Salario minimo e povertà

di Emanuele Menegatti /
8 Settembre 2022 /

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Il tema del lavoro povero – ossia quel lavoro remunerato talmente poco da non permettere di superare la soglia di povertà – è da tempo sotto la lente del dibattito politico, sindacale e scientifico. I dati ufficiali restituiscono, infatti, un quadro preoccupante, aggravato prima dalla grande recessione, poi dalla pandemia e ora di nuovo acutizzato dall’inflazione generata dalla guerra e dalla connessa crisi energetica.

Svariati sono i drivers della povertà lavorativa: tra questi, il numero insufficiente di ore lavorate e la composizione del nucleo familiare, ma anche protezione sociale e salari inadeguati. È proprio su quest’ultimo fattore che potrebbe intervenire una misura salariale minima stabilita dalla legge.

I meccanismi di regolazione dei minimi salariali corrispondono a schemi abbastanza variegati. Allargando lo sguardo ai Paesi dell’Unione europea esistono però alcuni pattern comuni. Nella maggior parte dei Paesi (21) è la legge che fissa il livello del salario minimo (il cosiddetto salario minimo legale), in misura identica per tutte le categorie di lavoratori, spesso su base oraria. In una minoranza (soltanto 6) è invece la contrattazione collettiva protagonista esclusiva della fissazione dei minimi, in misura diversa a seconda della categoria di lavoratori considerati (per esempio metalmeccanici, logistica, commercio). Tanto avviene con un importante distinguo: in alcuni casi, le retribuzioni stabilite dai contratti collettivi sono applicabili di diritto a tutti i lavoratori di una certa categoria, attraverso quello che si chiama meccanismo di estensione erga omnes (a favore di tutti i lavoratori) dell’efficacia del contratto collettivo; in altri, il vincolo generalizzato a tutti (o quasi) i lavoratori è creato indirettamente dalle prassi o regole dei sistemi di relazioni industriali.

L’Italia, pur essendo solitamente collocato tra questi ultimi Paesi, presenta in realtà un sistema di garanzia dei minimi salariali del tutto peculiare, unico nello scenario europeo e forse anche globale. In assenza tanto di un salario minimo di legge quanto di una contrattazione collettiva con efficacia vincolante per tutti i lavoratori, i minimi sono stati principalmente assicurati dall’intervento del giudice del lavoro. Nella pratica, a fronte del ricorso del lavoratore che chiedeva l’adeguamento di una retribuzione indecente, i giudici, già a partire dagli anni Cinquanta, hanno iniziato a condannare i datori di lavoro a retribuire i dipendenti sottopagati nella misura minima indicata dal contratto collettivo vigente per la categoria di riferimento. L’appiglio giuridico è stato rinvenuto nel diritto sancito dall’art. 36 della Costituzione a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto e sufficiente a garantire al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. In questo modo, il contratto collettivo di categoria è diventato il parametro di riferimento della retribuzione “costituzionalmente adeguata”, portando nel tempo i datori di lavoro verso una pressoché generalizzata “spontanea” applicazione dei contratti collettivi ai propri dipendenti.

Si è trattato di un’operazione che, per quanto non esente da limiti e critiche, come si è avuto occasione di evidenziare in altro scritto, all’atto pratico ha storicamente ben funzionato. Non fosse che in tempi abbastanza recenti sono emersi rilevanti problemi che ne hanno messo in dubbio l’efficacia.

Il riferimento è, in primo luogo, all’emersione di quelli che in gergo vengono chiamati contratti pirata. Si tratta di accordi collettivi stipulati da organizzazioni sindacali e datoriali scarsamente rappresentative, al chiaro fine di mettere a disposizione delle imprese condizioni retributive anche di molto inferiori rispetto a quelle negoziate da Cgil, Cisl e Uil. Un fenomeno che non trova ostacoli giuridici nel nostro sistema di pluralismo sindacale, dove la libertà di organizzazione e di azione contrattuale è, anche costituzionalmente, garantita a ogni organizzazione sindacale, a prescindere dalle sue dimensioni, con il solo limite dei sindacati costituiti e finanziati dai datori di lavoro (sindacati di comodo). Tanto che a fronte dell’applicazione di contratti collettivi pirata da parte del datore di lavoro non è consentito, neanche al giudice, sostituirli con quelli più vantaggiosi per i lavoratori, siglati dai sindacati più rappresentativi.

Non esistono dati precisi sulla reale applicazione degli accordi pirati. I dati Cnel non suggeriscono un quadro tanto rassicurante. Basti pensare che secondo l’ultima rilevazione (31 dicembre 2020) erano presenti nell’archivio dei contratti collettivi nazionali di lavoro ben 933 accordi, con un aumento del 170% negli ultimi dieci anni. Quanto alla loro copertura, sempre secondo le stime del Cnel, un numero molto ridotto di Ccnl (circa 60), vale a dire quelli siglati dai sindacati più rappresentativi, si applica al 89% di tutti i lavoratori dipendenti; mentre i restanti (quasi 800) risultano applicati all’11% della platea dei lavoratori subordinati. Non si tratta di numeri alti in assoluto, ma comunque significativi e in costante crescita.

Nel tempo si è, poi, dimostrata l’incapacità del meccanismo italiano di tutela dei minimi salariali a raggiungere aree di lavoro marginale e atipico, dove neanche il sindacato riesce ad arrivare e dove dovrebbe essere il singolo lavoratore, peraltro precariamente occupato, a esporsi individualmente per reclamare la retribuzione costituzionalmente adeguata. Si tratta spesso di lavoratori classificati come autonomi, che tuttavia dipendono economicamente da un solo committente.

Da ultimo, ma non meno importante, si pone la questione che coinvolge il merito delle contrattazioni collettive salariali. Come riportato in apertura, i dati certificano dal 2008 una costante e ininterrotta crescita della povertà lavorativa in Italia. Dati che testimoniano un’oggettiva difficoltà della contrattazione collettiva a sostenere la dinamica salariale.

Non sorprende, dunque, che il dibattito circa l’opportunità di un salario minimo di legge, sopito ormai da tempo, abbia ripreso vita. Si tratterebbe di una misura che, coinvolgendo opportunamente anche i lavoratori autonomi, potrebbe fornire un’adeguata soluzione a tutti i problemi sopra evidenziati.

Una legge sul salario minimo sconta, tuttavia, una forte opposizione, soprattutto da parte sindacale. L’argomento messo tradizionalmente in campo in tutti i Paesi europei in cui non esiste un salario minimo legale, Italia inclusa, è quello che denuncia un pericolo di svuotamento dell’azione contrattuale, accompagnato da un sostanziale impoverimento dei lavoratori. Più̀ nel dettaglio, il ragionamento contestualizzato nel sistema italiano parte dall’idea che qualora il legislatore prevedesse un salario minimo, questo diventerebbe per il giudice il nuovo riferimento obbligato della retribuzione “costituzionalmente adeguata”. A fronte, pertanto, delle richieste avanzate dai lavoratori, i giudici lo applicherebbero in luogo del salario assai plausibilmente più alto previsto dai contratti collettivi. In questo modo, il datore di lavoro potrebbe cessare di applicare i contratti collettivi, garantendo semplicemente al lavoratore il salario minimo di legge. Tanto metterebbe immediatamente in pericolo l’applicazione pressoché generalizzata dei contratti collettivi presente a oggi in Italia e dei minimi di retribuzione qui previsti.

Si tratta, come si è argomentato, di timori probabilmente eccessivi. In ogni caso, hanno fin qui se non paralizzato, sicuramente contribuito a rallentare l’approvazione di un noto disegno di legge presentato durante l’uscente legislatura. Si tratta della proposta presentata per la prima volta nel luglio 2018, poi rivista nell’aprile 2021, dal Movimento 5 Stelle, che vede come prima firmataria l’ex ministra del Lavoro Nunzia Catalfo.

Per quanto la fine anticipata della legislatura sia inevitabilmente destinata a vanificare le prospettive di approvazione del menzionato disegno di legge, una spinta verso una legge sul salario minimo potrebbe giungere, come già scritto, dalla trasposizione della direttiva su salari adeguati nell’Unione, ormai in fase di approvazione finale.

Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista Il Mulino il 30 agosto 2022

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