Dal 1985 sono oltre 300 le imprese recuperate italiane: coinvolgono più di 10 mila lavoratori. Radiografia del fenomeno, tra il rischio dell’economicismo e tentazioni iper-politicizzanti
Il recupero cooperativistico d’impresa è un fenomeno esemplare e potenzialmente contagioso di reazione collettiva e solidale alle dinamiche scadenti del capitalismo neoliberale (in primis alla finanziarizzazione delle imprese), che stanno condannando una porzione crescente di risorse – umane e non soltanto – a diventare scarti. Si tratta, peraltro, di esperienze durature di mutualismo in ambito produttivo: 202 delle 218 imprese recuperate prima del 2003 sono durate in media 15,2 anni, di contro ai 12 anni di vita media delle piccole e medie imprese italiane.
Eppure il recupero cooperativistico d’impresa continua a essere considerato un fenomeno di secondaria importanza per via delle dimensioni relativamente ridotte: in base ai dati riportati nello studio redatto dall’Area Studi Legacoop, il numero complessivo delle imprese recuperate in Italia dal 1985 al 2018 ammonterebbe a 323 e il fenomeno avrebbe coinvolto un totale di 10.408 lavoratori e lavoratrici.
Uno dei principali elementi di novità della ricerca Le imprese recuperate in Italia. Da un lavoro di inchiesta del Collettivo di ricerca sociale (Castelvecchi, 2022) però consiste nel mettere in relazione la portata relativamente ridotta di questi numeri con tre fattori politico-economici, istituzionali e culturali che, nel migliore dei casi, finora erano stati presi in considerazione isolatamente e, spesso, in maniera troppo fugace dal crescente numero di studi compiuti in materia.
Gli ostacoli alla legge Marcora
In Italia non esiste ancora una banca dati unificata: le banche dati oggi disponibili riflettono l’azione degli attori sociali e istituzionali coinvolti nel recupero cooperativistico anziché l’eterogenea complessità del fenomeno nel suo insieme. Per questa ragione il Collettivo di ricerca sociale ha dato vita al sito della Rete italiana delle imprese recuperate, dove è in corso di aggiornamento la mappatura completa del fenomeno indipendentemente dagli attori sociali, istituzionali e finanziari che hanno supportato le mobilitazioni, la costituzione in cooperativa e le pratiche di autogestione di lavoratori e lavoratrici che rischiavano di perdere il loro lavoro.
Benché il fenomeno richiami soprattutto l’esempio argentino delle imprese recuperate all’indomani del default del paese nel 2001, l’Italia può vantare una lunga e consolidata storia su questo fronte, anche e soprattutto grazie al supporto finanziario prestato dalle istituzioni pubbliche statali a partire dal 1986, anno in cui entrò in vigore la legge Marcora. La norma rappresenta l’eredità giuridica di un’epoca in cui le culture politiche condividevano il riferimento a promesse costituzionali volte a controbilanciare la libertà dell’iniziativa economica privata con il principio dell’utilità sociale e il rispetto della sicurezza, della libertà e della dignità umana. Nella sua formulazione originaria la norma ascriveva al movimento cooperativo la funzione fondamentale di riorganizzazione e ammodernamento dell’intero tessuto produttivo italiano, in un contesto di perdurante crisi dell’impresa capitalistica.
Il quadro normativo della legge Marcora, che con il Fondo speciale consentiva inizialmente di triplicare il capitale sociale investito dagli ex dipendenti, a detta di Confindustria entrava in conflitto con la normativa europea sulla concorrenza. La Commissione europea avviò una procedura di infrazione: le erogazioni previste dalla legge furono bloccate dal 1995 al 2001 (in questi anni fu dato seguito solo ai progetti precedentemente approvati). A seguito di questa procedura di infrazione, la legge Marcora entrò in una seconda fase il 5 marzo del 2001 (L. 57/2001). Oltre al temporaneo blocco dei finanziamenti pubblici a sostegno del recupero cooperativistico delle imprese, l’impatto socio-economico della norma ha prodotto:
- la diminuzione del 66% dei finanziamenti alle singole imprese recuperate: il finanziamento statale alle nuove cooperative avrebbe dovuto essere pari al capitale sociale versato dai soci e avrebbe dovuto essere restituito entro dieci anni.
- la drastica riduzione dei finanziamenti pubblici ha inciso notevolmente sulle dimensioni relativamente ridotte delle imprese recuperate dopo il 2003 e sulla limitata diffusione del fenomeno nel suo complesso: a essere estromesse dal processo di recupero cooperativistico dopo il 2003, infatti, sono state proprio quelle imprese manifatturiere che necessitano di maggiori investimenti sul capitale fisso per poter essere riavviate. A seguito del decreto del Ministero Attività Produttive del 18/4/2005 (Gazz.Uff. n. 238 del 12/10/2005), peraltro, le cooperative in questione devono in ogni caso rientrare nei limiti dimensionali previsti per le piccole e medie imprese
- oltre alla drastica riduzione dei finanziamenti pubblici al capitale delle cooperative, la nuova norma ha impresso una trasformazione qualitativa alla natura del sostegno finanziario dello Stato: parametri di efficienza ispirati a un’economia di mercato sono subentrati alla priorità di salvaguardare i livelli occupazionali nel processo di validazione dei piani industriali redatti dai lavoratori e dalle lavoratrici, come peraltro dimostra la rimozione di contributi a fondo perduto da parte del Ministero e dalla partecipazione del Ministero dell’industria al «capitale di rischio» delle società finanziarie.
- la partecipazione temporanea delle società finanziarie (anche se prive di interessi mutualistici) del Fondo speciale quali soci di minoranza della nuova cooperativa per l’intera durata del finanziamento ha comportato una riduzione dei tempi di erogazione dei finanziamenti pubblici.
- il calo sostanziale delle nuove esperienze di recupero cooperativistico sorte ogni anno fra il 2003 e il 2018 (soltanto il 32,5% delle imprese totali);
- benché le imprese ancora attive nel 2018 tra quelle recuperate prima del 2003 fossero soltanto trentacinque, il numero dei lavoratori e lavoratrici coinvolti (2.078) superava quello dei lavoratori e delle lavoratrici attivi nelle settantaquattro imprese recuperate dopo il 2003 (2.060).
Sottrarre le imprese recuperate alla logica neoliberale
Gli indicatori del successo sociale ed economico del recupero cooperativistico d’impresa potrebbero essere ancora più promettenti se ci fosse la volontà politica di riconoscere, valorizzare, diffondere e implementare pubblicamente una delle più promettenti eccezioni alla carenza di una politica industriale dello Stato italiano. Accogliere questa sfida significa non soltanto moltiplicare gli strumenti e le risorse già disponibili a sostegno del recupero cooperativistico delle imprese, ma invertire una volta per tutte la logica neoliberale che rischia di colonizzare anche questo intervento. In concreto, questa sfida non può che tradursi in un tentativo organizzato e sistematico di invertire la priorità assegnata a parametri economicistici di competitività sul mercato nel selezionare a livello istituzionale le esperienze di recupero cooperativistico da incentivare e finanziare.
È una questione di minima coerenza etico-politica per quanti credono nei valori che ispirano movimento cooperativistico e mutualistico. Diventa una scelta quasi obbligata persino per coloro che considerano ormai irreversibile l’impotenza della politica nei confronti dei vincoli sistemici del mercato globale: quand’anche ci si dovesse affidare esclusivamente a parametri di «sostenibilità economica» per compiere scelte politiche riguardanti il recupero cooperativistico di un’impresa, non si dovrebbe dimenticare che tale opzione rappresenta un investimento oltremodo redditizio non solo per i lavoratori, le comunità territoriali e le future generazioni, ma anche per le casse pubbliche dello Stato, al punto da compensare ampiamente i pur inevitabili casi di insuccesso (oggi peraltro molto isolati, come sostengono gli stessi investitori istituzionali). Se si tiene conto delle risorse pubbliche impiegate dal 1986 al 2018, le casse pubbliche dello Stato italiano hanno potuto contare su un ritorno pari a 8 volte gli investimenti totali dal 1986 a oggi per le sole imprese recuperate attive nei primi ventinove anni dall’entrata in vigore della legge Marcora. Tenendo conto solo degli investimenti effettuati dal 2012 al 2019, Cooperazione, finanza impresa (Cfi) – la società finanziaria partecipata dal Ministero dello sviluppo economico – ha stimato invece in 7,1 volte il ritorno dello Stato (159,5 milioni di euro) rispetto al capitale di 22,6 milioni di euro impiegato da Cfi nei Workers buyout e dai fondi del Decreto ministeriale 4.12.2014.
Scetticismo, sfiducia e abbrutimento
Non basterà certo l’impegno di attivisti e ricercatori a politicizzare questi dati e queste analisi. Il recupero cooperativistico d’impresa sconta ancora oggi un clima di scetticismo, sfiducia e abbrutimento che, spesso, impedisce di vedere nel lavoro cooperativo una promessa ancora attuale di emancipazione.
Al di là dell’interventismo invadente e più che comprensibile di un soggetto come Confindustria, non bisogna dimenticare che il numero relativamente ridotto di imprese recuperate nel nostro paese dipende non soltanto dalla cronica mancanza di politiche industriali e dall’aggiornamento in senso restrittivo del quadro normativo della legge Marcora, ma anche da un consolidato clima culturale di scetticismo, se non di vera e propria demonizzazione del settore della cooperazione, alimentato da eccezionali scandali e dal regolare sfruttamento di forza lavoro da società che di cooperativo hanno solo il nome. Soltanto un certo dogmatismo o un più banale conflitto d’interessi può relativizzare la gravità e la diffusione della cattiva luce gettata sulla cooperazione dai numerosi casi in cui la volontà di profitto di pochi soci è stata dissimulata sotto la maschera giuridica di cooperative composte da una maggioranza di lavoratori e lavoratrici sottopagati e privati di tutele. Il paradosso è che, negli stessi anni, una quota crescente di prestigio o, se non altro, di credito è stata tributata alle imprese di capitali che applicano i propri metodi ad ambiti economici richiamandosi a finalità sociali, in cui è sempre l’orientamento al profitto a prevalere.
Ancor più di questo clima generale, però, conta la sfiducia che in molti casi gli assetti proprietari vigenti sembrano nutrire nei confronti dei loro stessi dipendenti, quando viene ventilata l’ipotesi che siano proprio loro ad acquisire la titolarità dell’impresa o di un suo ramo. Si potrebbe difficilmente spiegare altrimenti il rifiuto di vendere a loro l’impresa a parità di offerte economiche avanzate da altri acquirenti.
Lo scetticismo e la sfiducia della proprietà non sono gli unici fattori rilevanti: conta anche il pregiudizio abbrutente – e, duole ammetterlo, ideologicamente trasversale – che ha fatto breccia anche nel sindacato e, prima ancora, nel mondo del lavoro, secondo cui questa attività rappresenterebbe solo ed esclusivamente una fonte di reddito anziché un possibile canale di emancipazione. Per Jacques Rancière l’abbrutimento designa l’esatto contrario dell’emancipazione: abbrutente è qualsiasi atteggiamento e pratica educativa che, in nome di un qualche ideale illuminista o progressista, trasmette ai subordinati di qualsiasi relazione di potere la coscienza della propria incapacità, come se la posizione da loro ricoperta nella società provasse l’inferiorità della loro intelligenza. Applicato al mondo del lavoro, il pregiudizio abbrutente pretende dai lavoratori e dalle lavoratrici che, anziché ambire ad autogestire l’impresa in cui lavorano, si limitassero a lavorare o, in caso di crisi, a esigere gli ammortizzatori sociali. Oltre a ad avverare le proprie profezie, questo atteggiamento abbrutente è l’esatto contrario del riconoscimento mutualistico dell’eguaglianza delle intelligenze e del desiderio di migliori libertà che potrebbe essere soddisfatto, se solo accettassimo di essere più ambiziosi collettivamente, con gli altri e con noi stessi.
Diversi gradienti del recupero cooperativistico
Al di là della palese operazione di disturbo di Confindustria e dell’attendismo dei sindacati, l’interpretazione pubblica del fenomeno è ancora oggi contesa da due posture teoriche e politiche: l’una, di tipo economicistico, finisce per non tenere conto del valore politico-simbolico e dell’impatto sociale del fenomeno; l’altra, iper-politicizzata, pretende che solo alcune delle imprese recuperate meritino di essere considerate tali, a seconda che abbiano rinunciato o meno a ricevere i finanziamenti del Ministero dello sviluppo economico e, quindi, ad ammettere Cooperazione, Finanza e Impresa fra i loro soci sovventori.
Chiamare Workers buyout anziché imprese recuperate queste realtà finisce per privilegiare a livello linguistico la dimensione finanziaria anziché i processi di autonomia gestionale dei lavoratori e delle lavoratrici. La domanda del mercato è un prerequisito importante per avviare il recupero della produzione (non solo dello stabilimento o della proprietà aziendale) di imprese a rischio di fallimento. Arrestare la riflessione a questo dato scontato, però, rischia di diventare un alibi auto-assolutorio in almeno due sensi: innanzitutto, si corre il rischio di abbandonare le nuove cooperative ai clienti della precedente proprietà e di non cogliere l’occasione per valorizzare la dimensione socio-politica di queste esperienze di riscatto collettivo e per avviare e incentivare circuiti di scambio fra imprese recuperate che possano alimentare la domanda di merci e servizi prodotti dai loro soci, soprattutto nella fase di riavvio dell’attività; in secondo luogo, si rischia di sottovalutare fattori extra-economici che sono decisivi per la continuità del recupero. Nel momento in cui a livello culturale e manageriale si trasforma la pur necessaria domanda del mercato in un prerequisito sufficiente, vengono automaticamente trascurati quei fattori – politica e sindacato in primis – che incidono profondamente sulla continuità della produzione. Senza punti di riferimento in carne e ossa con una cultura politico-sindacale alle spalle, le capacità manageriali e commerciali rischiano di risultare del tutto insufficienti. Lo sanno bene i soci e le socie delle imprese recuperate che oggi non esistono più, come dimostrano alcune delle nostre inchieste riportate nel libro.
Alla de-politicizzazione delle interpretazioni economicistiche fa da contraltare il misconoscimento iper-politicista del valore economico delle imprese recuperate sotto forma di cooperative. Chiamare «imprese recuperate» solo ed esclusivamente le realtà recuperate grazie all’azione conflittuale dei lavoratori e delle lavoratrici, che costituiscono il capitale sociale delle cooperative senza aiuti pubblici e grazie al coinvolgimento esclusivo delle nuove cooperative all’interno di reti di scambio equo e solidale, rischia di sottovalutare il valore sociale delle cooperative create attraverso strumenti diversi.
Certo, rilevare un’impresa grazie al comune investimento dei soci della cooperativa, degli investitori istituzionali e degli istituti di credito non significa necessariamente recuperarla a pieno titolo: il recupero cooperativistico d’impresa conosce infatti diverse gradazioni, a seconda che la proprietà comune dell’azienda (e/o dello stabilimento) si accompagni a pratiche effettive di autogestione collettiva, alla trasformazione degli addetti assunti dalla cooperativa in nuovi soci, alla capacità di ridurre e riciclare ecologicamente gli scarti della produzione, al coinvolgimento del territorio all’interno della cooperativa e al tentativo di estendere i valori della cooperazione e del mutualismo anche al di fuori dello stabilimento, puntando a democratizzare l’economia stessa.
È innegabile, dunque, che vi siano imprese più recuperate di altre. Riconoscere le differenze, però, non significa cristallizzarle, dal momento che ciascuna impresa può trasformarsi lungo questo continuum. Le imprese recuperate rappresentano infatti un fenomeno processuale e dinamico, che muta in rapporto alle sfide che interpellano i lavoratori e le lavoratrici e alle risposte che i soci della cooperativa elaborano, anche in sinergia con il resto della società (intellettuali e attivisti compresi).
*Leonard Mazzone è assegnista di ricerca in Filosofia sociale e politica presso l’Università di Milano-Bicocca. È autore, insieme a Romolo Calcagno, del libro Le imprese recuperate in Italia (Castelvecchi 2022) e socio-fondatore di Comunet-Officine Corsare e del Collettivo di ricerca sociale che da anni lavora al progetto della Rete italiana delle imprese recuperate.
Questo articolo è sato pubblicato su Jacobin il 29 ottobre 2022