Sabra e Shatila, la memoria palestinese parla anche italiano

di Michele Giorgio /
19 Settembre 2022 /

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Il suono delle cornamuse e il rullo dei tamburi accompagna la sfilata dei più piccoli, tutti rigorosamente vestiti come per le grandi occasioni. Le bimbe con abitini della tradizione palestinese, i bimbi con pantaloni blu e camicia azzurra. Dietro nel corteo ci sono i ragazzi più grandi, adolescenti. Quindi tutti gli altri partecipanti alle commemorazioni del 40esimo anniversario del massacro di migliaia di profughi di Sabra e Shatila. Da poco sono terminati nel vicino teatro i discorsi dei politici locali, dei membri di vari partiti e dei rappresentanti delle delegazioni straniere. Il corteo lentamente avanza verso Shatila. Due bambini sollevano un poster con il volto sorridente di Stefano Chiarini, storico inviato del manifesto in Medio oriente scomparso prematuramente nel 2007. Sono passati 15 anni dalla sua morte ma qui Stefano è come se fosse ancora vivo. Anche i profughi più giovani conoscono il suo nome e quello di un altro giornalista italiano venuto a mancare qualche anno fa, Maurizio Musolino. Entrambi ottennero di far sorgere, laddove povertà e incuria ammassavano rifiuti e detriti, un memoriale per le vittime del massacro compiuto in questi giorni del 1982 dai Falangisti libanesi con la complicità dell’esercito israeliano che circondava i due campi profughi palestinesi.

Non si può non notare la stridente differenza tra questo spicchio di terra verde e pulito, colmo di corone di fiori per le vittime della carneficina, con le condizioni di vita nel resto di Shatila (di Sabra resta solo una parte). Acquitrini di acque di scarico dominano lungo la strada principale che attraversa il campo. Sporcizia e rifiuti ovunque e che i commercianti cercano, con scarso successo, di rimuovere davanti ai loro negozi. Una ragnatela di cavi elettrici a 2-3 metri di altezza grava sulle persone in ogni angolo del campo dove misere case si aggrappano le une sulle altre creando vicoli che assomigliano a cunicoli e negando qualsiasi possibilità di privacy agli abitanti. In appena un chilometro quadrato, in queste condizioni, vivono decine di migliaia di esseri umani. Non solo i palestinesi giunti qui dopo la Nakba nel 1948 e che sognano sempre il ritorno nella loro terra d’origine (Israele, contro le risoluzioni internazionali, lo nega da 74 anni). Ci vivono anche 30mila profughi giunti dalla Siria negli ultimi dieci anni, famiglie libanesi in miseria di lavoratori migranti di ogni nazionalità.

Nell’area del memoriale gli altoparlanti diffondono discorsi e brani musicali del nazionalismo palestinese e libanese. Amici di vari paesi, che non si incontrano da tempo, si abbracciano con affetto. Un anziano mostra un librone con le foto del figlio ucciso e di altri martiri di quei giorni di orrore e sangue. Tra i più attivi ci sono i delegati, alcune decine, del Comitato italiano per non dimenticare Sabra e Shatila, anch’esso fondato per volontà di Stefano Chiarini. Fra loro quest’anno ci sono Gabriele Rubini (Chef Rubio) e diversi cittadini svizzeri. Mirca Garuti, fotografa e videomaker, è una «veterana» del Comitato. A Sabra e Shatila ci viene da 22 anni. «Quest’anno dovevamo in ogni modo essere qua» ci dice «per ricordare un massacro che purtroppo passa in sordina e non viene mai citato». Tutti, aggiunge, «si sono dimenticati dei profughi palestinesi. Ci sentiamo perciò dei testimoni che devono portare avanti il lavoro di Stefano Chiarini e Maurizio Musolino e, al ritorno in Italia, dare un quadro di ciò che avviene qui e della condizione dei rifugiati palestinesi in Libano».

In disparte Luise Norman segue in silenzio discorsi e commemorazioni. Svedese, 71 anni, infermiera in pensione, era a Sabra e Shatila durante il massacro, in quel «Gaza Hospital» che ha legato il suo nome a una delle pagine più insanguinate della storia palestinese. Oggi non esiste più. Norman e un altro infermiere furono gli unici membri del personale sanitario al quale i Falangisti consentirono di assistere i pazienti. Ha un ricordo nitido, e molto amaro, di quei giorni. «Ero stata mandata al ‘Gaza Hospital’ appena un mese prima dal consiglio delle Chiese protestanti», racconta Norman, «stavo ancora cercando di ambientarmi quando (il falangista nominato presidente) Bachir Gemayel fu ucciso e l’esercito israeliano entrò a Beirut Ovest circondando Sabra e Shatila. Compresi che le cose si sarebbero messe male, la paura era forte». Norman ricorda ancora i rastrellamenti e le uccisioni a sangue freddo di palestinesi. «Prendevano i profughi, gli uomini in particolare, e li portavano via. Poi sentivamo raffiche di mitra lunghe minuti seguite dall’arrivo delle ruspe che scavavano fosse comuni».

In questo giorno della memoria palestinese che il mondo vuole dimenticare, del dolore mai superato dai familiari delle vittime, su questo angolo di pace, grava l’intenzione della famiglia libanese proprietaria del terreno di mettere fine all’impegno di Stefano Chiarini. «La municipalità di Gobeiri è dovuta intervenire per impedire, per ora, la vendita del terreno» ci spiega Flavio Novara che per il Comitato per non dimenticare Sabra e Shatila segue l’evoluzione della vicenda. «Ci siamo attivati per chiedere il rispetto del memoriale e oggi il sindaco ha annunciato che saranno raccolti fondi per comprare il terreno dalla famiglia libanese e costruirvi un mausoleo dedicato alle vittime del massacro. Resteremo vigili, nel nome di Stefano».

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 17 settembre 2022

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