Ecco la trascrizione del dialogo pubblico con l’antropologo Francesco Remotti – professore emerito dell’Università di Torino, autore di importanti ricerche in Africa equatoriale e di fondamentali saggi critici sul tema dell’identità – all’interno dall’edizione 2022 del Reggio Film Festival, il cui tema è stato appunto Identity. Tema qui messo fortemente in discussione per poter aprire la strada alle convivenze e risolvere i conflitti
Pasquale Pugliese: Ho conosciuto il professor Francesco Remotti oltre dieci anni fa a Reggio Emilia per la presentazione del libro L’ossessione identitaria (2010) che facemmo alla Scuola di Pace. Ci ritroviamo oggi a dialogare grazie al Reggio Film Festival, ancora sul tema dell’identità, ma all’interno di una incredibile guerra nel cuore dell’Europa, rispetto alla quale il tema dell’identità e dei suoi usi è, ancora una volta, centrale. Ma facciamo un passo per volta. Proviamo a fare chiarezza sull’idea che il prof. Remotti ha della parola identità – che dà il titolo a questa edizione del Festival cinematografico che ci ospita – parola che appare “nitida, limpida, elegante, pulita”, ma in verità è “avvelenata”… “Perché e in che senso identità è una parola avvelenata?” – si chiede Remotti in quel libro – “Semplicemente perché promette ciò che non c’è; perché ci illude su ciò che non siamo; perché fa passare per reale ciò che invece è una finzione o, al massimo, un’aspirazione. Diciamo allora che l’identità è un mito, un grande mito del nostro tempo.” Ci spieghi, allora, prof. Remotti, perché “l’identità è un grande mito del nostro tempo”?
Francesco Remotti: L’identità è una finzione. Per rendersi conto che è una finzione proviamo ad applicare l’identità a qualche soggetto. Di solito si intende o un’identità personale – io ho un’identità, tu hai un’identità – oppure ci si riferisce a un soggetto collettivo, un noi. Per esempio, quando si parla di nazione – un argomento di attualità – specialmente se pensiamo ai nazionalismi, abbiamo a che fare con un soggetto collettivo – un noi, noi italiani, per esempio – e l’identità sarebbe la sostanza, l’essenza di questo soggetto, personale o collettivo. L’ipotesi che io sostengo nel libro L’ossessione identitaria è invece, esattamente, che non esiste un’essenza. Allora voi mi direte “ma Francesco Remotti non ha una sua identità?” Io non ce l’ho. Vi rispondo in questo modo: ognuno di noi faccia questo sforzo e si chieda: qual è l’identità propria di ciascuno di noi? Io non saprei dire qual è la mia identità e di questo mi sento appagato e ne vado perfino fiero. Credo che tutti noi non siamo in grado di dire quale sia la nostra identità, e allora accettiamo che non ce l’abbiamo.
Pugliese: E tuttavia, in quel libro, non solo c’è questa dismissione identitaria, ma ci sono delle affermazioni che contestano alla radice il concetto stesso di identità, in quanto “parola avvelenata”, tossica, che ci fa del male sia individualmente che socialmente. Perché, le chiedo, è una parola che porta con sé delle conseguenze così negative?
Remotti: Diciamo che in questi miei libri, a cominciare da Contro l’identità (1996), mi sono concentrato prevalentemente sulle identità collettive, sui soggetti collettivi, sui “noi” che pretendono di avere un’identità. Quindi il tema della tossicità riguarda gli atteggiamenti sociali, politici, dei “noi”. Dico che è una parola avvelenata perché identità sembra una parola molto positiva, ma in realtà è ingannevole. La tossicità consiste nel fatto che quando i soggetti collettivi prendono questa strada, la strada dell’identità, rischiano due cose. La prima: se un soggetto collettivo insiste sulla propria identità da conservare, in fondo chiude gli occhi rispetto al futuro, il quale si presenta come pericoloso perché il futuro è un’alterazione. Il rischio è quello di privarsi delle risorse e delle opportunità che il futuro può riservarci. Fare un discorso identitario significa quindi che i giovani debbano adeguarsi a quello che noi riteniamo di essere. La seconda cosa: nel rapporto con gli altri da parte di un “noi” che sostiene un’identità che va inevitabilmente difesa, si mette in una posizione di ostilità, dichiarata o meno che sia. In questo io vedo delle implicazioni negative.
Pugliese: Pur consapevole dello sguardo inattuale degli antropologi, ma per questo più profondo (cfr. Per un’antropologia inattuale, Remotti 2014), vorrei provare a intrecciare questa parola avvelenata – identità – alle vicende che attraversiamo, internazionali e poi nazionali. I pretesti identitari hanno fatto da supporto ideologico ad un’altra guerra in Europa, a due passi da noi, nella ex Jugoslavia dilaniata da nazionalismi identitari – l’un contro l’altro armato – rispetto ai quali Alexander Langer scrisse, tra le altre cose, il famoso Decalogo per la convivenza. Uno dei punti – che per me è un costante punto di riferimento – tratta “Dell’importanza di mediatori, costruttori di ponti, saltatori di muri, esploratori di frontiera. Occorrono traditori della compattezza etnica…”: esattamente ciò che è mancato allora e ciò, che se provi a dirlo adesso, sei accusato di intelligenza col nemico ossia di essere… “putiniano”.
Questa premessa per chiedere quanto ha a che fare l’identità, non solo con la guerra guerreggiata, ma con il pensiero militarizzato, ossia con la logica binaria che ha preso il sopravvento su ogni ragionamento: o con noi o contro di noi…
Remotti: Su questo punto non vorrei essere frainteso: non penso “rinunciamo all’identità e i nostri problemi sono risolti”. Il punto è che il pensiero identitario radicalizza i conflitti, li rende irrisolubili se non attraverso l’annientamento dell’altro. Bisogna partire dal presupposto che i conflitti sono normali, ci sono sempre: è un dato di fatto; il conflitto esiste persino dentro di noi. Se però gestiamo il conflitto con una mentalità di tipo binario, che è quella identitaristica, diventa molto difficile arrivare a delle soluzioni. Un conto è affrontare i conflitti con una politica identitaria, un altro conto è affrontare i conflitti con una politica delle somiglianze.
Pugliese: Sono perfettamente d’accordo con lei. Penso che i conflitti siano generativi, se gestiti in maniera positiva e arricchente per le parti che confliggono, ma non in una maniera identitaria. Non avremmo diritti civili, diritti sociali, non avremmo la crescita dell’individuo da bambino ad adulto, se non si attraversa il conflitto adolescenziale. E’ la degenerazione violenta del conflitto, che spesso si fonda su elementi di radicamento identitario, che porta alla guerra.
Entriamo dunque nella pars costruens del discorso. Per costruire convivenze – e convivenze pacifiche, aggiungerei – dice il prof Remotti, in un altro libro importante, Somiglianze. Una via per la convivenza (2019) dobbiamo cambiare completamente logica, fuoriuscire dalla logica identitaria ed entrare nella logica delle somiglianze, fare a meno delle ingannevoli certezze dell’identità – dove A è uguale ad A ed è diverso da non-A – e navigare nel mare aperto della “complessità” (parola spesso banalizzata nel linguaggio odierno), dove ricercare le somiglianze. E già questo meriterebbe un approfondimento.
Remotti: Il pensiero filosofico occidentale è caratterizzato da ciò che alcuni autori hanno chiamato “la guerra contro le somiglianze”. Il pensiero medioevale e rinascimentale concepiva il mondo come interconnesso: il mondo è fatto di connessioni. Il collegamento avviene attraverso le somiglianze. Somigliare vuole dire condividere, ma vuole dire anche diversità, differenza, altrimenti le due cose coinciderebbero, diventerebbero identiche, una sola. Questo modo di interpretare il mondo lo vediamo ben rappresentato nella filosofia presocratica. Nel mio libro mi sono avvalso molto di Protagora, il quale diceva: “ogni cosa per un verso o per un altro somiglia a qualsiasi altra cosa, anche il bianco e il nero se guardi bene un po’ si somigliano”.
Primo Levi nei suoi libri tira fuori la nozione di “zona grigia”. La zona grigia per Primo Levi erano quelle situazioni che aveva osservato ad Auschwitz: comportamenti, azioni, persone che si collocavano tra i due estremi, il bianco e il nero, il persecutore e la vittima. Diceva in un’intervista “io in verità non ho mai incontrato dei mostri”. Con ciò intendeva dire che una persona normale può condurre una vita del tutto pacifica e normale e poi fare le cose che hanno fatto le SS ad Auschwitz. Questo è stato un tormento costante per Primo Levi: Auschwitz è stato possibile anche in assenza di mostri, e se è stato possibile, se questa possibilità è scaturita dalla normalità apparente della vita, c’è la possibilità che Auschwitz ritorni. In Levi assistiamo al superamento del pensiero binario, quello che taglia netto tra la vittima e il carnefice: Primo Levi diceva che in ogni vittima ci può essere un carnefice, così come il contrario. Ragionare sulle somiglianze vuol dire tenere presente appunto questa complessità, l’intrico di somiglianze e differenze.
Pugliese: A proposito dell’intrico e delle vicende narrate da Primo Levi – tema che affronta anche Hannah Arendt ne La banalità del male – vorrei dire che il tema delle somiglianze mi convince come tentativo di superamento della logica identitaria. Però suscita un problema ulteriore: come imbarcarsi in questa ricerca autentica delle somiglianze, quando – per esempio – anche l’accoglienza o meno dei profughi, cioè delle vittime delle diverse guerre, risponde a criteri di ricerca identitaria delle somiglianze? Alcuni sì, a braccia aperte, perché ci somigliano, altri rispediti nei lager libici o braccati sulla rotta balcanica. Ossia la logica delle somiglianze non può ad un certo punto capovolgersi nella solidarietà rispetto a chi mi somiglia e nell’indifferenza o nel respingimento rispetto a chi non mi somiglia?
Remotti: Le somiglianze sono un fatto di decisione. Decidiamo a chi somigliamo e a chi non vogliamo somigliare. L’espressione “politica delle somiglianze” vuol dire che bisogna riconoscere che siamo all’interno di un intrico di somiglianze e differenze. Una volta riconosciuto questo, ne scaturisce la necessità di orientarci in questo intrico. Orientarsi vuol dire decidere, consapevolmente o no, chi ci è più simile e chi invece non vogliamo che sia simile. E’ proprio una questione politica, una decisione. In altre parole: non basta dire somiglianza; occorre decidere a chi somigliare e a chi no.
Pugliese: L’alimentazione delle pulsioni identitarie nutre anche gli orientamenti politici interni ai paesi della civile Europa: in Ungheria, in Polonia, adesso in Italia dove – nel centenario della marcia su Roma (e potremmo ragionare sui quei simboli identitari…) – è stata eletta presidente del consiglio una signora che a ogni piè sospinto rivendica la sua identità di donna, di madre, di cristiana (e sarebbe interessante anche analizzare quante identità cristiane convivano contemporaneamente). Nel cui governo il ministro “dell’istruzione e del merito” è autore di un libro dal titolo L’impero romano distrutto dagli immigrati (omettendo che fu anche fondato dagli immigrati)… tutto questo in un contesto culturale nel quale – all’altro capo della matassa, invece – le identità personali – anche sessuali – si fanno sempre più fluide, cangianti, meticciate, incerte. Lei che ha studiato molte culture, ci dica come possono stare insieme, nella stessa epoca storica e nello stesso contesto geografico, nella stessa cultura, queste due visioni che guardano l’una al passato remoto e l’altra al futuro.
Remotti: Il fatto è che siamo in tanti, per cui è inevitabile che emergano visioni differenti nello stesso contesto, nello stesso periodo storico. Ho l’impressione che le società (intendo riferirmi alle società tradizionali, quelle studiate da etnologi o antropologi) tendano a riflettere su queste tematiche, partendo probabilmente da un dato di fatto: è normale, è quasi inevitabile che le differenze – fisiche (come, per esempio, il colore della pelle) o culturali – suscitino dubbi, perplessità, allontanamenti, avversioni, ecc. Gli esseri umani non sono fatti di “anime belle”, graziose per natura e benevolenti. La reazione alle differenze è quasi sempre sospettosa. Ma un conto è se queste reazioni emergono in un contesto culturale identitario (dominato dalla fissa dell’identità) e un altro conto se emergono in un contesto culturale non identitario. I contesti identitari – come è facile notare – sono tutti improntati a una cupa seriosità, spesso con risvolti tragici. Io qui vorrei introdurre una dimensione probabilmente inattesa. Una volta, alla fine di una mia conferenza, mi chiesero: “ma dall’Africa cos’ha imparato?” Oggi darei la stessa risposta di allora, e cioè che ho imparato l’importanza del ridere. Nell’Africa tradizionale, quella studiata dagli antropologi nei primi decenni del ‘900 esisteva il costume dei “rapporti di scherzo”. Rapporti in cui ci si insultava a vicenda, insulti pesanti, grevi, ma senza offendersi reciprocamente. Questo si verificava in due occasioni: uno nel contesto della parentela, tipicamente con il cognato, perché fratello della moglie che è stata sottratta a quel clan: se non ci si insulta, il cognato penserà che non va bene, perché l’insulto parentale, previsto e programmato, è un modo per tirare fuori quella tossicità di qui si parlava prima, per liberarsene. L’altro contesto in cui avveniva questo scambio di insulti era quello interetnico: insulti tra gruppi etnici diversi che non facevano degenerare il conflitto nella violenza, anzi era il modo per riconoscere realisticamente che le differenze culturali sono potenziali fattori di ostilità, ma è anche un modo per portare alla luce tutto ciò e impedire che si trasformi in conflitto generalizzato: non dunque violenza fisica, ma insulto verbale.
Pugliese: Una risoluzione nonviolenta dei conflitti fondata sull’insulto scherzoso, che è molto meglio della guerra…
Remotti: Ma certo, un insulto (e nell’insulto c’è violenza), ma un insulto che provoca il ridere. Mi ricordo che in diverse occasioni con i miei amici africani del Congo ci chiedevamo che cosa pensassimo reciprocamente tra bianchi e neri: venivano fuori le cose peggiori (che qui non posso riportare). Risultato: si rideva, si rideva a crepapelle. Il ridere, il ridere persino nell’insulto, è la capacità di rendersi conto che è molto meglio tirar fuori ciò che è tossico, quella tossicità che inevitabilmente si viene a formare nei contatti con le differenze. Le differenze creano sempre pregiudizi, ma se anziché tradurli in un discorso identitario e in una difesa ottusa dell’identità, li affrontassimo con lo spirito libero e corrosivo dei “rapporti di scherzo”, ritengo che diversi conflitti potrebbero essere eliminati alla radice (la radice psico-sociale del pregiudizio e della diffidenza).
Pugliese: Ma noi siamo una società triste, che non sa ridere di sé stessa…
Remotti: Certamente. Nel libro Ridere degli dèi, ridere con gli dèi. L’umorismo teologico (2020), scritto con Maurizio Bettini e Massimo Raveri, risulta che la maggior parte delle religioni tradizionali, a parte i tre monoteismi che conosciamo, pratica quello che noi chiamiamo “umorismo teologico”. Noi viviamo in un mondo così serioso, nel quale ci sembra impossibile ridere dei nostri dèi o del nostro dio, ma la maggior parte delle religioni lo fa. Ogni cultura finisce per essere una gabbia concettuale, ma in diverse culture troviamo l’invito e il suggerimento per saltarne fuori: ridere persino della divinità è una boccata d’aria buona. Le religioni che praticano l’umorismo teologico non sono quelle che fanno le guerre di religione.
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Pugliese: Mentre da noi si dice: scherza con i fanti ma lascia stare i santi… Tra le altre cose, Francesco Remotti è co-autore di un libro più recente Il mondo che avrete. Virus, antropocene, rivoluzione, insieme a Marco Aime e Adriano Favole (2021) nel quale riflette sulla necessità, e contemporaneamente sull’impossibilità, di mettere almeno temporaneamente tra parentesi la nostra cultura, farne oggetto di sospensione, di una epoché. Come invece siamo stati costretti a fare durante il ritiro sociale forzato – durante le fasi acute della pandemia, dove abbiamo vissuto una sorta di sospensione del presente – e come si fa ritualmente in alcune culture tradizionali (il libro è ricco di esempi), nelle quali fare una sospensione della cultura consente di vederne e stabilirne i limiti. Ma la nostra è una cultura che non conosce limiti, che ha “brama dell’infinito”, della crescita continua e illimitata. E Remotti cita autori a me cari, come Günther Anders, Serge Latouche e cita Greta Tumberg che, insieme a migliaia di ragazzi in tutto il mondo, urla agli adulti “ci state rubando il futuro…”. Allora, come come darci un limite e sottrarci al furto di futuro del quale siamo tutti complici?
Remotti: Sono molti gli spunti che lo studio delle culture ci offre per far vedere come nelle culture tradizionali, quelle che di solito gli antropologi vanno a studiare, sia impostato il rapporto tra giovani e futuro, per esempio attraverso i rituali d’iniziazione. I rituali d’iniziazione dei giovani non sono fatti, come si pensa, per inculcare nei giovani il pensiero degli anziani, ma anzi succede il contrario. Per esempio, tra gli Ndembu dello Zambia, alla fine del rituale d’iniziazione era previsto che il portavoce dei giovani si alzasse in piedi e, guardando dritto negli occhi il capo, gli dicesse queste frasi: “ora io sono diventato un uomo grande, tu invece sei uno sciocco e un furfante, non sei buono a niente, d’ora in avanti stai attento a non mangiarti tutto il cibo da solo ma dividilo con i tuoi figli”. Ossia, questo atto di ribellione e di protesta, di critica e di riforma sociale, è ritualmente previsto: dire da parte dei giovani ai loro anziani “dovete dividere il cibo con i vostri figli” significa pensare molto concretamente al futuro dei giovani. Un po’ come dire: è naturale che gli adulti tendano a trattenere per sé la maggior parte delle risorse; ed è allora giusto e prevedibile che i giovani rivendichino una più equa distribuzione delle risorse. Quello che i rituali d’iniziazione vogliono suscitare è lo spirito critico, anche attraverso forme di ribellione, e lo spirito critico – a proposito di futuro – contiene in sé il senso delle possibilità.
Pugliese: Possibilità che purtroppo nel nostro contesto ai giovani vengono sottratte, perché quei capi che nel rituale africano qui descritto vengono detti “furfanti” da noi fanno fatica a cedere il posto ai giovani e a dividere con loro il futuro, che significa dividere le risorse. Dimenticando che noi, in qualche modo, abbiamo avuto il mondo in prestito dai nostri figli, dalle generazioni che verranno.
Remotti: Certo, sono gli indiani del Nord America ad aver detto questo: non è che noi abbiamo ereditato la terra dai nostri progenitori, ma l’abbiamo avuta in prestito dai nostri figli, quindi gliela dobbiamo ridare come ci è stata consegnata.
Pugliese: E come diceva Alex Langer, che abbiamo citato prima, oltre all’impatto ecologico e all’impatto economico di ogni nuova opera bisognerebbe valutare anche l’impatto generazionale, cioè che impatto ha sulle future generazioni.
Domanda dal pubblico: Qual è il ruolo delle arti nel trovare le somiglianze?
Remotti: Tra le cose di cui non mi sono occupato c’è tutta quell’ampia area che è l’antropologia estetica, l’antropologia dell’arte, quindi non saprei dare una risposta articolata a questa domanda. Però una cosa che mi ha sempre affascinato è il lasciare deperire i prodotti artistici. Ci sono molti casi in Africa, per esempio tra i Bamiléké del Camerun la statuaria lignea, le statue di legno con cui si raffiguravano i capi, si lasciava all’aperto ed è inevitabile che, essendo fatta di legno, dopo un po’ quella statua si rovinasse. Ma il caso forse più interessante è quello degli Igbo della Nigeria i quali costruivano le cosiddette case Mbari, costruzioni in legno dentro le quali collocavano statue lignee, vere opere d’arte. Ci volevano un paio d’anni per costruire una casa Mbari e una ventina di persone che si impegnavano in questa costruzione. Una volta costruite e ultimate, venivano lasciate all’inevitabile opera di corrosione di termiti e intemperie. La rovina delle case Mbari era dunque qualcosa di previsto e programmato. Al contrario, quando noi ci impegniamo in un’opera d’arte di solito la costruiamo perché rimanga nel tempo: pensate alla musealizzazione. Collegando questo con il tema dell’identità, ci rendiamo conto che questa è una smentita dell’identità: l’identità va conservata, altrimenti non è un’identità; qui invece abbiamo a che fare con il divenire (il divenire al posto dell’essere). Chinua Achebe, che era un grande romanziere igbo, ha dato una spiegazione molto bella del fenomeno delle case Mbari: egli diceva che era più importante il processo del prodotto e che venivano lasciate andare in rovina per consentire ai giovani di avere un loro spazio creativo. Il prodotto di tutto l’impegno profuso da una comunità (una ventina di persone che lavora per due anni) lasciato deperire affinché la nuova generazione possa intraprendere il suo processo artistico, abbia il suo spazio di creatività. Conservando tutto del nostro passato, priviamo i giovani della loro creatività. Come si vede, c’è sempre un prezzo che si paga.
Pugliese: E tuttavia questa riflessione del professor Remotti si associa anche, nel nostro tempo ed alle nostre latitudini, alla forma espressiva della street art. Anche gli artisti di street art hanno esattamente quel tipo di atteggiamento: esercitano arte urbana sui muri e sanno che quella loro opera d’arte, che sovente ha un valore creativo davvero importante, nel tempo si degraderà o addirittura verrà sostituita dall’intervento di qualcun altro che ci pitterà sopra. E gli stessi artisti muovono una grossa contestazione culturale rispetto a chi vuole musealizzare anche la street art. Anche perché se alla street art togli la street, della street art non rimane più niente.
Domanda dal pubblico: A proposito di street art, è curioso che l’artista noto come Banksy non si sa chi sia, anzi si dice che sia un nome multiplo. Il tema della mancanza di identità in questo momento sta caratterizzando l’artista che nel mondo sembra essere più noto.
Remotti: molto interessante anche questo: la differenza è che nell’Africa tradizionale tutto questo veniva in qualche modo istituzionalizzato.
Pugliese: da noi un personaggio come Banksy, ma anche i suoi emuli più giovani, attraverso questa forma d’arte fanno pratiche di contestazione rispetto alle istituzioni, tant’è vero che i writers vanno a pittare di notte con i cappucci per non farsi riconoscere, e spesso i murales veicolano messaggi politici di contestazione rispetto alle istituzioni. Le quali, a volte, fanno fatica a riconoscere anche in quella una forma d’arte, al contrario di ciò che succedeva nelle popolazioni di cui ci parla il professor Remotti.
Domanda dal pubblico: Io faccio parte della commissione che ha selezionato i cortometraggi di questo Festival, molti dei registi che hanno mandato i cortometraggi sull’identità ne hanno dato un’accezione positiva, per esempio dal punto di vista dei ragazzi. Ci sono molti cortometraggi di ragazzi che raccontano di genitori che hanno delle aspettative nei loro confronti, che loro non riconoscono: hanno spesso un lieto fine nel senso che crescendo scelgono di fare il lavoro che vogliono, ricercano l’identità sessuale, l’identità sportiva. Da questo punto di vista, c’è una fase della vita in cui l’identità ha una sua importanza, forse è un momento in cui l’identità non è un limite ma una crescita.
Remotti: L’esigenza di affermarsi, di affermare la propria presenza, l’esigenza di dire ci sono anche io in uno spazio sociale o famigliare, è sacrosanta, ma non necessariamente ciò ha a che fare con l’identità, piuttosto con i diritti… Pensate ai gruppi minoritari di qualsiasi genere, spesso rivendicano il tema dell’identità, ma questo rischia di concepire la cosa in termini conflittuali irresolubili. Proviamo a trasformare invece questo in un discorso di diritti, di sacrosanto riconoscimento di diritti: l’identità invece è sempre una questione di vita o di morte. Rispetto all’evoluzione dei singoli poi, mi sento di dire che io, Francesco Remotti, non sono identico al Francesco Remotti che questa mattina era ad un convegno a Napoli sul Congo. Sono soltanto simile a me, cioè sono simile al Francesco Remotti di ventiquattro ore fa, ventiquattro mesi fa, di ventiquattro anni fa… E questo lo diceva già David Hume nella prima metà del ‘700. Anche nel Simposio di Platone, la sacerdotessa Diotima spiega proprio questo a Socrate: tutto cambia continuamente nel nostro corpo e nella nostra anima, noi non rimaniamo mai gli stessi, l’identità è solo degli dèi. Proviamo a pensare a noi stessi non in quanto dotati d’identità, bensì dotati di somiglianze e differenze, quindi di un divenire…
Pugliese: A volte forse diamo il nome di identità al bisogno di riconoscimento di una nostra emergenza esistenziale, di ciò che di noi crediamo non essere sufficientemente riconosciuto e apprezzato, quindi ne rivendichiamo l’identità utilizzando una parola passepartout. Che vuol dire tutto e vuol dire niente, come insegnava anche Pirandello.
Domanda dal pubblico: volevo proporre una mediazione tra identità sì e identità no. Potremmo dire che l’identità è la nostra biografia, di un soggetto o di una società?
Remotti: Le darebbe ragione Paul Ricoeur, il quale distingueva tra l’identità idem e l’identità ipse. L’identità idem sarebbe quella sostanziale, il nucleo che permane, l’identità ipse sarebbe esattamente la biografia, il racconto, la narrazione. Ma io trovo che sì, posso raccontare la mia vita, la mia biografia, ma anche il mio raccontare cambia. Questi modi di rendere l’identità meno sostantiva, meno dura, fluidificarla sono mezzi per renderla più applicabile, adattabile. Queste sono identità imperfette, ma le identità imperfette sono somiglianze. L’identità o è A uguale ad A o non è identità, allora parliamo di somiglianze e differenze che non sono statiche. Ciò che conta non è la somiglianza che noi possiamo contemplare tra le cose, ma è capire che le somiglianze sono frutto, il risultato, di comportamenti, di azioni e quindi di divenire. L’identità, invece, è un grande mito della civiltà occidentale perché viene fuori dal mito originario che è il concetto di essere.
Pugliese: Nell’eterno dibattito tra Parmenide e Eraclito, è evidente il professor Remotti da quale parte si collochi…
domanda dal pubblico: In realtà c’è un grande enigma in tutto questo, dal mio punto di vista: noi stiamo attingendo ai nostri antichi, stiamo parlando di filosofi e di civiltà che hanno costruito una forma d’identità, noi usiamo riconoscerci in una civiltà del passato e diciamo di essere eredi di quella civiltà. Quindi, in un qualche modo, anche questo divenire noi lo chiamiamo identità, appartenenza a una patria, appartenenza a un luogo, a un popolo. Com’è possibile quindi mantenere ciò che c’è di buono in questo? In fondo se tutti li libri che sono stati scritti nel passato fossero stati scritti come le opere di cui parlavamo prima – ossia deperibili – noi non ne avremmo più traccia, invece attingiamo dai nostri antichi… Quindi? è sempre comunque un errore?
Remotti: No, non è un errore: l’importante però è rendersi conto che non c’è nessuna civiltà pura. Tutte le civiltà, tutte le culture sono impure. Fin dall’inizio le culture sono meticcie, piene di cose che vengono da altrove. Pensate alla civiltà greca, appunto, ormai gli storici sono convinti che è un’illusione pensare a quella civiltà come qualcosa di a sé stante: sono tantissime le influenze che venivano dall’oriente, dall’Egitto per esempio. Quindi se attingiamo a Platone possiamo farlo legittimamente, sapendo che anche il pensiero di Platone è generato da diverse influenze. E’ bello avere la capacità di avvalerci di risorse che provengono da tante parti, oltre che dal nostro passato, e nel contempo fare in modo di essere aperti anche a quella risorsa che si chiama futuro. Inoltre, non dimentichiamo che noi siamo animali che parlano ancora prima di scrivere, che fanno musica, che ridono, ben prima della scrittura. Per esempio, la musica si trova in tutte le società e in quasi tutte la produzione musicale non veniva registrata, quindi tutti possono (o potevano) partecipare alla produzione musicale. L’antropologo inglese Jack Goody, che si era concentrato sull’introduzione della scrittura, diceva che quando arriva la scrittura – ora non c’è problema a riconoscere che è stato tecnicamente un progresso, un’acquisizione, capitemi bene – che quando arriva la scrittura si generano gli analfabeti, prima non c’erano analfabeti. E così succede anche per la musica. Quando c’è la formalizzazione, l’istituzionalizzazione allora io divento uno specialista e tu no. E questo provoca specializzazione e arricchimento da una parte e impoverimento culturale dall’altra. Infine, la cultura in cui ci troviamo ad agire è talmente vasta, talmente ramificata, che sono molte di più le cose che non so, per questo dico di me che sono solo un “aspirante antropologo”. Come diceva Max Weber nel 1917 “io uso tutte le mattine il tram per andare ad insegnare all’università, ma non so come funziona questo tram”. Quante cose occupano la nostra vita, la nostra giornata, cose importantissime che noi usiamo, e di cui però non conosciamo il funzionamento: e questo è – rispetto a una cultura ricchissima (in tutti i sensi) – un preoccupante impoverimento culturale.
Pugliese: Qui potrebbero aprirsi molte altre questioni e collegamenti, per esempio con il pensiero di Aldo Capitini e la sua idea della partecipazione di tutti alla produzione dei valori, compreso il valore artistico musicale della Quinta sinfonia di Beethoven… ma per oggi il nostro tempo è finito qui e ci lasciamo con questo approccio socratico al non sapere. Che è la spinta continua alla conoscenza, mai cristallizzata ma sempre in divenire.
Questo articolo è stato pubblicato sul blog di Pasquale Pugliese il 18 novembre 2022