplicemente» rappresenta, Silva insiste sul fatto che l’alienazione capitalista ha una struttura metaforica.

Forse lo stesso si potrebbe dire degli individui, di cui si parla nel Capitale vol. 1, nelle famose parole di Marx, «solo in quanto sono personificazioni di categorie economiche, i portatori [Träger] di particolari rapporti di classe e interessi». Quando Marx si riferiva ai singoli capitalisti come «capitale personificato», non stava suggerendo che i capitalisti agissero come se fossero personificazioni (allegoriche), ma che fossero personificazioni viventi del capitale, facendo così crollare ogni distinzione troppo netta tra figura letteraria e contenuto storico.

Quando lo stile diventa una questione del movimento fondamentale della storia, non può più essere accantonato come mera affettazione letteraria. Silva tiene il punto con grazia, con non poca forza e con mirabile concisione.

*Daniel Hartley è assistente professore di letterature mondiali presso la Durham University (Regno Unito). È autore di The Politics of Style: Towards a Marxist Poetics (Brill, 2017). Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.

Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin il 3 febbraio 2023

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