Nobel a Annie Ernaux: scrivere la vita

di Daniela Brogi /
9 Ottobre 2022 /

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«Per il coraggio e l’acutezza clinica con cui scopre le radici, le rimozioni e i vincoli collettivi della memoria personale. Nella sua scrittura, Ernaux in modo coerente e da diverse angolazioni, esamina una vita segnata da forti disparità di genere, lingua e classe. Il suo percorso verso l’autorialità è stato lungo e arduo». 

Sono le parole con cui l’Accademia di Svezia ha assegnato a Annie Ernaux il Nobel per la Letteratura. È l’ottava autrice a essere premiata in questo nuovo secolo, su un numero complessivo di diciassette. 

Ernaux è diventata nota in Italia da quando la casa editrice l’Orma ha ripreso e tradotto i suoi libri, resi in italiano da Lorenzo Flabbi. Il posto è il primo successo, per certi aspetti rimane il più bello, certamente è quello da cui vale la pena di ripartire. Più che un’autobiografia, è un memoir, vale a dire una narrazione attraverso la quale si trova “posto”, per l’appunto, a una memoria “umiliata”, come scrive Ernaux, destinata a essere dimenticata dalla storiografia ufficiale, ma che la scrittura invece recupera e lavora, scavando nelle pieghe del racconto, e reinventando memorie, punti di vista e significati proprio tra le screpolature di cui si è riempito, negli anni, il muro dei ricordi. Il libro di Annie Ernaux è dedicato alla figura del padre e alla rielaborazione della sua morte, avvenuta nel 1967; pubblicato nel 1982, quindici anni dopo l’evento che lo ha originato, Il posto fa stare accanto due piani narrativi.

Da un lato si ha la memoria e la biografia del padre, dapprima contadino, poi operaio, poi, con la moglie, gestore di un bar-drogheria in una cittadina della provincia normanna. Con un talento mimetico davvero raro (perché non riproduce una terminologia, ma lo sguardo complessivo che fa vivere quelle espressioni), la scrittura restituisce al padre il suo posto nel mondo, facendo vedere, attraverso il vocabolario preciso di quel mondo, la maniera di vita e l’immaginario della sua  realtà di appartenenza – questa è la capacità di raccontare le disuguaglianze di classe nominate nella motivazione dell’Accademia («Quando leggo Proust o Mauriac, non credo che rievochino il tempo in cui mio padre era bambino. L’ambiente della sua infanzia è il Medioevo»).

Accanto alla memoria del padre, la memoria e la biografia dell’io narrante. È una figlia che entra in scena attraverso i sentimenti della «rabbia» e della «vergogna» con cui reagisce alla conquista del titolo di professoressa di ruolo, «esattamente due mesi» prima che il padre morisse, nel 1967. Scrivere è anche fare posto all’essenziale, nel senso di trovare riconoscimento alla volontà di compiere un salto sociale e di affermarsi, dando voce a un’ambizione che è sempre stata attraversata dal senso del tradimento di classe. (Nessun altro libro come Il posto, forse, riesce a narrare così bene la doppia fatica vissuta a scuola dai figli dei subalterni: che alla difficoltà di assimilare una cultura a cui per nascita non appartengono, devono aggiungere lo stress di imparare qualcosa che più si impara e più si sa che ti allontanerà, per sempre, dalla cosa più importante che hai, vale a dire il mondo da cui provieni).

Ma scrivere, d’altra parte, è togliere enfasi: «La scrittura piatta mi viene naturale, la stessa che utilizzavo un tempo scrivendo ai miei per dare le notizie essenziali». «J’ai retrouvé une lettre de P. dans un dossier de factures datant des années quatre-vingt. Une grande feuille blanche pliée en quatre, avec des taches de sperme qui avaient jauni et durci le papier, lui donnant une contexture transparente et granuleuse. Il y avait seulement écrit, en haut, à droite, Paris, 11 mai 1984, 23 heures 20, vendredi. C’est tout ce qu’il me reste de cet homme»: Hotel Casanova (2020).

«Sin dal mese di settembre dello scorso anno non ho fatto nient’altro che aspettare un uomo: che mi telefonasse e che venisse da me. Andavo al supermercato, al cinema, portavo gli abiti in lavanderia, leggevo, correggevo i compiti, mi comportavo esattamente come prima»: Passion simple, Passione semplice: 1991 (la traduzione qui riportata è di Idolina Landolfi, per Rizzoli). C’è qualcosa di prodigioso nella maniera di sprigionare, proprio dai solchi di silenzio ritagliati dalla scrittura e dalla prosa essenziale che profila le immagini, il sentimento così “semplice” della vita come esperienza e memoria comune – anche se, al tempo stesso, molto diversa o distinta, a seconda della classe e del genere a cui si appartiene.

In tutti i libri che ha scritto e che potrete leggere Ernaux, che ha esordito nel 1974 con Gli armadi vuoti, riprende memorie e dunque lavora su dislivelli (anche extraverbali, da quando, con L’usage de la photo, ha cominciato a scrivere fototesti), per raccontarsi e raccontare eventi di rottura attraverso un inventario pieno di situazioni quotidiane, di luoghi comuni e pensieri ordinari: quelli che si fanno appartenendo a un tempo fugace e transitorio.

Che si tratti della perdita della madre Una donna (1988), o della sorella morta da piccola (L’altra figlia), dell’esperienza dell’aborto, di un amore perduto, della condizione «normale» di quotidiana abitudine delle donne a una vita famigliare che le svuota (La Femme gelée (1981), o di una malattia, le sue storie, in prima persona, assecondano un medesimo stile della raggelata testimonianza: «In Francia, l’11% delle donne sono state e sono colpite da un cancro al seno. Più di tre milioni di donne.

Tre milioni di seni ricuciti, scannerizzati, segnati con disegni rossi e blu, irradiati, ricostruiti, nascosti sotto camicette e magliette, invisibili. Dovremo avere il coraggio di mostrarli un giorno, in effetti» (L’usage de la photo). «Tutte le immagini scompariranno. || la donna accovacciata che, in pieno giorno, urinava dietro la baracca di un bar al margine delle rovine di Yvetot, dopo la guerra, si risistemava le mutande con la gonna ancora sollevata e se ne tornava nel caffè ||il volto pieno di lacrime di Alida Valli mentre ballava con George Wilson nel film L’inverno ti farà tornare || l’uomo incrociato su un marciapiede di Padova nell’estate del ’90»: è l’attacco di uno dei libri più noti, Gli Anni (Les années, 2008, e 2015 nella traduzione di Flabbi per l’Orma).

I suoi libri cercano di “esporre” la vita, sotto specie di riflessioni, fotografie, notizie: esporla, nel senso di fare in modo che sia veduta ma pure nel significato di mettersi fuori – anche nel tempo – dalla partecipazione di chi racconta qualcosa nel mentre stesso in cui la prova. 

Questo articolo è stato pubblicato su Doppiozero il 7 ottobre 2022

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