«Gli Italiani sono confusi» – dicono incessantemente politici, presentatori, commentatori, opinionisti. Gli Italiani sono confusi. C’è un oceano, in questa piccola frase, a pensarci bene. Potrebbe trattarsi di una delle manifestazioni di quel tanto diffuso dire per non dire nulla, o di quell’atteggiamento che pende ora verso un’amorevole premura per i cittadini, ora verso una sorta di malcelato paternalismo. Gli Italiani sono confusi. Questo mantra non è una novità portata dalla brezza della campagna elettorale, che pure lo ha certamente rifornito di nuova linfa vitale: lo sentivamo quando si parlava di pandemia, ci pioveva addosso quando si parlava della guerra in Ucraina, era perenne compagnia quando è caduto il Governo Draghi. In effetti, le “emergenze”, dato il carattere di urgenza e incertezza che le contraddistingue, si prestano particolarmente bene alla confusione; ma, forse, soprattutto si prestano bene all’arte di denominare come “confusione”, e passando inosservati, anche condizioni che con la confusione poco o nulla hanno a che fare. Ora, una cosa detta una volta può anche al limite essere tralasciata, ma la sua ripetizione dovrebbe far accendere l’ipotesi che essa non sia un gioco del caso.
Se ci pensiamo, sono vari gli effetti portati dal denominare l’altro come “confuso”. Potremmo dire, in generale, che definire un oggetto significa stabilire quali sono le sue caratteristiche salienti (o su cui si vuole portare l’attenzione), precisarle, delimitarle. E classificare. Questo ha in sé la potenzialità di porre chi denomina in uno status di superiorità o maggior “potere”, contemporaneamente collocando l’altro (il “denominato”) in una condizione in qualche modo di inferiorità. Questo è ancora più vero nel caso in cui l’operazione sia compiuta pubblicamente, senza interlocuzione e da parte di chi già si trova in una posizione di preminenza – condizione, questa, conferita ad esempio da un’assidua presenza sui mass media. Ma veniamo al caso specifico di cui ci stiamo occupando.
La confusione degli altri, o ad essi attribuita, porta il “vantaggio” di configurarsi come un comodo pertugio in cui alcuni possono inserirsi per spiegare “come stanno davvero le cose”, e di poterlo fare sullo sfondo di uno scopo che può vantarsi implicitamente di essere benevolo: se sei confuso, ti aiuto io a capire. Questo è potenzialmente diverso da quanto accade in una relazione in cui quella tra i partecipanti sia una differenza di conoscenze o competenze in un certo specifico ambito. In questo caso, infatti, c’è sì un’asimmetria nella distribuzione del “potere”, ma essa resta confinata in un’area ben precisa e identificabile, e la differenza è eventualmente colmabile. La confusione, invece, è qualcosa di sfumato e indistinto, il che le conferisce la qualità di poter “sfuggire” e restare tale anche se si cerca di contenerla: potrà sempre esserci qualcuno che potrà dire a un altro che non ha centrato davvero il problema o non ne ha individuato o collegato correttamente i termini. In questo caso, la chiarezza, rimedio alla confusione, non può venire dall’acquisizione di conoscenze, bensì grazie a qualcuno che trasmetta il proprio modo “giusto” di leggere le cose: ciò che è coinvolto nella confusione è la capacità di selezionare i giusti elementi del problema, connetterli correttamente e significare adeguatamente il tutto che ne risulta.
Vorrei proporre a questo punto un esempio che mi sembra indicativo. Nella trasmissione Piazza Pulita del 2 giugno scorso, Corrado Formigli ha intervistato Mario Calabresi, chiedendogli se fosse colpito dal fatto che nel Parlamento italiano ci sia il maggior numero di persone che guarda alla Russia come un interlocutore e non solo come un nemico. Il giornalista ha risposto di riscontrare ciò anche nella società e si è espresso come segue: «Secondo me è dato dal fatto che […] siccome lo scontro si è radicalizzato “Russia/America”, “Russia/NATO”… se tu in Italia dici “NATO” non scaldi il cuore a nessuno. […] Ci fosse stato un confronto che dicevi: “Stai con l’Europa e con la democrazia europea o con la Russia?”, io penso che sarebbero state molto più chiare le posizioni. Siccome è diventato “Russia o NATO” […] allora gli Italiani fanno un passo indietro» [https://www.la7.it/piazzapulita/rivedila7/piazzapulita-puntata-del-262022-03-06-2022-440911, trascrizione mia]. Sebbene in queste parole non ci sia il fatidico “gli Italiani sono confusi”, il significato – mi pare – è più o meno quello: gli Italiani sono trasportati da una generalizzazione non troppo pensata di un sentimento e non hanno capito bene i termini della faccenda. Dunque, si fanno un’idea sbagliata e si posizionano “male”. L’esempio evidenzia un’idea che mi pare molto diffusa tra chi alloggia frequentemente sui media: l’idea di dover porre le questioni in modo tale da far scivolare le persone verso questa o quella lettura delle cose. Pare che sia divenuto un po’ desueto praticare la distinzione tra dare informazioni, esprimere la propria opinione su qualcosa (e, fin qui, niente di male) e suggerire visioni, attraverso il linguaggio scelto. E all’accettabilità di un tal genere di suggerimenti ben si presta, appunto, la confusione. Il pertugio in cui inserirsi, magari mossi dalla sincera idea di una “missione da portatori di chiarezza” da compiere.
Torniamo ai frutti dell’albero della confusione. Interi palinsesti televisivi si reggono, anche, su questa definizione: in particolare durante le “emergenze” (tali o presunte, poco importa), lunghe file quotidiane di trasmissioni televisive, ciascuna della durata di svariate ore, sono in grado di autoalimentarsi con inviati che riferiscono con pari concitazione pressoché qualunque cosa e conduttori che chiedono ai loro invitati, con altrettanta eccitazione: «Che succede? Aiutiamo gli Italiani a capire cosa sta succedendo». Anche quando, con inequivocabile evidenza, non sta succedendo proprio nulla. Forse, trasmissioni in cui si discuta degli elementi per comprendere gli accadimenti affievolirebbero il senso di caos; proprio per questo, non gioverebbero però all’autoconservazione della specie della televisione basata sui talk show e di chi ci vive.
Da questo punto di vista, potremmo intendere la “confusione” dell’altro (dei cittadini, degli elettori, degli spettatori), come un mezzo ottimale per il mantenimento dello status quo. Se non ci fosse, si dovrebbe quasi inventarla. E, in effetti, ad essa può facilmente darsi vita, e si può incessantemente alimentarla. Pensiamo al putiferio dei dibattiti televisivi, in cui dicono la propria moltitudini di individui dai più svariati ambiti e livelli di competenza e in cui pareri informati si mescolano a opinioni di qualsiasi grado di strampaleria. Cosa sono le ubiquitarie baruffe mediatiche se non catene di svalutazione reciproca e continua dei loro protagonisti e, dunque, focolai di confusione? Ecco infranta la promessa sbandierata di chiarezza, il cui soddisfacimento resta perennemente annunciato dai prodotti mediatici, appena annusabile in essi ma mai pienamente realizzato. Il mantenimento del gioco è garantito. E, quando al bisogno di chiarezza così frustrato si sostituiscono il distacco emotivo e l’indifferenza, una nuova emergenza è di solito pronta a prendere il posto della precedente nel dibattito pubblico. Cosicché le emergenze, quelle reali e quelle presunte, finiscono tutte brutalmente in uno stesso calderone, in cui un nuovo ingrediente viene buttato ogni volta che il precedente ha visto sfumare il suo potenziale “attivante” nel convulso (e confuso) ribollire.
Come la “confusione” dei cittadini, reale o presunta (cioè denominata tale quando invece si tratta di altro), sia funzionale al mantenimento dello status quo appare evidente anche in politica, specialmente in tempi di campagna elettorale. Oltre a quanto delineato sopra, si possono in quest’area rintracciare anche altri potenziali effetti dell’etichetta della confusione ben appiccicata sui cittadini. È fin troppo facile immaginare che affermazioni tipo “gli Italiani sono confusi”, proferite dal politico di turno, possano prestarsi bene a sviare l’attenzione da se stesso e dalle proprie falle. E chissà, poi, se quella dei cittadini/elettori sia proprio e sempre confusione. Chissà che, invece, non si tratti di altro: rassegnazione, impotenza, sconcerto. O indignazione. Insomma, non è che non abbiano capito bene. Hanno capito benissimo e ciò che hanno capito li lascia attoniti e sdegnati.
Dovremmo chiederci che cosa accadrebbe se questo status di “indignato” venisse riconosciuto (e dunque, prima ancora, denominato). Se di fronte a elettori “confusi” il politico può porsi come colui che risponde al bisogno di chiarezza e che dunque bonariamente delucida e chiarisce (così riconfermando la sua posizione di maggior potere), di fronte a elettori indignati con lui (o con la classe cui appartiene) dovrebbe invece assumersi la responsabilità di tale indignazione e cambiare rotta. La confusione permette di restare placidamente in una comoda tana nel giardino degli slogan brevi e facili; l’indignazione costringerebbe a cambiare casa con un faticoso trasloco verso le impervie terre delle argomentazioni documentate e dell’etica. La confusione consente, ancora una volta, di mantenere lo status quo; l’indignazione implicherebbe, o dovrebbe implicare, un cambiamento. La posizione complementare a quella del confuso è quella del buon maestro che indica la via; l’esistenza di un indignato implica una posizione complementare del tutto differente e un’inversione dei rapporti di potere: è l’indignato ad avere, in qualche modo, più “potere” dell’altro, dal momento che lo pone nella condizione di colui che deve dare spiegazioni (nel senso di rendere conto) di ciò che pensa e dice e fa – non spiegare agli altri come loro dovrebbero pensare. Un’inversione non da poco, e certamente più gravosa del benevolente chiarimento elargito a un popolo confuso.
Questo articolo è stato pubblicato su Volere la luna l’8 settembre 2022. Foto in copertina, Alex Vàmos/Unsplash