Ammesso e non concesso che non sia solo una mera “espressione geografica”, l’Europa dei nostri giorni non sa quello che sta facendo. Istruita da anni dalla dottrina anglofona e neoliberale del “sapere fare”, ha creduto che ogni scelta dovesse ispirarsi al calcolo costi/benefici. Ora però la casa madre americana “ci” impone contraddire fragorosamente la logica di questo calcolo, per dare priorità ad una difesa di “ideali”. Ideali che in realtà non fanno che sancire il rapido, definitivo e tragico declino geopolitico, sociale ed economico del nostro stesso continente.
Gli ideali in questione sarebbero ovviamente quelli della libertà e della democrazia di cui l’Ucraina, da quando invasa dalla Russia, sarebbe divenuta improvvisamente terra privilegiata. Una terra talmente privilegiata che (a differenza di innumerevoli altri casi di guerra in corso su scala planetaria, ma circondati da un interesse mediatico infinitamente inferiore) tutti gli alleati degli Stati Uniti dovrebbero aiutare con ogni mezzo diretto e indiretto, e soprattutto a qualunque costo. Anche quello di precipitare in una recessione irreversibile e dalle conseguenze tanto fosche quanto imprevedibili.
Oltre a supportare un faraonico piano di invio di armi, finanziamenti, mercenari, consiglieri e così via, l’Ue (o meglio i paesi di essa più ligi a Washington) si sta infatti arrabattando per far dimenticare e persino rinnegare ogni tradizionale, naturale e conveniente relazione economica con la vicina Confederazione degli Stati Indipendenti. Più di settant’anni di egemonia americana sul vecchio continente non sono dunque bastati a far ragionare i suoi vassalli. La maggioranza di loro concorda infatti nel riconoscere legittimo l’”eccezionalismo”, cioè una sorta primato da “popolo eletto”, sempre rivendicato da chi governa la sempre conclamata “più grande” democrazia del mondo.
Per fornirne la prova incontestabile fin dai tempi della guerra fredda è stata persino congegnata una categoria inaudita nella storia del pensiero politico, ma che da allora in poi vi detta legge. Si tratta della categoria di “totalitarismo”, intorno alla quale è proliferata un’immensa letteratura storiografica, politologica, sociologica e così via, tutta tesa a fare apparire nazismo e comunismo le due facce dello stesso male politico assoluto, di cui appunto gli Stati Uniti sarebbero stati i massimi trionfatori. Quante volte nelle istituzioni dell’Ue ci si compiace nell’assicurare che è anzitutto a “loro” che dobbiamo la “nostra Liberazione” del 1945 – sempre dimenticando tra le tante cose anche il fatto che senza il precedente di Stalingrado non ci sarebbe stata alcuna rinascita partigiana dell’Europa?
Ma ciò che queste istituzioni più si rifiutano di vedere sono le implicazioni negative, paradossali implicate dall’”eccezionalismo americano”. La pretesa supremazia spirituale da sempre rivendicata dai governanti di Washington ha infatti come conseguenza più deleteria quella di farli non sentire vincolati a regole, scelte e comportamenti che essi stessi pretendono invece da altri paesi. Questo è ciò che accade ad esempio a proposito dei “diritti umani”, in nome dei quali gli Stati Uniti si sentono autorizzati persino a bombardare interi paesi, senza però sottostare all’obbligo di riconoscere i tribunali internazionali giudicanti in merito. Ed è esattamente qualcosa di simile che sta accadendo anche oggi, nel momento in cui l’amministrazione Biden, in nome della libertà e della democrazia in Ucraina, sta imponendo all’Ue sacrifici che mai qualsiasi amministrazione americana si sognerebbe di far patire al proprio paese.
L’Europa (o meglio chi ne governa i diversi paesi) dunque si può ben dire non sappia quello che sta facendo. Non lo sa o fa solo finta di saperlo? In entrambi i casi ne viene fuori è che il nostro beneamato vecchio continente è finito in mano a semplici vassalli dell’impero americano senza alcun rispetto per i propri governati. Ma non ci possiamo neanche prendere il lusso dello scandalo. Se parecchi nodi stanno effettivamente venendo al pettine, ciò è possibile evidentemente perché si stavano già aggrovigliando da lungo da tempo, senza che nessun “nostro” governante abbia saputo o voluto impedirlo.
È infatti fin dal partire dalla controrivoluzione mondiale neoliberale innescatasi nel corso degli anni Ottanta del secolo scorso che le istituzioni europee non esprimono più nulla di alternativo al volere dei superpotenti oligopoli che dominano i grandi “complessi” militari e finanziari. Se finora Bruxelles aveva tentato di barcamenarsi non escludendo convenienti rapporti con le potenze emergenti ad oriente, ora la spinta del sovranismo montante a livello planetario e l’aria di declino che spira all’interno dell’impero americano hanno convinto la presidenza Biden a stringere i ranghi tra i suoi alleati più tradizionali e docili, senza curarsi di trascinarli in tracolli irreversibili e schieramenti bellici autolesionisti.
Quindi? Quindi per chi non trova ammissibile tutto ciò, per chi si rende conto del salto nel buio verso cui le “nostre” istituzioni ci stanno portando, non resta che la diserzione. La diserzione rispetto alla guerra incombente, ma anche rispetto ai poteri che la stanno scientemente o meno preparando. Diserzione qui è da intendersi come negazione, rifiuto, disfattismo, rigetto di qualsiasi argomento o prescrizione che punti a reclutare nei discorsi dominanti e nelle disastrose peripezie nelle quali le burocrazie Ue ci stanno irresponsabilmente cacciando. Diserzione vuol dunque dire anzitutto nessuna speranza né nei poteri costituiti, né in chi vi sta a capo o ambisce a starci.
Ma poiché la speranza è anche l’ultima a morire si tratta anche di chiedersi dove investirla al meglio. E qui la visione in termini di classe ha sempre da dire la sua. Il mondo contemporaneo non è infatti forse sempre più polarizzato da divisioni tra classi sempre più distanti? Da un lato, non ci sono forse sempre meno ricchi e potenti che sempre più condizionano la vita di tanta gente che neanche minimamente conoscono? Dall’altro lato, invece, non ci sono forse enormi masse di poveri, lavoratori e non, immigrati e non, che faticano e soffrono anche solo per cercare di decidere un minimo del proprio destino? Si sente sempre dire che il nostro è un mondo complesso, ma in realtà da un punto di vista classe ha qualcosa di una semplicità disarmante! Disertare allora vuol certo dire anche stare anzitutto dalla parte di chi non ha potere decidere sulla vita degli altri.
Il grande problema è che questa parte non esiste. Chi lavora e fatica unicamente per campare, si può infatti ben dire che ovunque nel mondo non sia mai stato così solo, rispetto a come era stato invece fino ad una quarantina d’anni fa. Quelle che sono venute meno sono le organizzazioni di classe, che comunque davano corpi collettivi a questa dimensione umana altrimenti sempre isolata e sfruttata.
Certo le lotte anticapitaliste non mancano a livello planetario, ma ricordarlo serve troppo spesso solo per consolarsi della loro scarsa efficacia nel cambiare i destini del mondo decisi invece da poteri sempre più concentrati, forti e remoti. E poiché i venti di guerra pare non soffieranno per breve tempo, anche la diserzione deve prendere le sue misure sul lungo termine. In Italia, ad esempio, in questo clima bellico incombente oramai si è cominciato a ridiscutere persino del servizio militare che, lo si è riscoperto, non è mai stato abolito, ma solo sospeso. Immaginiamoci cosa potrà accadere a riguardo se dal 25 settembre uscirà il risultato che tutti si attendono..!
Disertare in effetti non può voler dire solo ribellarsi al momento, fuggire, estraniarsi, vagare senza meta. Il disertore deve anche pensare come durare nella sua condizione, come prevenire la solitudine dove non avrebbe scampo se intercettato. Perché il disertare abbia senso non ci si può dunque esimere dal porsi il problema delle organizzazioni cui fare riferimento. E dato lo stato comunque evanescente, se non eterodiretto, di ogni partito, sindacato o gruppo militante realmente esistente, la diserzione non può pensare di potere nuotare altrove se non nel mare fatto da chi è senza potere sulla vita degli altri.
Ora l’esperienza insegna che per cominciare ad affrontare un simile problema non c’è che un modo: cominciare interpellando i più diretti interessati. Ritorna qui dunque il classico tema dell’inchiesta. Dell’inchiesta non fatta di sondaggi, di opinioni e di discorsi a pretesa scientifica, ma di incontri, di parole (d’ordine) e di pensieri su come sia possibile operare e contare anche solo un minimo, ma comunque insieme. Insieme tra chi appunto non ha alcun potere sulla vita degli altri, né ambisce anzitutto ad averne. Domande centrali potrebbero più o meno riguardare i temi capaci di fare incontrare, discutere, cooperare e semmai rivendicare tutti coloro che faticano e soffrono anche solo per sopravvivere e non sperano che la soluzione di tutti i loro mali stia nell’accrescimento di un proprio potere personale, famigliare, di clan o tramite guerre più o meno dichiarate.
È solo sulla base delle conoscenze tratte da simili inchieste che la “diserzione” per la quale qui facciamo appello, a differenza delle istituzioni europee, potrebbe sperare di sapere che fare e dove andare a parare politicamente.
“Vasto programma”, si potrà ironizzare. E soprattutto già tante volte tante volte tentato e poche volte riuscito.
Rinviando necessariamente ad altra sede per ulteriori approfondimenti, qui valga a mo’ d’esempio lo stesso caso dell’Ucraina, domandandoci ora perché e in che senso anche lì si ha ragione a perorare la causa della diserzione e come sarebbero auspicabili inchieste a questo riguardo.
Qui si tratta di accettare una sfida.
In effetti, in occidente la voce delle popolazioni ucraine sotto l’invasione russa sembra essere una sola: quella che meglio conviene agli interventisti più accaniti e che svalutano ogni eventualità di diserzione tra queste popolazioni. Da tale angolatura non è ammessa alcuna enfasi sulle questioni geopolitiche, né risulta rilevante la completa dipendenza del governo Zelensky dalle strategie americane. Ciò su cui si insiste è invece l’ innegabilmente terribile sofferenza provata dagli invasi e il loro orrore altrettanto innegabile di fronte all’eventualità di ricadere sotto il regime di Putin.
In questa direzione è ad esempio orientata la linea editoriale della rivista ucraina on line Commons. Journal of Social Criticism[1] che si vuole di “di sinistra” e “anticapitalista”, che si limita a criticare Zelensky perché “neoliberale”, mentre non ripudia le sue scelte belliche, incoraggiando a ingrossare le fila dei combattenti al suo seguito. Ed è proprio per queste posizioni che è diventata una delle fonti ucraine più interpellate dalla sinistra interventista italiana e europea. Sottolineando l’inattesa e autentica spontaneità della resistenza armata contro l’invasione russa, questa sinistra è convinta di esaltare la vitalità della realtà sociale che vi si oppone. Ma a ben vedere, una simile prospettiva non mettendo in discussione il comando militare del governo Zelensky riserva a alla realtà sociale che lo segue in guerra solo un ruolo gregario, di supporto.
Cosa dunque ha da opporre l’opzione della diserzione a questo congegno mediatico in cui il dolore delle vittime è assunto come causa di una sete di vendetta appagabile solo grazie a un improbabile annientamento dell’invasore? Non certo dei numeri. Non certo un calcolo dei fuggiaschi, dei disertori, dei pacifisti ad oltranza o dei renitenti della guerra. Vano sarebbe pretendere così di relativizzare le cifre dei combattenti o dei loro supporter dichiarati. Avendo dalla sua il potere di tutti i media occidentali, quest’ultima popolazione non potrebbe non risultare sempre ampiamente maggioritaria.
Per confermare le ragioni della diserzione anche in Ucraina occorre dunque trovare altri terreni rispetto a quello dei dati statistici. Pare allora il caso di partire da un fatto innegabile, per quanto infimo. Che tra tutti gli ucraini che soffrono l’invasione non manca comunque qualcuno poco o nulla convinto che la difesa bellica della propria sovranità sia il modo migliore di difendersi dall’aggressione putiniana . Ebbene anche solo l’esistenza minimale di questo dato è quanto mai rilevante per la causa della diserzione. Perché?Anzitutto perché è una simile situazione può sicuramente essere riscontrata anche all’interno della controparte, cioè delle popolazioni russe, tra le quali, si sa, l’opzione della diserzione non è del tutto assente.
Il fatto è che l’appello alla diserzione, dunque in favore delle possibilità di pace, è un appello universale, che non conosce confini, né divisioni, mentre quello alla guerra, senz’altra motivazione che la sovranità (la sua difesa o la sua estensione), non può che lacerare all’infinito l’umanità.
Ecco dunque cosa, tramite inchiesta, ci sarebbe da capire e soprattutto da imparare dai quei “qualcuno” ucraini e russi che oggi, pur tra tutte le sofferenze atroci e i pericoli raccapriccianti, fanno propria la prospettiva della diserzione. Ci sarebbe da capire e imparare come, per quanto costi tormenti e angosce, l’unica via soggettiva nel corso di una guerra stia nel pensarne e anticiparne la fine in nome di scopi diversi da quelli perseguiti dalla stessa guerra.
Il che a volte (come nella guerra partigiana italiana tra il 1943 e il 1945) può anche voler dire imbracciare e usare le armi, ma solo se la vittoria cui si aspira è per una realtà, se non addirittura per un mondo, radicalmente incompatibili da quelli che hanno generato la guerra stessa. In effetti, se nel 1918 la rivoluzione dei disertori bolscevichi è stato il primo ed esclusivo evento capace interrompere il ciclo infernale della Grande Guerra, ciò fu solo perché loro obiettivo era, non questa o quella difesa o conquista territoriale (ché anzi a Brest-Litovsk proprio l’Ucraina fu mollata da Mosca al suo destino), ma quel mondo che i proletari riconoscono come loro unica patria.
Note
[1] (http://commons.com.ua/en/)
Questo articolo è pubblicato su “K”. Revue transeuropéenne de philosphie et art. Cahier special “Diserter la guerre. Disertare le guerra”. Automne 2022 (https://issuu.com/blackspringraphics/docs/k-auto). La versione italiana è stata pubblicata su Sinistra in Rete il 6 novembre 2022