La mezza stagione c’è ancora

di Silvia Napoli /
12 Ottobre 2022 /

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Se non fosse che i tempi da chiaroscurali sono virati al dark in breve tempo e minacce di ogni fatta ci stanno accerchiando, si sarebbe stati tentati di tirare un sospiro di sollievo e aggiungere un per fortuna, alla asserzione del titolo. Ovviamente io sto alludendo a manifestazioni teatrali e performative che in qualche modo dopo la classica esplosione estiva, si pongono come interludio, trait d’union, anticipazione delle più organiche programmazioni autunnali, vedremo quanto e come lambite, influenzate, messe in crisi da un mix di fattori politici economici e ambientali in parte inaspettato.

D’altra parte chi fosse più accorto nella valutazione delle temperie storiche, saprebbe che ben difficilmente si possa uscire da una grave emergenza epidemica sia in maniera soft che con caratteristiche di ampliamento democratico.

Come già numerose volte abbiamo constatato cercando di fare un po di cronaca culturale, le situazioni teatrali, sia in spazi abitualmente dedicati che in spazi altri, oggi appaiono come non più o non soltanto come luoghi di intrattenimento, ma vere e proprie agorà di dibattito civile.

Non sarebbe sbagliato dire che si pongono un po’ come tribune realmente popolari proprio perché apertamente mediate dal filtro rappresentativo, un po’ come campi di indagine agita in maniera pratica, una sorta di ricerc’azione sofisticata, un po’ come summa enciclopedica di una antropologia urbana occidentale. Dire quanto tutto questo possa essere positivo in termini assoluti, tuttavia è difficile.

Da un lato, il fare artistico, oltre a ritrovarsi con le sue brave difficoltà di settore, si carica di responsabilità contendibili politicamente e dunque controverse, dall’altro ci si chiede quanto si debba essere vicari di ben altri pulpiti e consessi dove oggi pare impossibile parlare, ascoltare, capire.

Sono tutte questioni che toccano molto da vicino, dopo Santarcangelo, che in luglio ci aveva già fatto intravedere una strada performativa costellata di scarti tra dimensione soggettiva e collettiva, due situazioni festivaliere, scelte tra le tantissime grandi e meno, che ci stanno tutte molto a cuore e che ci rimandano ad un legame speciale tra Bologna e Roma, tra le loro scene più significative, quali Gender Bender, la rassegna che tende il limite sociale percettivo delle differenze sempre un pochino oltre e Short Theatre, quella che si configura come una festa mobile scorrazzante per un’urbe che quest’anno si dilatava fino a Velletri.

A partire dalla grafica più essenziale e da una scelta cromatica per certi versi spiazzante, quale il bianco per la cover dei materiali a stampa, Gender Bender, incredibile a constatarsi, compie 20 anni, un ‘età un po’ giro di boa, piazzata oltretutto in mezzo ai 40 del centro Cassero LGBTQI, che è pur sempre la casa madre delle elaborazioni al centro delle programmazioni.

A sentire Del Pozzo e Meneghelli, le anime curatrici di questo complesso corpo in continua crescita che è Gender Bender, vent’anni sanciscono l’uscita dall’adolescenza e dunque non tanto un’acquisizione di maturità, quanto la consapevolezza delle proprie forze e della propria capacità di visione. Probabilmente anche il mettere un attimo in disparte certi tratti provocatori e spigolosi, quelli che possono intimidire un pubblico nuovo e più variegato, fa parte di una coscienza identitaria affermata e che desidera pertanto espandersi in molteplici direzioni, che può orgogliosamente rivendicare di avere un posto nella società, di essersi presa uno spazio culturale che prima non esisteva per le diversità e che oggi vuole dunque a buon titolo entrare nel pieno dei discorsi sul corpo, sulle sue mutazioni, letture biopolitiche, interpretazioni altre.

Il bianco pertanto, non è certo un vuoto, ma riassume tutto lo spettro dei colori, a significare un’ampiezza e leggerezza di vedute, che 20 anni è pur sempre gioventù, conquistata sul campo di una sperimentazione ardita e gentile.

In questa edizione, abbiamo visto molta cinematografia interessante, un bilanciarsi tra parola intesa come approfondimento e sentire comunitario e la performance di danza intesa come messa in gioco del corpo in maniera totalizzante e”politica”.

Come stanno i corpi disabilitati secondo i nostri parametri, o diversamente abili, per dirla in altro modo, sulla scena e fuori da essa in quanto fruitori, è una delle nuove nuances che compongono la cromia di questo festival che scorre in scioltezza tra spazi vecchi e nuovi, al chiuso e all’aperto, spingendosi oltre il complesso della Salara per ben 13 giorni, arricchendosi di un numero impressionante di sponsorizzazioni patrocini, partnerships nazionali e non.

Tanto sta a cuore il tema del coinvolgimento di tutti, che il festival propone un questionario sull’accessibilità degli spazi culturali, che viene presentato nella biblioteca Renzo Renzi della Cineteca e che travalica nel dibattito di molto il tema inizialmente in oggetto.

Ben presto la discussione si allarga e il questionario diventa in pratica uno strumento documento da correggere ove opportuno e integrare insieme. Il pubblico di Gender Bender, che sia veterano che sia novello, ha in effetti una attenzione ai diritti e una mente aperta mediamente elevati e ciò va persino oltre le più rosee aspettative degli organizzatori Mauro Meneghelli, il socio giovane del team di curatela, raggiunto in chiusura di festivals mi conferma che due sono i principali obiettivi che si dà Gender Bender per combattere i tempi difficili che stiamo vivendo: uno riguarda senza meno l’attitudine appunto espansiva, rispetto ai pubblici, ai linguaggi, alle problematiche di stigmatizzazione e viceversa inclusione che vengono in effetti condotti amorevolmente di pari passo, l’altro, più sottile riguarda il modo,lo stile peculiare in cui tutto questo viene praticato. Goliarda Sapienza, avrebbe definito questo mood, l’arte della Gioia, in realtà si tratta, chiosa Meneghelli, di uno sguardo laterale e a distanza che permette di raggiungere non certo una inesistente neutralità, quanto un’adesione alla causa non dogmatica, filtrata dalla capacità di mettersi in discussione. Ad esemplificazione della cosa, Mauro mi cita l’affollatissimo talk di Fumetti brutti insieme alla linguista Vera Gheno, espressione di un pensiero radicale che sa come affrontare gli inganni e le trappole del linguaggio mainstream dribblando le secche del politically correct.

Certamente, il culto della correttezza, mi dice Meneghelli, non è spesso semplicemente un atteggiamento ipocritamente salomonico tipico delle democrazie esangui e complesse in cui viviamo, ma un senso anche di protezione che le comunità ghettizzate si danno, contro un esterno percepito come aggressivo. Anche questo si può ironicamente decostruire come in quella situazione è stato fatto, rendendosi accessibili, tanto per esemplificare, anche ai miei genitori. Se il tema dell’accesso delle nuove generazioni, non tanto al mondo gender o queer, quanto al mondo delle diversità e divergenze, rimane uno dei pilastri di un’idea democratica in progress, focalizzata ma non centralista,della società, bisogna dire che il Festival è da sempre un luogo d’attenzione anche per il trascorrere del tempo e dunque, la vita come transito verso l’invecchiamento. Da sempre vengono proposti laboratori di danza extra tempo massimo e stavolta, il discorso tocca direttamente anche un tema di evoluzione di linguaggio in base al progredire dell’età, dello stile, della concezione del proprio lavoro e dell’opera. Questo il concept da cui prende slancio il bellissimo e molto ben commentato nell’incontro a seguire, lavoro della performer israeliana Talia Paz, dal significativo titolo “Am I”: si può essere una danzatrice provetta e patentata, stretta in una sorta di involucro crisalide perfezionistica e contemporaneamente una donna tout court con i suoi limiti, la sua femminilità precisa e titubante insieme, il peso degli anni che passano? Ebbene si, sembra essere la risposta, tuttavia affatto consolatoria, scaturita dall’incessante lavorio fisico, verbale, inventivo della danzatrice Talia, in qualche modo diversamente perfetta, ma non inattingibile: una di noi, senza demagogiche svenevolezze.

Poco tempo prima anche questa edizione di GB aveva ospitato di nuovo l’artista romana Eleonora Danco,che si spaccia per ‘ncapace, nella sua tuttavia poliedrica indole multitasking e dissacrante. Questo a testimoniare, ora che il nostro Marco Cavalcoli è di stanza nella capitale ed abituale dalle nostre parti la presenza di Giorgina PI con i suoi Blu Motion, per non parlare del ruolo di spazi trait d’union come Ateliersi e Angelo Mai nella intersezione delle scene, il legame d’ambiente tra Bologna e Roma.

Questo ci introduce ad una rapida disamina di una delle rassegne più cult d’Italia, quello Short theatre, da due anni nelle sapienti mani curatoriali di Piersandra DiMatteo, dramaturg per Societas, titolare sulle nostre scene di progetti memorabili come Atlas of Transitions, di fatto divisa tra le due città. Come spesso accade alle donne competenti, Piersandra ha dovuto attraversare nelle due situazioni i momenti più duri della pandemia, dimostrando tuttavia, una grande capacità di gestione flessibile e rilancio. Questa edizione di Short che si è avvalsa di sponsorizzazioni altrettanto di culto quale quella della maison Gucci, si è spalmata per 13 giorni pieni, dunque tutt’altro che breve, per la seducente Roma e altrove, cosi come recita la cover giustamente rossa: una vibrant matter, una faccenda vibrante e supponiamo incandescente che ha lambito ben 15 spazi molto diversi tra loro. Una diciassettesima edizione, giustamente non evento residuale e di nicchia, ma apripista di una stagione culturale di mezzo che vede ora il dispiegarsi di Roma Europa Festival e a brevissimo delle giornate del Cinema. Come le note di brochure sottolineano si è trattato di una edizione, la diciassettesima, di rinascita e di prime volte, traboccante di spunti di riflessione ecologici, come quelli sulla intenzionalità vivente della materia, sulla possibilità di percorsi artistici inclusivi e partecipati, sulla deligittimazione delle gerarchie tra saperi, metodologie e oggetti. Insomma, non una vetrina di spettacoli chicca da fruire passivamente, ma una vera esperienza immersiva sotto molteplici aspetti a cominciare dalla socializzazione, che ha dato la sua coloritura predominante, dopo questa lunga traversata nel deserto che abbiamo tutti subito in termini di aggregazione, presa di parola, slancio politico.

Naturalmente la cosa interessante e saliente di questo processo è stata la sua natura profondamente e rigorosamente culturale. Lo sta a dimostrare il focus Gisele Vienne che ha inaugurato il festival, aprendo subito una pista verso la contaminazione multidisciplinare. Non facile inquadrare il lavoro di una artista e intellettuale come Vienne, di cui dovremmo soprattutto dire che è femminista e ci regala con sguardo europeo e tagliente sul nostro mondo tutto periferico ormai e intriso quasi inconsapevolmente di violenza.

Vedere per credere la disturbante mostra di poupees, in foto, peste, obbedienti, tristi, mutilate, ammiccanti, con una bambola installazione a grandezza naturale come cesura tra verità e finzione rappresentativa. Vienne si esprime come ormai diversi artisti oggi, tramite una composita e sofisticata, tuttavia molto pop, cassetta degli attrezzi: questo si è ammirato in tutta evidenza, con il magnifico e ipnotico Crowd, ospitato in quella bomboniera che è il Teatro Argentina. Uno spettacolo che vorremmo rivedere e che porta la danza al grado zero del voyerismo per chi guarda e vorrebbe tanto muoversi, stimolato da un’ora più che abbondante di musica elettronica martellante e del raggelamento dell’atto performativo essendo concepito come una sorta di estenuante vogueing o strike the pose, per i giovani in scena a rappresentare i”posizionamenti”, nella scena sociale urbana. Personalmente ho trovato stupefacente quanto questa sorta di effetto fermo immagine prolungato risultasse un selfie delle nostre periferie e fosse cosi culturalmente parlante: una dissertazione con mezzi non verbali. Ma per essere minimamente credibili come testimoni cronisti bisognerebbe parlare anche di AL.DI.QUA Artist, del resto presenti appunto anche a Gender Bender per un discorso sui percorsi di accessibilità bidirezionali nelle pratiche d’arte o della incredibile festa Merende a Angelo Mai, infine degli esiti laboratoriali di Alma Soderberg, davvero sorprendenti per compattezza e rigore: una partitura vocale polifonica a piedi nudi su versi di Saffo, realizzata sulla incantevole terrazza della real Accademia di Spagna, per un gruppo di donne comuni non performers che ci ha lasciato nel cuore qualcosa di davvero vibrante a chiusura di un festival, condotto tutto nel segno della liquidità dei generi, ma soprattutto a massima trazione di genio femminile e femminista da tutto il globo. E di questo, non finiremo mai di ringraziare Dimatteo. Per concludere, last but not least, dal 7 al 13 di ottobre, ecco l’appuntamento più atteso e ormai deserto da due anni, sui palcoscenici regionali di Ert. Ovvero il mitico Vie festival, sotto la curatela dell’ottima Barbara Regondi, un fiore all’occhiello, come giustamente sottolinea Malosti, direttore artistico dellaFfondazione teatro nazionale emiliana, che ha meritato una appassionato articolo, dovizioso di info e approfondimenti sul supplemento Venerdì di Repubblica: davvero una evenienza rarissima sulla stampa a larga tiratura italiana. Questo perché il mix calibrato di linguaggi pop e sperimentazioni ardimentose, comincia a cogliere nel segno.

Cosa aspettarsi da Vie, meriterebbe un lunghissimo articolo, stante le novità assolute da diversi paesi che potremmo vedere in una ideale maratona nelle cinque sedi ERT e i temi dei confini e dei meticciati culturali saranno al centro di questo viaggio intensivo. Per quel che riguarda Bologna, Arena del Sole, parte benissimo con talenti nostrani quali Michela Lucenti, coreografa di confine in senso espressivo, che ci ha già offerto nel finire della scorsa stagione affondi dal suo progetto Carne e che qui debutta con Karnival e naturalmente il debutto tanto atteso e tanto rimandato di Kepler 452, con il loro Il Capitale, un libro che non abbiamo ancora letto. Uno spettacolo già molto chiacchierato prima di essere visto per via di una inedita compagine in scena che vede protagonisti alcuni operai del mitico Collettivo GKN, emblema in questo momento di tutte le lotte sparse sul territorio nazionale e che cade proprio a ridosso di una seconda tappa di valenza nazionale di Insorgiamo tour, il dispositivo creato da questi geniali occupanti per istituire convergenze di popolo. Sicuramente ne vedremo delle belle in questo apice di mix tra Cultura alta e cruda realtà quotidiana. Ma per questo, stay tuned sugli approfondimenti che vi arriveranno a stretto giro.

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