Ci sono situazioni a Teatro, anche se non solo, ma più usualmente li, intendendo questo termine con larghezza di intenti e vedute, ovvero non semplicemente come uno spazio fisico circoscritto, codificato in quanto tale, in cui si sprigionano ed esprimono ispirazioni e sollecitazioni quasi soprannaturali.
Shakespeare lo aveva ben presente e certamente potremmo dire abbia sempre lavorato sul crinale vagamente stregonesco della rappresentazione, osando e dosando sapientemente accenti lirici, sfumature comico-umoristiche e pura tragedia.
Tutto questo più tante altre cose, sono alla base di un lavoro presente in Arena dal 24 gennaio a domenica 29 gennaio, dal significativo titolo Per Magia e che vede in scena, due tra le attrici più consapevoli e colte della loro generazione, Angela Malfitano ed Elena Bucci, anzi, artiste a tutto tondo in quanto autrici, nel senso più largo della declinazione di questo termine. Due temperamenti forti, senza meno, da vedere se a confronto, in alternativa o in forma complementare. Due uomini protagonisti di una narrazione hanno una lunga storia alle spalle che parte forse da Caino e Abele. Per andare avanti con Don Chisciotte, fino alle grandi coppie deuteragoniste dello schermo e si è in questo senso lo slang americano persino inventato un termine che suona come buddy buddy., ad indicare la strana coppia maschile. Trovare un equivalente al femminile è estremamente raro, soprattutto perché pensando per esempio alla stessa Malfitano, non nuova ad esperimenti di questo genere, con la famosa pièce di successo due vecchiette su al Nord, per esempio o quando ha lavorato con la rocker Baraldi, di cui ci occuperemo tra poco, in realtà la condivisione muliebre delle scene non ha dinamiche di ruolo definite e stereotipate da secoli di gags alle spalle.
Un notevole motivo di interesse in questo lavoro è anche il fatto che nasca come chiusura simbolica di una lunga cavalcata tra le tematiche inerenti la percezione, l’autodeterminazione, la presa di parola simbolica e pubblica da parte del Corpo femminile, il corpo della riproduzione sociale, al centro tuttora di un dibattito diffuso e intersezionale -intergenerazionale che è stato nelle sue continue evoluzioni, il progetto itinerante portato avanti da Collettivo Amalia, in questo lungo arco di tempo 2022/2023.
Un progetto che assume anche la connotazione di un festival della creatività femminile, titolato Salute a te, a sottolineare un approccio di genere qualificante dal punto di vista culturale alle questioni biopolitiche più scottanti sul tappeto e che è destinato a durare e a connotare nelle sue articolazioni laboratoriali, seminariali, performative luoghi molto diversi del nostro territorio, talvolta risignificandoli e talvolta come in questo caso illuminando la Scena per antonomasia di intuizioni e visioni che ci attrezzino ad un futuro che se non vogliamo distopico, dobbiamo assolutamente trovare energie, coraggio ed alleanze per prenderne le redini.
Ricordiamo che Collettivo Amalia nasce come ensemble di donne che si coordinano in geometria variabile e in rapporto di orizzontalità tra loro, attraversando competenze diverse, utilizzando strumenti diversi, generando ricadute diversificate del loro operare a seconda dei contesti, dei soggetti che vogliono coinvolgere e con cui desiderano confrontarsi e collaborare.
In questo caso, la novità assoluta per Collettivo è arrivare ad una misura teatrale di classicità potremmo dire, dopo un lungo percorso costruito attraversando impavidamente modalità ibride di relazione con le cittadinanze e con le donne in particolare.
Qui però i motivi di curiosità e interesse davvero sono molteplici, perché non solo abbiamo in scena due primedonne, ma anche una spartizione che è in realtà condivisione di lavoro tra chi ha concepito la trama, il pretesto narrativo e la drammaturgia e chi si è assunto il compito di dirigere, tra chi è appunto organica a Collettivo e chi invece entra in collaborazione con una elaborazione ormai lunga diversi anni e sempre in costante evoluzione a sancirne vitalità. Ora, questa prova suona dunque anche come una prova di necessità: la necessità comunitaria delle pratiche teatrali e la necessità di esprimere una cultura di genere che sappia parlare a generi e cittadinanze: un palco come quello di Arena, per sua natura palco pubblico, si presta certamente a questo test.
Come sempre in questi casi, propongo due chiacchiere alle nostre amate artiste, che sanno anche condividere la breve intervista ben dosando il senso del loro discorso e turnandosi sapientemente nelle risposte. Naturalmente, trattandosi di Bucci e Malfitano, non si può prescindere dalla loro comune storia formativa eppoi, -siamo anche romagnole entrambe-, chiosa Angela scherzosamente, a sottolineare una radice identitaria che marca in qualche maniera talenti e temperamenti aggiungendo calore e umanità.
Mi scuso per la prevedibile banalità, ma mi tocca di partire dalla genesi di questo lavoro e dal fatto di vedervi on stage insieme. Non perché ovviamente non sia mai successo o io non vi abbia mai viste in questa situazione, ma perché ora quadro di riferimento e contesto sono molto diversi.
Angela: “In questo caso, per me come ben sai, c’è una componente genetica di questo lavoro che si situa tutta dentro al discorso Amalia che mi ha vista e mi vede molto impegnata per lo più come regista, pedagoga, organizzatrice. Questa è una ulteriore evoluzione per me e si basa ovviamente anche su un rapporto di fiducia nel senso di affidamento ad un’altra artista e con l’intento preciso di parlare di Donne, il che aggiunge un effetto moltiplicatore a questo abbandono controllato alla regia di Elena. Con lei, cosi come con Marco Sgrosso, purtroppo impegnatissimo altrimenti in questo periodo, c’è affetto fraterno e stima reciproca. Questo ovviamente dai tempi di Leo. Li prima di tutto abbiamo appreso la circolarità di funzioni, mansioni ed esperienze, in cui le individualità sono valorizzate se al servizio di un progetto collettivo di compagnia e questo è un imprinting che rimane. Di molto mio in questo lavoro c’è l’amore per le biografie di Donne in qualche maniera sconcertanti, che hanno voluto e saputo mettersi in gioco fino in fondo e rischiare. Sono esempi che qui non sono tanto esplicitati in senso strettamente biografico, ma servono per fare un viaggio avanti e indietro nel tempo e soprattutto nelle visioni che si generano nel tempo della Storia, quelle che ci aiutano ad andare verso il futuro… perché anch’io mi sento, piena di futuro e cose da fare, non è solo un titolo ad effetto per un mio precedente spettacolo”.
Elena: “la genesi di questo nostro incontro sta ai tempi della pandemia, un momento molto particolare come sai un po’ per tutti, ma davvero sconcertante per lo spettacolo dal vivo. È in questo momento che Angela mi fa leggere un suo testo, che allora si intitolava Magia e che aveva una valenza anche liberatoria. Io l’ho voluto rendere come per Magia, a sottolineare quello che la visione può fare, ma soprattutto il Teatro può fare. In questo senso si, si sente il magistero di Leo ed è difficile descriverti quello che accadrà in scena, certamente è un po’ anche un varietà, sai che io ho questa componente un po’ sciantosa… ci siamo divertite, anche se la fatica è sempre tremenda.. abbiamo abiti lunghi, musiche, luci suono, siamo abituate a curare meticolosamente tutto questo. Mai autoreferenzialmente, ma sempre in lavoro di squadra. c’è autobiografia nostra, ma intrecciata a tante altre biografie eccezionali. Ogni donna in fondo è un’ordinaria eccezione. non è un bilancio, attenzione, perché la storia è tutta da scrivere ancora. La maturità artistica significa avere sempre più cose da dire e l’urgenza di dirle. Mi sono accostata al lavoro di Angela con stima, si, ma anche con curiosità ed entusiasmo perché comunque anche dopo la diaspora di noi teatranti usciti dalla bottega di Leo, ho continuato a seguire i suoi percorsi anche da lontano, ammirando sia quelli artistici che personali”.
A questo punto un’altra domanda in qualche modo doverosa ed è quella che concerne il femminismo, il rapporto in questo senso con il magistero di Leo.
Angela: “La cosa che mi preme chiarire è che quando sei di fronte ad un maestro come lui, il genere in un certo senso non conta. Non si tratta di neutralità, ma di conglobare tutti gli aspetti della questione drammatica in un insegnamento. In fondo il teatro ti rende in grado di diventare qualsiasi cosa, qualsiasi persona, in quel momento di credulità e sospensione del giudizio che lo spettatore attua e si invera la…magia. La questione delle Donne è un tema della società e casomai del Teatro in quanto Lavoro. In questo senso c’è molto tanto da fare anche nel nostro discorso pubblico. Ci sono tante cose che proprio nei media e nei luoghi comuni non si possono stare a sentire e che vengono riportate anche nello spettacolo come esempi di narrazione tossica. In generale le Donne stanno imparando a prendersi più spazi, io stessa ho sempre più consapevolezze sia rispetto al mio lavoro, che all’essere donna”.
Elena: “La questione di genere certo riguarda l’organizzazione e l’assetto politico, se andiamo a contare quante donne ci sono in certi punti chiave del sistema cultura e dunque della direzione dei Teatri, per esempio o anche delle compagnie. In questo senso la cifra forse maschile sta nel fatto che Leo fosse il capocomico, anche se poi a ben vedere all’inizio non è stato neppure cosi.
Il capocomicato, significa avere una visione artigiana e certosina del lavoro artistico che certo oggi è di pochi e in cui tutte le maestranze vengono accudite e tutelate dal primo all’ultimo attrezzista o sarto o trovarobe. Se mi obietti che Leo è stato l’ultimo, non sono d’accordo, perché in tanti abbiamo ereditato quella visione di compagnia teatrale, diciamo che lui ha avuto l’autorevolezza per rendersi visibile e in questo senso, ha usato politicamente bene, quantomeno per tutti e tutte quell’autorevolezza di artista che si era guadagnato sul campo, battagliando sempre fino alla fine. Io ricordo benissimo quando prendeva il treno per andare a discutere al Ministero la creazione di un settore teatro di ricerca che allora ancora non esisteva, ma se ci pensi bene, ogni volta che otteneva qualcosa gliene toglievano un’altra. Per esempio lo spazio teatrale. La vicenda pandemica ha dimostrato quanto come categoria siamo complessivamente deboli come potere contrattuale e quanta redistribuzione di poteri ci sia da fare.
Forse, come dice qualcuno non siamo stati sufficientemente politicizzati, eppure io credo profondamente forse oggi più di allora nel valore intrinsecamente politico del Teatro dal momento che è in grado di riunire in un luogo convenuto per una celebrazione collettiva i cittadini della Polis. Partecipare vuol dire con varie sfumature fare politica. Diciamo che ci sono ondate generazionali anche per le forme dell’attivismo. Noi abbiamo continuato con ostinazione il nostro lavoro in modo carsico, studiando tanto e forse poco visibili, ma c’è un ponte ideale che ci unisce alle nuove generazioni e specialmente alle ragazze che vogliono recitare, dirigersi, produrre. Sai bene quanto io ed Angela curiamo il rapporto di trasmissione d’esperienza ed anche valorizzazione delle nuove generazioni. Quante nuove giovani artiste vengono addirittura a provare a casa mia in Romagna, perché non hanno spazi altrimenti per fare apprendistato e provarsi.
La mia idea è che i sommovimenti della società siano sempre presenti sottotraccia e a volte si esprimano con la protesta, l’adunare energie pensieri e persone, altre volte portando avanti il proprio mandato con una implicita critica di sistema che è quella che risiede nella cura perseverante della propria poetica. E trovo ancora oggi che considerarsi e provarsi autori, sia una lezione politica che valorizzi in particolare le giovani donne. Questa chiusa argomentativa, mi sembra una giusta forma di congedo del tutto temporanea delle mie intervistate e spero risuoni, se trovate ancora posto nella sala Salmon di Arena, come un implicito invito a rivalutare la tradizione come summa di innumerevoli innovazioni d’eccezione e anelito a scoprire insieme le mille sfaccettature del creativo femminile, non come a parte dalle faccende del mondo, ma come attitudine, punto di vista, parola pubblica.
Questo tema di potenza tellurica del creativo, che, può storicamente assumere anche sembiante di donna, o forse soprattutto, questa veste, mi pare molto presente, quindi molto oltre un discorso di produzione teatrale di donne, tra donne e per donne, nell’ultima fatica di Atelier Si, compagine già avvezza da anni a trattare differenze e diversità di qualsiasi ordine e naturalmente incline ad approcci intersezionali di lettura della realtà e pratiche teatrali. In questo caso, stiamo parlando di una produzione ERT, questo Nell’impero delle misure, che ha debuttato poco tempo fa allo Storchi di Modena per poi traslare per pochi giorni purtroppo, nello spazio di casa in S Vitale.
Si è già detto e scritto molto su questo spettacolo, per diverse ragioni che cercheremo qui di evidenziare.
Ce ne sono almeno tre, se volessimo procedere per macrocategorie.
Una certamente relativa al forte impatto emotivo di questo lavoro, su cui a breve torneremo in maniera più circostanziata, l’altra relativa ad un cast quasi completamente femminile, fatta salva la preziosa, necessaria presenza di Andrea Mochi Sismondi e, naturalmente, l’elaborazione del suono proposta da Vinx Scorza, l’altra ancora, relativa ad un tema di cultura russa estremamente scottante in questo momento.
Lo spettacolo infatti è, non tanto un omaggio, ma una sorta di immersione senza bombole di ossigeno, dentro gli abissi poetici, esistenziali e letterari di Marina Cvetaeva, come dire una maudit della letteratura di tutti i tempi forse, ma sicuramente emblematica delle violenze e in qualche modo oscure trame del famigerato secolo breve o meglio delle sue ricadute nella viva carne del femminile.
Una assunzione totale della responsabilità storica e della pena conseguente permea il mesmerico lavoro di Menni e soci, insieme ad una sconfinata adesione alle vibrazioni e riverberi dell’animo femminile.
Lo spettacolo, come si diceva emoziona, commuove profondamente, evitando tuttavia una facile identificazione o una visceralità esibita perché pur pescando molte suggestioni dai testi autobiografici in prosa più che da quelli propriamente poetici dell’autrice, avvolge come solo una partitura musicale sa fare :e in effetti Menni in questo caso cura il progetto sonoro che non è pretestuoso. Progetto allusivo di una storia familiare che definisce l’intera vicenda esistenziale di Cvetaeva. Un progetto in cui musica e poesia come è giusto che sia, stanno appaiate, in relazione ravvicinata, oseremmo dire geometrica a marcare il perimetro di una biografia tormentata, inscritta tutta nella tragicità del secolo breve.
Anche in questo caso, mi pare opportuno fare due chiacchiere con chi porta la responsabilità ideativa di un lavoro tanto impegnativo. Eccomi quindi a colloquio con Fiorenza Menni, intensa, tragica eppure composta impersonificazione di una Marina, quella più legata al quotidiano di esule intellettuale povera, sofferente, madre e donna libera e orgogliosa. Senza complessi nei confronti del maschile”.
Anche in questo caso, partiamo da una domanda elementare, che concerne il perché di questo lavoro, visto che non possiamo oggi non sentire un nesso con il momento bellicista e conflittuale che stiamo vivendo..
“In realtà, questo progetto ha una genesi lontana, tra tante chiacchiere con l’amica Sara De Simone, che da sempre caldeggiava un nostro avvicinamento, di Ateliersi in quanto collettivo teatrale, alla vita e opere di Cvetaeva. Abbiamo sempre nicchiato e temporeggiato perché non ci sentivamo all’altezza e perché anche per noi da sinistra è sempre difficile contestualizzare e porgere correttamente un’artista di questo calibro, di questa qualità di interiore libertà nomadica, quale lei è.
Ci siamo messi a leggere cose sue e a provare una sintesi di pensiero, ma ci è subito sembrato tutto molto molto difficile e scabroso da trattare, troppo esposto a rischi interpretativi, a strumentalizzazioni storico politiche da un lato e ad una retorica della condizione femminile. Poi però, con l’avanzare degli eventi di cronaca-storia attuali, ci è parso doveroso trasformare in una resa performativa tante letture e meditazioni in tema svolte nei tempi recenti quando ancora si riusciva a leggere tanto.
La cosa che ci è parsa più evidente allora è stata che le Marine dovessero essere più di una, almeno 4, per dare l’idea di diverse fasi della sua vita e dei suoi molteplici talenti. Quindi in scena ci sono io, la Marina della povertà e dell’esilio, insieme a due giovani e bravissime allieve dei miei corsi, Margherita Kay Budillon, che rappresenta la sfrontatezza giovanile e Francesca Lico al piano che rappresenta in realtà una trasmissione matrilineare molto forte tra la madre della poetessa, fino ad arrivare alla amatissima figlia Arianna. In ogni caso Marina era stata una provetta piccola pianista fino a quando aveva deciso già da bimba di ribellarsi alle imposizioni familiari per avviarsi alla poesia, sentita come matrice identitaria vera e propria. Non dimentichiamo che Cvetaeva conosceva anche perfettamente il tedesco e il francese, a sottolineare la sua appartenenza ad una classe borghese che però non la condiziono mai quanto a valori di perbenismo e conformismo o di opportunismo sociale. Di piglio aristocratico è infatti il suo coraggio nelle situazioni del quotidiano più estreme, la sua assoluta noncuranza di agi e privilegi, il suo disprezzo per la mediocrità del compromesso. Baraldi che conoscevamo già e che aveva già lavorato con noi e da noi, ha aderito con entusiasmo anche se inizialmente era molto perplessa su diverse cose volevamo farle cantare e non ne voleva sapere di interpretare Schumann. Infine, si è lasciata convincere e il risultato c’è stato. La sua è una poesia inebriata dal languore d’amore.
Eppure Cvetaeva ci appare sempre affilata come una spada nel suo modo di esporsi e raccontarsi, perché ha una lucidità fuori formato, che rende la sua intelligenza di qualità superiore, ma soprattutto non cosi connotata come femminile. La sua voce si leva senza complessi di inferiorità nei confronti del maschile, lo si vede dal suo rapporto con Pasternak, attraverso l’epistolario e anche da quello con Rilke, che infine non incontrò mai. Se si fossero visti, raggiunti, forse le cose per lei avrebbero preso una piega diversa, meno tragica. Sara poi Pasternak in qualche modo a proteggerla sempre a salvaguardare le sue opere, cosi come complessa è la relazione con la figlia Arianna, la sopravvissuta di due, che la seguirà per molti anni di peregrinazioni, per poi non sopportando una precaria convivenza, lasciarla. Lei che si sentiva investita di una pesante trasmissione di esperienza, così come era accaduto a Marina stessa nei confronti di sua madre, diventerà poi pianista e riuscirà a salvare con sé in una pesante valigia molti scritti di questa poeta che già i suoi contemporanei, le sue “colleghe”, ritenevano grandissima. La sua precocità nei talenti e nella consapevolezza intellettuale, il riconoscimento identitario preciso di una vocazione ineluttabile alla musicalità del verso, la sua sfida aperta, prima che mai si potesse porre il tema dei tempi di conciliazione, ai limiti imposti dalla sua condizione di madre, in una parola l’estrema libertà interiore che si traduce in libertà, per quanto ferocemente perimetrata dalla sua condizione di fatto di emarginata e in seguito di espatriata ,nei comportamenti, la rendono veramente unica.
Marina non si autocommisera mai, non rivendica, non maledice, non denuncia, ma annota, osserva, è testimone del suo tempo senza pretesa di esserlo. La sua stessa essenza è quella della testimonianza, il suo destino. Fa parte di una generazione in transito, composta anche di grandissimi, ma tutti in varia misura condizionati e schiacciati dall’angelo sterminatore della storia”, cui toccò di vedere gli esordi di un secolo che chiamiamo breve, fatto di sangue, rivolgimenti, catastrofi. Questa cosa non può non segnarti profondamente insieme al freddo, alla miseria, soprattutto alla fatica, evocata e descritta con precisione tante volte, in una Russia prima, di gelo, carestia, poi di spoliazione di beni da parte dei rivoluzionari, lei che aveva provenienza agiata. Soprattutto che aveva sposato un giovane ufficiale dell’armata bianca, prima disperso, poi giustiziato ma che aveva lasciato lei appena venticinquenne sola con due figlie piccole. Eppure Cvetaeva, estranea ai brutali meccanismi storici, e tuttavia, tutta dentro il suo tempo, mai anacronistica o nostalgica, perché del resto istintivamente ribelle ai meccanismi di normalizzazione e decoro borghese, si lascia ispirare dai poeti cantori della nuova era rivoluzionaria, considera, ce lo dicono alcuni suoi scritti, eroticamente desiderabili i bolscevichi, ha pure un figlio maschio, ben descritto come ragazzone accanto a lei nella fila della mensa … insomma attraversa il suo tempo come la Fenice, risollevandosi anche dalla parentesi da rifugiata a Parigi, che le parrà negativa lontana dai paesaggi nativi che amava tanto. L’Occidente parigino per lei è ancora miseria, emarginazione, unita a grigiore, mancanza di spazi verdi. Infine l’atto di autodissoluzione finale ci pare incomprensibile, il suicidio nel 41,da parte di una donna tanto forte: ma il fatto è che probabilmente l’idea di sopportare gli stenti e i massacri di una nuova guerra, lei che di violenze, sparizioni, deportazioni ne aveva già viste tante, le parve insopportabile”.
Avete pensato a come poteva riverberarsi nella situazione politica attuale questo lavoro? lo considerate politico in sé, non pensate che scuota così gli animi, perché ci rimanda anche solo a proposito di pacifismo, ai nostri fallimenti generazionali?
“Abbiamo cominciato a leggere Cvetaeva, nel 2020, quando appunto si aveva più tempo per leggere e approfondire e ci era già sembrato difficilissimo rendere materia tanto incandescente, in modo scenico, poi in seguito si è aperta tutta una questione, un ulteriore dibattito sulla cultura russa, sulla presunta contraddizione tra mondo a est e mondo a ovest. Una poeta come Marina è politica nella misura della sua non riconducibilità dentro uno schema o un modello, la sua stessa biografia artistica e di donna è un fatto che noi oggi possiamo definire politico, la denuncia di modelli sopraffattori non dissimili in questo, tra blocchi, esce implicitamente. Anche tutta l’impotenza che Arte e Bellezza talvolta sentono di fronte ad una volontà di persecuzione e distruzione. Noi ci sentiamo spesso inermi, noi che abbiamo coltivato sperabilmente un approccio diverso in questi ultimi anni e per questo, insieme a tante cose che escono, questo spettacolo, pur facendoci percepire la distanza e quindi non compiacendo affatto l’immedesimazione, ci consente di piangere un po’ le nostre difficoltà, direi che è catartico.
Avrai notato che in qualche modo lo spettacolo è circolare: lo abbiamo costruito anche a partire da tutto l’equilibrio e il baricentro che Andrea poteva darci, la sua figura potremmo dire intersezionale, è quella che rende possibili i cambi di colore e temperatura, i salti anacronistici nella vita e nelle opere. Non è un narratore, non è un presentatore ma è comunque un punto di vista, interno ed esterno al tempo stesso.
Lo spettacolo cosi, sfugge alla categoria dialettica, dove hai due posizioni che si fronteggiano, due o più punti di fuga che si intrecciano o scontrano e poi si sciolgono in una conclusione. questo è veramente un pensiero circolare che abbraccia anche con pietà, miserie e contraddittorietà. Possiamo dire che in senso positivo la misura è rappresentata da Andrea. Altrimenti, la genialità che è incommensurabile, sarebbe irrappresentabile, nel nostro mondo quantitativo, in cui tutto è valutabile, misurabile e valorizzabile.
Questo crediamo sia vero ancor oggi e l’attualità politica, nel nostro piccolo, con tutte le sue asperità, noi la tocchiamo con mano, mantenendo reti di contatti peraltro sempre più difficili, con artisti e intellettuali russi ovviamente dalla parte della dissidenza, che è l’unica misura intellettuale onesta possibile nel mondo delle autocrazie. Abbiamo cercato a livello pratico di aiutare per quel po’ che potevamo una danzatrice ucraina, ma non è semplice neppure fare interventi sensati per loro”.
Mi congedo da Fiorenza e da tutto il collettivo Ateliersi, constatando una nuova fase nella loro elaborazione in cui le ultime frequentazioni, come il caso del pensiero e delle opere di Melandri, in qualche modalità carsica si vengono a innestare come linfa in nuovi ulteriori avvistamenti e avvicinamenti. Non potendo al momento recuperare questo spettacolo, consiglio comunque ai lettori, di frequentare lo spazio di S Vitale veramente a breve perché vedremo e ascolteremo i Motus in edizione speciale.
In copertina, foto di Luca Bolognese