“Il regime in Iran ha paura perché sa che non può più governare”

di Giulia Della Michelina /
19 Dicembre 2022 /

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Shahram Khosravi è professore di Antropologia sociale all’Università di Stoccolma e autore di importanti studi sulle migrazioni e sulla società iraniana. In italiano ha pubblicato Io sono confine (Eleuthera, 2019), una ricerca etnografica che parte dall’esperienza personale di migrazione illegale dell’autore per interrogare il concetto di frontiera e di libertà di movimento. È da poco stato tradotto Vite precarie (PM edizioni, 2022), una ricerca sulla gioventù iraniana tra immobilismo, incertezza e speranze. In questa intervista si sofferma su alcuni nodi finora poco discussi dei cambiamenti politici portati dalla rivoluzione delle donne e dei giovani iraniani.

C’è stata un’evoluzione nella natura delle proteste da quando sono cominciate ad oggi? Esistono spazi di organizzazione e di dibattito tra i manifestanti?
Sì, questo è uno degli aspetti più interessanti della mobilitazione: ogni giorno vediamo un volto nuovo delle proteste, cosa che rende difficile al regime prevedere come agiranno i manifestanti e come si organizzeranno. La protesta si è evoluta anche a livello geografico, dalle piccole città del Kurdistan fino a tante altre città del Paese. C’è anche l’aspetto anagrafico: non includono più solo i giovani o gli studenti. La scorsa settimana ci sono stati tre giorni di scioperi con i negozianti che hanno chiuso le attività. C’è molto dibattito soprattutto fuori dall’Iran sul dopo-rivoluzione. Nel Paese però non vedo grande interesse su quello che verrà dopo, si stanno concentrando soprattutto su ciò che stanno combattendo e su quello che non vogliono più. Un altro aspetto interessante è che queste persone, soprattutto giovani, non guardano al passato: alla rivoluzione del 1979 o al movimento dell’Onda Verde del 2009. Non si fidano del riformismo e non vogliono il ritorno della monarchia. Sono liberi da queste ideologie politiche.

Il fatto che le proteste non abbiano un leader è un vantaggio o un punto debole?
Ormai le proteste sono in corso da quasi tre mesi e stanno funzionando anche senza leader. Ovviamente la leadership può facilitare un processo organizzativo del nuovo assetto politico, ma anche l’assenza di una guida può portare a qualcosa di nuovo e positivo. Inoltre il concetto di leadership è qualcosa di molto maschile: nel 1979 la rivoluzione è stata dominata dagli uomini, dai loro valori e dalle loro norme. Mi sembra che le persone che protestano stiano evitando questo modello di leadership, forse intenzionalmente o forse no, ma stanno prendendo le distanze dal “padre simbolico” che ripeterebbe gli stessi disastri del passato.

Il ruolo e le istanze delle donne sono stati il primo motore della protesta. La loro funzione è ancora centrale? Possiamo definirla una rivolta femminista?
Non so se possiamo definirla una rivolta femminista, ma sicuramente sta prendendo le distanze da quel modello maschilista di cui parlavo. Lo vediamo negli slogan: questo movimento sta reclamando la vita, che è l’opposto dell’ideologia maschile del martirio. Le donne stanno giocando un ruolo cruciale e in qualche modo possiamo dire che la rivolta ha un carattere femminista perché sta combattendo il sistema e i valori patriarcali. Il movimento va contro il sessismo istituzionalizzato nella società e nelle politiche contro le donne. Ma si sta anche concentrando su altre ingiustizie, come quelle di classe, contro i migranti irregolari o le minoranze etniche. Come dicevano bell hooks e Angela Davis, quando le donne si ribellano lo fanno per tutti quanti, non solo per loro stesse.

Molti analisti hanno sottolineato elementi di novità rispetto alle precedenti proteste. Quali sono le differenze più rilevanti?
Sono i giovani e giovanissimi che stanno portando il peso della rivolta sulle spalle. La maggior parte delle persone arrestate ha meno di 20 anni. Questa generazione è cresciuta dopo il fallimento dell’era riformista e non ha nessuna speranza in questo modello politico, al contrario di quella precedente. Inoltre si tratta di una generazione che è cresciuta con un diverso approccio alla tecnologia e alla comunicazione, grazie ai social media. Un altro elemento interessante è che questa generazione si sta liberando dalle due maggiori e più potenti istituzioni del Paese: la famiglia e lo stato. Lo vediamo per esempio nelle rivendicazioni e nella riappropriazione del corpo che stanno portando avanti.

Il governo sta reprimendo duramente le proteste, con grande violenza soprattutto verso alcune minoranze etniche come i curdi e i beluci e con le condanne a morte. Si tratta di una strategia o di un segnale di debolezza da parte del regime?
Il regime sta mostrando il suo volto più brutale, che molti iraniani non si sarebbero aspettati. Penso al fatto che hanno ucciso 60 minori o alla sottrazione dei cadaveri alle famiglie, che non hanno nemmeno diritto a celebrare il funerale dei loro cari. Più della metà dei morti vengono dal Kurdistan e dal Belucistan. Tutta questa violenza probabilmente viene dalla paura. Il regime è spaventato perché sente di non avere più alcuna legittimità per governare. Possono uccidere, mandare la polizia per le strade, ma sanno che non possono più governare. L’unica cosa che gli è rimasta è la violenza.

Qual è il ruolo dei pasdaran? Ci sono spiragli di dialogo con i manifestanti o c’è il rischio che prendano il potere?
Non credo che i manifestanti vogliano negoziare con i pasdaran, con coloro che stanno uccidendo le persone per strada. Non ci si può fidare di loro. Sta venendo allo scoperto un’estrema frammentazione dello stato: un giorno dicono una cosa e il giorno dopo la ritrattano. Credo che ci siano grande confusione e conflitti interni al regime. Questa è già una grande vittoria delle proteste: sono riusciti a creare una crisi all’interno dello stato.

È spesso stato sottolineato come queste proteste abbiano unito la popolazione come mai prima. È davvero così o c’è il rischio che, anche qualora la rivoluzione avesse successo, possano esplodere tensioni etniche e sociali?
È difficile dirlo guardando dall’esterno. Non sono sicuro che ci sia questa unità, le differenze sono grandi. Le iraniane con cui parlo mi dicono che non devono solo combattere lo stato, ma anche il sistema patriarcale dentro le loro stesse famiglie. Poi c’è l’aspetto etnico. C’è una grande differenza nell’esperienza delle proteste per una persona curda o una di Teheran. Tutti questi aspetti etnici, di classe e di genere sono importanti. Fuori dall’Iran questi scontri si vedono più chiaramente. Anche dal punto di vista ideologico ci sono diverse correnti.

Tenendo conto della censura di internet e della difficoltà per i giornalisti stranieri di entrare nel paese, qual è la sua opinione sulla narrazione delle proteste nei media occidentali?
L’ultimo esempio l’abbiamo visto con il Time che ha scelto le donne iraniane come eroi dell’anno. Vedo una scarsa qualità dei testi sulla stampa: un altro esempio è il fatto che si continua a chiamare Zhina Amini solo con il suo nome persiano Mahsa. Questa è ignoranza e violenza da parte dei media occidentali. Un mese fa a Berlino c’è stata una grande manifestazione che ha usato le opere di Shirin Neshat. È un’artista molto problematica, che ha riprodotto una visione orientalista che è esattamente quello che l’Occidente vuole vedere. I media occidentali non comprendono queste criticità, riducono tutto alla polemica sul velo. Ma la questione non è il velo: si tratta dell’ingiustizia contro le donne. Non è nemmeno una protesta contro l’Islam: ci sono donne musulmane che protestano accanto a ragazze non velate.

Il ruolo degli iraniani all’estero è stato molto importante per diffondere consapevolezza nel resto del mondo. Eppure ci sono dei gruppi di opposizione in esilio controversi. Qual è l’attuale panorama e che cosa ci si può aspettare da questi gruppi?
La diaspora iraniana è sempre stata un fattore importante, anche prima della rivoluzione. Ma è anche molto frammentata. Alcuni gruppi sono più supportati di altri. I media della diaspora come Iran International danno più spazio alla monarchia ad esempio. Anche le forze di sinistra sono molto attive, ma non sono altrettanto visibili. C’è un grande rischio che in Iran succeda la stessa cosa che è successa in Afghanistan e in Iraq e che Washington stia già preparando qualcuno di cui si fida per rimpiazzare il governo. C’è anche l’organizzazione NIAC, un think tank che promuove un miglioramento delle relazioni tra Usa e Iran e che è stato accusato di appoggiare la Repubblica islamica. Questi gruppi supportati dalla Casa Bianca e dall’Europa stanno cercando di assumere la leadership delle proteste. Ma queste persone sono state lontane dall’Iran per tanti anni, non sanno davvero cosa sta succedendo nel Paese. Per questo c’è molta rabbia e preoccupazione verso questi tentativi di assumere il controllo delle proteste.

Questo articolo è stato pubblicato su MicroMega il 15 dicembre 2023

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