“Sinistra, che fare?” è il titolo del convegno, di cui pubblichiamo qui la video registrazione, che lI manifesto in rete ha promosso per un confronto sui dilemmi della sinistra nella sua ormai lunga crisi. Il convegno si è svolto il 9 gennaio a Bologna, presso la sala Tassinari del palazzo del Comune, aperto dall’intervento di Aldo Tortorella direttore di Critica Marxista che qui sotto riportiamo nella versione integrale e dagli interventi di Luigi De Magistris, Nadia Urbinati e Pier Giorgio Ardeni.
Una sinistra giovane
Vi ringrazio dell’invito a questa discussione sulle possibilità di una nuova sinistra. Penso che questo invito ad una persona vecchia come me derivi forse dal fatto che io sia tra coloro che, sebbene in piccola compagnia, è venuto affermando sin dalla fine del secolo scorso la necessità di ripensare dalle fondamenta l’edificio della sinistra, anziché illudersi nell’effetto miracoloso del cambiamento o del mantenimento di un nome. Ripensare senza abiure o amnesie, senza fingere di essere figli di nessuno, ma rivendicando il positivo del proprio passato, comunisti o socialisti o cristiani di sinistra che si fosse, contemporaneamente ciascuno studiando l’origine dei propri errori. Avvenne il contrario. O l’oblio fino alla dannazione della propria memoria o la nostalgia e l’encomio assoluto. Totalmente identici nella ignoranza acritica. L’esigenza di ripensare le basi stesse del proprio essere, sia pure ignorando la memoria storica, si viene oggi affermando solo dopo le tante sconfitte di cui l’ultima ha generato la vittoria di una destra che non nasconde le sue origini nel neofascismo. E’, però, motivo di meraviglia che questa esigenza si venga facendo strada solo ora. A chi poneva il bisogno di una riflessione comune veniva spiegato dalle parti più diverse che i tempi della politica non sono quelli della riflessione. La politica è quella del qui ed ora, le scelte non aspettano, le decisioni urgono in ogni momento. Di urgenza in urgenza si è arrivati dove ora ci si trova. Il fatto è che le scelte pur sempre urgenti, hanno bisogno di un qualche criterio per essere assunte. Il capitano della nave che nella tempesta perde la bussola, porta il suo bastimento al naufragio.
Quando non ci si pone il compito di una riflessione spassionata e adeguata, quando si dice “basta con le ideologie”, basta con le astrattezze, basta con le teorizzazioni, “occorre pragmatismo”, in realtà si abbraccia solo una ideologia ben determinata, che è quella del primato delle cose come stanno e cioè non si evita l’astrazione, ma si fa cattiva astrazione, non si evitano le teorizzazioni, ma si fa pessima teoria, non si abbraccia il pragmatismo che è un pensiero serio, ma si seguono soltanto le mode del momento e si perde il contatto con la realtà che muta e abbisogna di continua rielaborazione. E quando, all’opposto, si dice “basta con i revisionismi”, “la teoria c’è già”, “l’ideologia è quella della tradizione”, “il primato è dell’azione” si arriva alle medesime conseguenze di un pensiero sclerotizzato. È in questo modo che si costruito ciò che si chiamava il “nuovo” senza sapere cosa avesse da essere e quindi chiamando “nuovo” solo la cancellazione del proprio passato e l’accettazione acritica delle posizioni altrui, a partire dal neoliberismo economico. E, dall’altra parte, si è chiamata “rifondazione” solo un bisogno di nostalgia.
Il crollo della sinistra storica – la fine del “sole dell’avvenire che aveva visto in Italia l’auto scioglimento del Pci e il fallimento del Psi – implicava innanzitutto una nuova moralità innovatrice cui aveva alluso l’ultimo Berlinguer non solo ponendo la “questione morale” e invocando il ritorno dei partiti ai loro principi ma cercando i nuovi motivi per contrastare la ricerca pura e semplice dei propri interessi, la adorazione del successo e del denaro comunque ottenuti. Dopo il fallimento del “compromesso storico”, si pensava che bisognasse tornare a tenere fede alla lotta sociale dei lavoratori per perseguire l’eguaglianza di fatto e non solo di diritto ma, contemporaneamente, vedere la contraddizione tra sviluppo capitalistico e ambiente, tra dominio maschile e condizione femminile, tra affermazioni della libertà di opinione e monopolio dell’informazione (cui succederà l’esplosione della rivoluzione informatica e il dominio delle “piattaforme”). La sinistra moderata rispose che bisognava “dimenticare Berlinguer”. E ora ci si strappa le vesti per la rivelazione della penetrazione della corruttela, sino ai casi divenuti clamorosi. Sarebbe un errore estendere la responsabilità truffaldina di singoli ad una intera organizzazione politica, ma sarebbe egualmente sbagliato pensare che nei fenomeni di degrado personale non conti la perdita di un orizzonte di senso.
Ho ricordato altra volta l’inizio del giovane Marx allora liberale: l’indignazione per l’accusa di furto per i contadini poveri e poverissimi che raccoglievano nei boschi padronali i legnetti secchi o marci caduti dagli alberi secondo natura. E Marx giornalista borghese si fece difensore dei contadini nel processo per il legnatico. L’opposto di chi per divenire grato ai poteri interni e internazionali dominanti, per farsi “degno” di accedere al governo rinuncia alla denuncia dell’ingiustizia di classe e ricerca il beneplacito dei potenti. L’inizio è sempre una indignazione morale e la lotta è innanzitutto culturale. Se prevale nell’opinione dei penultimi e degli ultimi l’idea che il mondo è sempre andato cosi e sempre andrà così, che i ricchissimi e i poverissimi ci sono sempre stati e ci saranno sempre allora prevarrà la destra.
Tuttavia una tale battaglia culturale e, dunque, morale laicamente vissuta non può prescindere da una base razionale fondata su una analisi della realtà corretta e condivisibile. Anche se molti che pur si dicono cattolici del Vangelo se ne infischiano, il Papa Bergoglio nella sua funzione pastorale ha saldo l’appello e il. richiamo al Vangelo che è e rappresenta il fondamento morale della sua fede. Una morale laica può essere non meno esigente pur senza presupposti dogmaticamente assunti. Se le analisi del passato sulla cui base furono costruite le sinistre novecentesche non reggono più perché il mondo è cambiato anche per opera loro e dunque quelle analisi non parlano più all’intelligenza collettiva, ciò non significa che siano spenti i motivi morali per cui ci si era avventurati in una analisi critica del reale. La vittoria globale del modello capitalistico ha promosso e promuove nuove contraddizioni ma non spegne le vecchie. Occorreva non dimenticarlo dando la prova con la propria vita stessa sia della capacità di cercare strade nuove sia della volontà di non smarrire il dovere ce si assume chi si dice “di sinistra”. Perciò parlammo, facendo appello agli attori politici post comunisti e post socialisti – seppure con ingenua espressione – del “socialismo dei comportamenti” a partire dalla vicinanza alle classi subalterne. Ben consapevoli che senza questa base per quanto minima si poteva arrivare alla insignificanza della sinistra o peggio al loro discredito, come oggi vediamo.
Fu il papa polacco Woytila, fierissimo e vittorioso avversario del modello sovietico, che ammonì a distinguere tra validità delle domande poste dai comunisti stessi ed erroneità delle risposte. Ma noi possiamo essere in grado di vedere quanto ci fosse d’impreciso nei presupposti delle domande stesse. Nell’ala di sinistra della socialdemocrazia dell’inizio del secolo ventesimo (quella che in una sua parte darà poi vita al movimento comunista) la domanda sui guasti sociali del modello capitalistico presupponeva una funzione totalizzante dei rapporti giuridici di proprietà (e dunque preparava l’idea di una palingenesi affidata alla pura e semplice soppressione di questi rapporti), nell’altra ala, quella che si chiamerà riformista, la scoperta della capacità del capitale di superare le proprie crisi presupponeva la necessità di modificare il modello dall’interno ( e dunque preparava la idea di una piena perfettibilità presto smentita dalla prima guerra mondiale, ma ripresa dopo la seconda).
Se l’idea palingenetica affidata al puro e semplice mutamento della ragione proprietaria – tramutatasi nel modello sovietico con un terribile carico di tragedie – è rovinosamente fallita, non si può dire che sia stata vittoriosa l’altra affermatasi in Europa (e in Italia anche con il contributo del Pci) e cioè quella della modificazione dall’interno, che sboccherà nella realizzazione dello stato sociale. Non appena la piena vittoria nella guerra fredda ha tolto l’apprensione determinata da una ipotizzabile alternativa e non appena si è manifestata una crisi ciclica particolarmente cruenta, molte delle conquiste sociali sono state messe in dubbio o sono state del tutto soppresse.
Il modello capitalistico – certo diversissimo da quello delle origini – è universalmente vincente, in regimi politici più o meno democratici o autoritari, perché poggia i suoi successi quantitativi sulla base del desiderio – cioè dell’individuo – e della scelta – cioè della libertà, pur se intesa come competizione di ciascuno contro tutti. Perciò parlammo della necessità del “socialismo delle persone”. Dicevamo che lo sforzo per risalire la china deve mostrare quanto le idee nuove di battaglie collettive – quella ecologica, quella contro il dominio maschile, quella per i diritti sociali e civili, ad esempio – debba rivolgersi al vantaggio dei singoli, alla costruzione di una idea di più alta libertà, di una libertà solidale che chiede a ogni persona non meno ma più iniziativa e più coraggio. Non l’idea fallimentare e tragica di una palingenesi che sopprima forzosamente il male secondo le proprie presupposizioni, ma l’idea di un cammino per quanto difficile e faticoso per un incivilimento da conquistare. Ma non ci può essere sinistra se si rinuncia ad una ragionata visione critica del modello economico e sociale
Le ragioni della vittoria del modello capitalistico sono le medesime che portano alle conseguenze drammatiche che oggi viviamo. Il rischio della rovina ambientale già iniziato e sempre più allarmante. Non il regno della pace e della giustizia ma degli egoismi nazionali e imperiali, dietro cui si cela il bisogno di mantenere inalterate le gerarchie sociali date. Non l’intesa tra diversi ma lo scontro tra potenze, le guerre molteplici, lo spettro di una nuova guerra mondiale non più solo “a pezzetti”. L’errore non era la critica del modello capitalistico ma oltre all’immagine di soluzioni che si rivelavano contraddittorie rispetto alle speranze e alle promesse ma la mancanza del suo continuo aggiornamento in relazione alla sua capacità di trasformarsi (ben indicata dal vecchio Marx) come dimostra oggi il passaggio all’era del digitale e del capitalismo delle piattaforme, della nuova e rischiosa potenza del capitale finanziario.
È falso dire che una visione critica della realtà fa ostacolo alla ricerca di soluzioni immediate ai gravi temi economici e politici del presente. Al contrario è la mancanza di una visione che rende arduo e spesso contraddittoria la ricerca di soluzioni efficaci. Si è dovuto aspettare la affermazione di un magistrato per parlare della esistenza di una borghesia mafiosa. E non si dice che la mafia è un fenomeno interno alla logica dell’arricchimento a tutti i costi. Come si può combattere la evasione fiscale ignorando che l’esempio viene dall’alto e dal sistema medesimo che ha come suo fenomeno intrinseco i paradisi fiscali? Ancora più grave l’imbarazzo davanti al fenomeno migratorio. Né la denuncia delle cause nelle guerre africane e non, volute e armate dall’occidente né la lotta per il rimedio che era ed è solo in una svolta radicale dell’Europa contro i propri stati neocolonialisti e per la restituzione dello sfruttamento che l’ha arricchita. E questa sinistra ha guardato impotenti e spesso complice all’immiserimento dei lavoratori, gli unici in Europa ad avere visto un abbassamento delle retribuzioni nel decennio.
Oggi che il tema in Italia è quello della lotta contro il comando delle destre guidate dagli eredi dei neofascisti non si può pensare ad un efficace contrasto unicamente cercando di mostrarsi più esperti nella gestione ordinaria (cosa improbabile dopo tanti fallimenti). I neofascisti e le destre non sono unicamente una sorta di nuovo populismo, sono portatori di una visione reazionaria che trova consenso in presenza di una ritirata verso il centro della sinistra moderata e dello sfangamento rissoso dei frammenti che vorrebbero essere alternativi.
Senza una svolta culturale verso un’aggiornata visione critica che tenda ad accomunare e non a dividere, senza una nuova immersione nei movimenti che esprimono la sinistra sociale non ci sarà una sinistra all’altezza dei compiti del presente. È vero che tutti i movimenti siano essi rivendicativi di lavoro e di paghe migliori, oppure ecologisti, o femministi, o di lotta per la legalità o per i diritti, sono nella maggior parte dei casi timorosi di ogni rimescolamento e di ogni contaminazione con altri e, particolarmente, con ciò che è diventata la parola e la pratica politica. Ed è anche vero che non ci può illudere che il modo di essere del mondo in cui viviamo possa essere del tutto estraneo anche al più stimabile dei movimenti. Perciò conterà la capacità dei più giovani di darsi nuove regole per il loro stare insieme e per il loro agire. Sono colpito dalla caratteristica internazionale e fraterna del movimento che originariamente fu evocato da Greta Thunder. Ricordiamoci bene che furono giovani e giovanissimi a generare la sinistra che pose il tema del cambiamento del mondo. Il Manifesto dei comunisti fu scritto da un giovanotto trentenne e da un altro di 28 anni. Ricordiamoci che i fondatori del Pci, sconfitto ma non inutile per la democrazia italiana, erano in maggioranza giovani o giovanissimi. Essendo un vegliardo non dirò che i vecchi sono inutili. Il loro più fruttuoso contributo, se sono vigili, può essere la consapevolezza dei propri errori. Ma se non si dà ora il passo a una generazione nuova che si sta accorgendo dei disastri dei loro fratelli maggiori non ci sarà avvenire. L’esigenza di una soggettività di sinistra all’altezza dei compiti del presente è ormai quasi drammatica. Tendere ad una soggettività nuova e degna non significa chiedere a nessuno di disfare ciò che c’è ma, al contrario, esortare a costruire le condizioni di un nuovo edificio a partire dalla realtà cui partecipa.
Aldo Tortorella
VIDEO INTEGRALE DELL’INCONTRO “SINISTRA, CHE FARE?”