E’ stata una cerimonia tutta politica, carica di simbolismi contrapposti come mai prima, in cui la spontaneità più immediata ha rivivificato di colpo e per intero la consumata ritualità del passaggio di poteri da un capo di stato all’altro. Le provocatorie assenze di Jair Bolsonaro e del suo vice generale Hamilton Mourau, che volevano boicottarla al fine di protrarre il clima di tensione che l’ha preceduta, hanno invece reso evidenti -esaltandole- le straordinarie capacità di leadership dell’ex operaio metalmeccanico Lula da Silva, per la terza volta portato al Palacio do Planalto dalla sua lungimiranza e dal voto popolare. Una longevità che non ha precedenti nella vita democratica del Brasile e ne proietta la figura sull’immediato futuro dell’intera America Latina e di nuovi equilibri strategici.
Ad apporgli la fascia giallo-verde con i colori nazionali distintiva della suprema magistratura dello stato, tradizionalmente funzione del presidente uscente e segno di continuità istituzionale, Lula ha chiamato una nota esponente del movimento cooperativo, Alina Souza, un’emozionata ma vigorosa donna nera di 33 anni. Ad accompagnarla c’erano Ivan Baron, che da anni combatte una propria infermità mentale e le difficoltà di organizzare i portatori del suo stesso handicap, il capo indigeno Raoni Metuktire, rappresentanti degli operai metallurgici, degli artigiani e dei lavoratori agricoli. La loro disinvolta autenticità ha dissolto ogni sospetto di retorica. A sottolinearlo è stato Gerardo Alckimin, l’ex governatore dello stato di San Paulo, un socialdemocratico formatosi politicamente nell’Opus Dei e attento agli umori del mondo imprenditoriale, che accortamente Lula ha voluto come vice.
“Veniamo a restaurare lo stato democratico e a riunire i brasiliani divisi dal pregiudizio e dall’odio”, ha esordito il presidente, al momento di presentare i 33 ministri del suo governo, rappresentativi dei diversi popoli, culture e interessi presenti nel gigantesco universo brasiliano (8,5 milioni di km2, 220 milioni di abitanti, decimo PIL del mondo). E subito dopo ha cominciato ad annunciare i provvedimenti immediatamente vigenti che già cominciano a nutrire di contenuti concreti e rilevanti le promesse della campagna elettorale. Revoca del decreto di Bolzonaro che dimezzava i contributi sociali (programmi PIS e Cofins) dovuti dalle grandi imprese: per l’Erario si tratta di un gettito di circa un miliardo e mezzo di dollari. Revoca delle norme decise da Bolzonaro per liberalizzare ricerca e sfruttamento di minerali preziosi e legnami di pregio in Amazzonia: avevano favorito il moltiplicarsi di omicidi e violenze alle persone e all’ambiente.
Gli ultimi assembramenti degli irriducibili di Bolsonaro, camionisti e auto-denominati “patrioti della Patria” (si, con questa ridondanza, forse specialmente solenne all’orecchio degli interessati), per settimane impegnati a ostacolare nelle strade e tutt’attorno alla capitale la sua normale vita quotidiana, sono stati sciolti poco prima della cerimonia d’insediamento. Ma restano in circolazione. Volevano indurre in ogni modo le forze armate ad un colpo di stato che la impedisse. Tentando poi di dividerle, una volta compreso che sebbene ostili a Lula, le massime autorità militari si erano rassegnate a rispettare la Costituzione, secondo quanto autorevolmente suggerito dai loro pari grado degli Stati Uniti. Nel groviglio dei sussurri e dei sospetti ce ne sono che assicurano la disponibilità all’avventura di alcuni reparti, noti per i precedenti estremisti dei rispettivi comandanti.
Con ogni probabilità, Lula aveva presente anche quest’ultimi episodi quando nel discorso inaugurale ha accusato Bolsonaro di aver perseguito un “progetto autoritario e personale di potere, distruttore dell’unità nazionale e d’intima ispirazione fascista”. Ma non ha fatto il minimo riferimento diretto ai militari, che pure hanno partecipato in massa al governo Bolsonaro, pur se in qualche circostanza entrando pubblicamente in contrasto con lui e soprattutto con i figli, tutti impegnati in politica e ancor più disinvolti del padre (per così dire) nel rispettare la legge. L’impegno complessivo di questa che ragionevolmente sarà la terza ed ultima presidenza di Lula (77 anni), sembra essere quello di fare del Brasile una super-potenza ambientalista, portando a zero la deforestazione dell’Amazzonia e su tale risultato fondare un nuovo modello di sviluppo.
Il Brasile ambirebbe così a diventare il riferimento di una svolta culturale dell’intera (o quasi) America Latina, in questa fase storica in cui pur mantenendo ciascun paese le proprie peculiarità e problematiche sembrano prevalere le affinità politiche orientate a sinistra. Le incaute estemporaneità di Bolsonaro, al quale il bon ton diplomatico è del tutto sconosciuto, hanno contribuito non poco a deteriorare l’economia nazionale e provocare una serie di contrasti più o meno aspri con Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna. Lula può pertanto proclamare a buon diritto che intende “riportare il Brasile nel mondo”. Parla di visitare Washington e l’Europa, ma anche l’India e la Cina. Vent’anni dopo, il suo ritorno promette di riprendere la battaglia contro la fame e le disuguaglianze in Brasile; ma ricercando una convergenza latinoamericana e la collaborazione con un Occidente anch’esso bisognoso di alleanze solidali.
Questo articolo è stato pubblicato su Il diavolo non muore mai il 2 gennaio 2023