Un’agenda climatica e sociale

di Giorgio De Girolamo e Ferdinando Pezzopane /
18 Settembre 2022 /

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«Se quello che la gente desidera e considera giusto viene bollato come politicamente irrealistico, di norma significa semplicemente che le grandi concentrazioni di potere e privilegio vi si oppongono»

Noam Chomsky, Il golpe silenzioso, 2004

«È finita l’epoca dell’abbondanza». Questo è il lapidario giudizio che un Emmanuel Macron in versione filosofo, al rientro dalle vacanze, traccia in merito allo stato di salute dei paesi europei, alle prese con una delle più gravi crisi energetiche degli ultimi decenni. Parole distanti dal comune sentire di una moltitudine di classi sociali in sofferenza economica, idealmente connesse al monito draghiano sulla responsabilità di scegliere tra la pace e il condizionatore. Pare che «tra il palazzo e la piazza» vi sia «una nebbia sí folta, o uno muro sí grosso», non solo tanto da riempire il «mondo di opinione erronee e vane» (come intendeva dire il Guicciardini) quanto piuttosto da impedire a chi governa di comprendere i bisogni dei governati e di essere sufficientemente indipendente da poteri e interessi altri per riuscire a soddisfarli.

Sono mesi che il costo dell’energia continua ad aumentare ed è oggi sempre più evidente come la crisi energetica sia frutto non solo della nostra folle dipendenza dai combustibili fossili, il cui utilizzo è la principale causa della crisi climatica e dunque di scenari che diventano sempre più cupi, ma anche della scelta di liberalizzare il mercato dell’energia. 

Così il prezzo del gas non si basa sulla sua sola presenza, ma sulle aspettative ormai viste al ribasso a causa del conflitto russo-ucraino. In questo modo la tanto voluta (da alcuni) liberalizzazione che, nei discorsi degli economisti mainstream, avrebbe dovuto portare prezzi competitivi e al ribasso si manifesta in prezzi aumentati sulla sola base di una serie di scommesse sulla disponibilità futura di questa materia prima. 

In Italia tutto ciò sta già aggravando un quadro non semplice, la crisi inflattiva raggiungerà probabilmente entro fine anno la doppia cifra e la povertà energetica già prima particolarmente elevata (parliamo di un 8,8 % di famiglie in povertà energetica), rischia di esplodere. 

Di fronte a una crisi di proporzioni eccezionali la maggior parte dei partiti sembra avere le armi spuntate. I vari programmi elettorali sono infatti quasi tutti in continuità con l’attuale sistema economico, non prevedendo alcun superamento di un modello di sviluppo che ci sta portando dritti verso il baratro sociale ed ecologico. È completamente assente la capacità di collegare i punti che tengono insieme la crisi energetica e climatica. Tra un’ospitata televisiva e un’altra si susseguono proposte basate sui rigassificatori: perfino il Partito democratico, definito dal suo stesso segretario alla disperata ricerca di voti il più grande partito ambientalista d’Europa, parla della loro ineludibile necessità, snobbando di conseguenza tutti gli studi secondo cui è possibile e necessario fare a meno di nuove infrastrutture fossili, sempre se l’obiettivo è restare al di sotto degli 1.5°C di aumento delle temperature. Nel loro programma si parla di istituire un fondo anti-Nimby per compensare quei territori che diventerebbero de facto aree di sacrificio per un bene superiore identificato con un ricorso transitorio al gas. La retorica di fondo sembra ancora una volta stabilire una distanza tra le necessità nazionali e quelle dei territori che sono spesso contrari a infrastrutture di questo tipo (vedesi il caso di Piombino, dove bonifiche dovute da decenni sono fatte passare per graziose compensazioni). 

Inoltre ancora in queste settimane, il governo Draghi, senza l’apparente presa di distanze di alcuna delle principali coalizioni, sta preparando un decreto per incentivare il raddoppio dell’estrazione di gas naturale sul territorio italiano (che secondo un recente studio di Assorisorse custodisce fino a 112 miliardi di metri cubi di idrocarburi) rispetto ai 3,35 miliardi di metri cubi del 2021. Una scelta che denuncia sordità dinanzi al monito dell’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) che indica come scelta obbligata per azzerare le emissioni al 2050 lo stop a nuovi investimenti in fonti fossili dal 2022. 

Ma c’è anche chi fa peggio parlando di come sia importante puntare sul nucleare, senza però fare i conti con le tempistiche necessarie alla costruzione e la velocità con cui dovremmo abbattere le emissioni di CO2. Questo è il caso del Centrodestra e del cosiddetto Terzo polo di Carlo Calenda. Sarebbe il caso di ricordare che in materia ci sono stati ben due referendum (nel 1987 e nel 2011) che hanno attestato la contrarietà degli italiani alla sua introduzione, senza citare il costo di costruzione delle centrali e della loro decommissione: lo smantellamento delle poche centrali nucleari italiane è oggi stimato dall’Agenzia dell’Onu per l’energia atomica intorno ai 7,2 miliardi di euro. Si tratta di una scelta contrastante anche con le proiezioni della citata e non certo radicale Iea, che per il 2050 riconosce come necessario solo un 8% di produzione di energia da fonte nucleare, relegandola ai soli paesi in via di sviluppo e imponendo all’occidente la sola, ed eventuale, sostituzione delle centrali esistenti. Inoltre è una fonte di energia che non ci darebbe la possibilità di diminuire il costo delle bollette: la stessa Francia ha un costo dell’energia elettrica che secondo Eurostat si attesta intorno ai 0.202€ per kWh simile a quello italiano (intorno ai 0.236€ per kWh). Questi sono dati del 2021 che vanno a oggi rivisti al rialzo in funzione dell’aumento del prezzo del gas e nel caso francese anche in virtù dei problemi di corrosione dei reattori nucleari, la cui produzione di energia negli ultimi 10 anni è passata da circa 421 TWh annuali a 305. La produzione elettrica dal nucleare non ci darebbe la possibilità di allontanarci dall’attuale modello di sviluppo perché è un tipo di produzione fortemente centralizzata e che cozza quindi con un’ideale democratizzazione della produzione energetica resa possibile dallo sviluppo delle energie rinnovabili. 

Rinnovabili e democrazia energetica  

Le energie rinnovabili non sono però una tecnologia neutrale. La loro ormai necessaria introduzione di massa rischia infatti di aprire a scenari in continuità con il modello estrattivista e centralizzato di produzione energetica da fonti fossili. È il caso della Sardegna, che secondo i dati Terna del 2017, quando la potenza installata rinnovabile era di 2.330 MW, non utilizzava il 40,8% dell’energia rinnovabile prodotta. A Marzo 2022 la potenza installata è aumentata a 2.807 MW e si stanno accumulando progetti di ulteriore espansione e di creazione di reti funzionali all’esportazione. Si tratta di soluzioni calate dall’alto che prescindono da qualunque coinvolgimento dei territori che dovranno ospitare gli impianti installati. Inoltre la lunga distanza che separa i centri di produzione dalle aree di utilizzo è causa di un evitabile aumento dei consumi dovuto a notevoli perdite lungo la rete, che secondo uno studio pubblicato su Nature Climate Change producono 1 Gton equivalente di CO2 ogni anno. Si evidenzia quindi come sia molto più efficiente e sostenibile l’autoproduzione dei singoli centri piuttosto che la produzione centralizzata e la trasmissione per lunghe distanze verso i centri rurali.

Proprio per la contezza di tali rischi e criticità la scelta politica più idonea a coniugare l’introduzione delle rinnovabili alla necessaria democratizzazione della produzione energetica è quella delle Cers (comunità energetiche rinnovabili solidali). Fridays For Future nella sua Agenda climatica prevede infatti la pianificazione di 8.000 di queste comunità energetiche per l’auto-produzione locale del 50% di energia elettrica, mediante la creazione di almeno una Cers per ogni comune nei prossimi 6 anni, con potenza media di 10 MW. Ciò indurrebbe, tra i vari benefici, un rafforzamento del tessuto sociale che avviene attraverso il passaggio da «consumer» a «prosumer» di ogni cittadino, nonché la creazione di molti posti di lavoro. Inoltre la vicinanza al territorio consumatore di quella energia, unita a un sistema di rete intelligente in grado di regolare la domanda in base alle esigenze degli utenti, provocherebbe anche una notevole riduzione dei consumi in eccesso. 

Il ritorno delle case popolari ed energia gratuita

Oltre alla questione legata alla produzione energetica, resta quasi completamente inevasa da parte dei programmi dei partiti la necessità di ridurre il consumo di energia, garantendo al contempo il diritto alla casa e l’accesso all’energia elettrica. Il solo settore edilizio in Italia è responsabile del 27% delle emissioni climalteranti e del 28% dei consumi. In quest’ottica risulta chiaro come, data anche l’età media del patrimonio edilizio del nostro paese, sarebbe necessario intervenire nel settore migliorando abbondantemente le prestazioni energetiche degli edifici. Il superbonus, citato dal M5S come misura testimone dei loro impegni per la transizione ecologica, resta ad oggi una misura temporanea e regressiva, che ha inciso, a fronte di una spesa di 38 miliardi di euro, sul solo 1% delle abitazioni unifamiliari e dei condomini. Tutto questo senza considerare che sul piano della transizione ecologica è stato uno strumento poco incisivo proprio perché per accedervi è richiesto il salto di sole 2 classi energetiche. La necessità di un intervento massiccio a favore delle classi popolari nel settore dell’edilizia si evidenzia leggendo i dati dell’osservatorio sulla povertà energetica (Oipe), che ha attestato come nella classe dimensionale delle abitazioni con una superficie fino a 70mq risieda il  41,6% delle famiglie in condizioni di povertà energetica. Inoltre, sempre nel report dell’Oipe, viene sottolineato come gli inquilini delle case popolari, di cui un terzo dispone di un reddito annuo inferiore ai 10mila euro, abbiano difficoltà a stare al passo con il costo delle bollette, impegnando spesso più del 10% del proprio reddito disponibile per i consumi energetici. 

Negli ultimi anni è inoltre esploso, secondo Nomisma, il numero di famiglie in disagio economico da locazione passando da 670.000 nel periodo 1993-2000 a circa 1.653.000 nel 2010-2014. L’Italia di fronte a questa situazione drammatica si trova ancora una volta impreparata: ha infatti un patrimonio di edilizia pubblica sul totale delle abitazioni particolarmente basso, uno scarno 4,5%, soprattutto se confrontato con gli standard degli altri stati europei (in Svezia 21%, in Francia 17%). Per queste ragioni Fridays For Future ha ribadito come una delle priorità dovrebbe essere un considerevole aumento del numero di case popolari, stimato secondo Edoardo Zanchini in almeno 500.000 alloggi da costruire entro il 2030, senza però incidere sul consumo di suolo e soprattutto abbandonando definitivamente la vecchia concezione italiana di un’edilizia residenziale pubblica fatta di grigi blocchi marginalizzati in aree periferiche. È fondamentale che l’edilizia pubblica residenziale diventi un laboratorio di innovazione sul piano architettonico ed energetico, rovesciando così definitivamente l’immaginario associato alle case popolari. Tornare a immaginare spazi che vengono vissuti, attraverso la pianificazione di aree verdi e di aggregazione, e non solo dormitori è una delle prerogative di una società che ambisce a essere veramente ecologista. Occorre investire fortemente nell’efficientamento delle case popolari, isolandole tutte entro il 2025 e riducendo  consequenzialmente il costo delle bollette, il cui peso, come più volte evidenziato, è insostenibile per la maggior parte degli inquilini. In questo modo è possibile coniugare le politiche per la transizione ecologica – si ridurrebbero di 5.5 TWh i consumi domestici – con l’abbattimento strutturale delle disuguaglianze. 

Purtroppo la campagna elettorale, egemonizzata dai partiti più grandi, a oggi non ha fatto emergere come tema caldo l’abbattimento delle disuguaglianze, al netto di qualche parola spesa (dal M5S, Unione Popolare e l’alleanza rosso-verde) in difesa del Reddito di Cittadinanza. In questo scenario l’inflazione continua a correre. L’Istat ha rilevato, in un report pubblicato ad Agosto, come il fenomeno inflattivo sia sostenuto dall’aumento dei prezzi dei beni di consumo. I beni energetici hanno registrato un aumento del 44,9%, mentre i beni alimentari del 10,5%. Chiaramente il tutto pesa di più per le classi a reddito basso e medio-basso che impegnano la maggior parte del proprio salario, compresi spesso i risparmi, per sostenere la domanda di beni di prima necessità. 

Unanimamente i partiti parlano di tetto al prezzo del gas, ma una vera proposta risolutiva e rivoluzionaria, ripresa anche dalla New Economics Foundation, sarebbe la creazione di un sistema di fornitura di energia gratuita per tutte le famiglie per coprire i bisogni primari, costruendo contemporaneamente degli scaglioni progressivi in virtù del consumo dell’energia «non necessaria». Una politica di questo tipo rovescerebbe l’attuale sistema regressivo, avallato dalle scelte del governo Renzi, che premia chi consuma più energia elettrica, non solo garantendo la sicurezza energetica a milioni di persone che oggi vivono in povertà energetica, ma anche ponendosi come obiettivo strutturale la riduzione dei consumi primari attraverso forme di efficientamento su larga scala. L’obiettivo, attraverso il ricorso al gettito fiscale per coprire i consumi primari, non sarebbe più infatti l’incremento artificiale dei consumi trainato dalla volontà di aumentare i profitti delle aziende energetiche, ma la riduzione attiva dei consumi di energia. 

Dove e a chi prendere i soldi?

Premesso che queste misure hanno un costo, in un contesto in cui da un lato domina una narrazione incentrata su sgravi fiscali, bonus e detassazioni varie, mentre dall’altro viene costantemente agitato lo spauracchio del debito pubblico, servirebbe una riforma del  sistema fiscale ispirata a una forte progressività.

Partendo dalla revisione delle aliquote Irpef, è importante evidenziare come negli ultimi trent’anni si siano progressivamente ridotte le aliquote, aumentando il carico fiscale sui redditi medio-bassi e riducendolo al contempo per i redditi più elevati. Il dibattito pubblico è ruotato attorno all’idea che riducendo le tasse ai redditi più alti sarebbero aumentati gli investimenti e così via anche i consumi delle classi popolari. Nulla di più falso e proprio per questo c’è bisogno di tornare a un sistema fiscale che preveda un aumento del carico fiscale sui redditi più elevati, arrivando a un’aliquota massima del 100% sui redditi superiori ai 300.000 euro, così da imporre un salario massimo, disincentivando l’accumulazione e iniziando a ragionare nell’ottica della limitazione dei sovraconsumi. L’aumento del gettito, grazie anche all’incremento delle aliquote per le rendite finanziarie, sarebbe pari a circa 4,5 miliardi di euro. 

Un altro settore del sistema fiscale su cui intervenire è quello dell’imposta sulle successioni, che per la scarsa entità delle aliquote (4-6-8%, con franchigia di un milione di euro per le successioni in linea diretta) rende l’Italia un paradiso fiscale per gli eredi dei grandi patrimoni. L’Agenda climatica di Fridays For Future riprende la proposta del Forum delle disuguaglianze delle diversità consistente in una «imposta sui vantaggi ricevuti» in grado di neutralizzare, tassandole, anche il potenziale elusivo delle donazioni ricevute durante la vita. Con un’area non tassata fino ai 500 mila euro (che disinnesca ogni obiezione che paventi un attacco confiscatorio al ceto medio) e 3 aliquote comprese fra il 5 e il 50% per importi superiori a 50 milioni, il totale di eredi tassati passerebbe dai 108 mila del 2016 a soli 10 mila. L’aumento del gettito stimato invece, tenendo conto delle molte variabili in gioco (valori catastali degli immobili, evasione o elusione fiscale etc.), sarebbe compreso fra 1,4 e 5,2 miliardi l’anno. 

Altro passaggio che riteniamo centrale per la progressività fiscale è l’introduzione di una imposta patrimoniale, necessaria in un paese come l’Italia in cui la percentuale di patrimonio detenuta dall’1% più ricco dei contribuenti è passata dal 16% del 1995 al 22% del 2016.

Nel contrastare una tale concentrazione di ricchezza con aliquote fino al 5% per i patrimoni superiori a un miliardo, secondo varie stime si produrrebbe un aumento del gettito di oltre 22 miliardi di euro. 

Di fronte alla crisi climatica ci stiamo accorgendo che se il sistema non rende possibile coniugare giustizia climatica e sociale è perché esso stesso va superato. Data quindi la cifra eversiva di tali proposte rispetto all’attuale sistema economico, misurabile anche dalla difficoltà di introdurle nel dibattito pubblico (basta pensare alla poco benevola accoglienza di non radicali tasse patrimoniali o di leggerissime imposte sulle successioni), è evidente la necessità di portarle avanti, oltre le urne dominate da una deprimente campagna elettorale, attraverso una recuperata conflittualità sociale (storicamente efficace, basti pensare alle lotte sindacali per il salario e i diritti sul lavoro). Per questo occorrerà una coalizione sociale sempre più ampia nell’autunno che ci attende. Tra bollette stracciate e utopie reali da costruire.

Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin il 15 settembre 2022

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