La legge sul salario minimo è una misura necessaria

di Anita Marafioti /
24 Marzo 2023 /

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Alcune note su salario minimo a partire dalla presa d’atto che la contrattazione collettiva non ci basta più. Per questo serve una misura universale

Serve una legge sul salario minimo che è cosa diversa dal salario minimo legale perché solo il salario minimo legale o solo la contrattazione non bastano a garantire il miglioramento auspicato delle condizioni salariali dei lavoratori e delle lavoratrici. Non si deve scegliere fra uno strumento o l’altro ma renderli complementari. 

Se la questione è apparsa – con imperdonabile ritardo – nei discorsi del Pd a guida Elly Schlein, certo non si può dire lo stesso per la presidente del consiglio. Giorgia Meloni è intervenuta in risposta all’interrogazione parlamentare del 15 marzo promossa dalla neo segretaria e, sebbene abbia enfatizzato nell’incipit di avere a cuore la condizione salariale dei lavoratori, esclude categoricamente che l’attuale governo fissi un salario minimo legale ritenendo che sia sufficiente la disciplina salariale prevista dalla contrattazione collettiva. 

La principale argomentazione a difesa di questa posizione, che a onor di cronaca è stata a vario titolo sostenuta da molti prima di questo governo, anche nel centrosinistra, e che rappresenta anche l’approccio maggioritario delle organizzazioni sindacali eccezion fatta per la Cgil, ha due origini. La prima è storica: in Italia la materia salariale è stata regolata dalle parti sociali. La seconda è pratica, poiché  la contrattazione collettiva ha un’elevata copertura dei contratti di lavoro. Ma se è vero che i contratti collettivi prevedono già minimi salariali, è altrettanto vero che sostenere che ciò sia sufficiente a proteggere dalla povertà lavoratori e lavoratrici è intellettualmente disonesto, almeno per tre motivi.

Innanzitutto sono i dati a dirci che la contrattazione collettiva non basta più: ci sono almeno tre milioni di lavoratori e lavoratrici che vivono sotto la soglia di povertà. Inoltre è ben noto che la proliferazione di forme precarie quali parasubordinazione, falsi autonomi, tirocinanti, lavoratori occasionali con voucher abbia aumentato la platea di lavoratori non subordinati e quindi non assoggettati alla contrattazione collettiva; infine, gli stessi contratti collettivi, soprattutto quando sono stipulati da organizzazioni sindacali poco rappresentative, prevedono soglie retributive (volutamente) troppo basse proprio al fine di ridurre il costo del lavoro nella filiera produttiva (i cosiddetti contratti pirata). A ciò si aggiunga che ormai gli stessi contratti sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative in taluni settori, quali i servizi fiduciari o il multiservizi, prevedono anch’essi soglie troppo basse; categorie che presto saranno raggiunte da altre che si sono fortemente indebolite, come quelle del commercio e terziario, se non si interviene con un’inversione di rotta.

Ma quando parliamo di minimo retributivo insufficiente, cosa intendiamo? La Costituzione fissa un parametro generale all’art. 36 che prevede che il lavoratore abbia diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa e quindi tutti quei valori che non soddisfino tali parametri sono da considerarsi illegittimi, e giuridicamente incostituzionali. Persino la giurisprudenza del lavoro, però, che ha sempre tradotto i parametri costituzionali in cifre riferendosi ai minimi numerici fissati dai contratti collettivi, ha già dichiarato incostituzionali i minimi di taluni contratti, come quelli succitati, perché inferiori ai parametri dell’art. 36. 

Tale allarme salariale, quando il Pd stesso si limitava a promuovere la mera estensione della contrattazione collettiva dei sindacati più rappresentativi, è stato lanciato da tempo da organizzazioni delle società civile che hanno cercato sin da subito di inquadrare correttamente il fenomeno del lavoro povero proponendo come misura di contrasto appunto l’estensione dei Contratti collettivi nazionali, a tutti i rapporti di lavoro, e non solo l’estensione della contrattazione collettiva a quei settori regolati dalla contrattazione cosiddetta pirata, sia l’introduzione di una soglia numerica sostitutiva dei minimi troppo bassi.

Chiarire la differenza tra il salario minimo legale e una legge sul salario minimo è, quindi, fondamentale per uscire dall’equivoco creato dal governo che sostiene che il salario minimo porterebbe ad annichilire la contrattazione. I due strumenti, invece, pur condividendo la stessa natura giuridica di legge dello stato differiscono per contenuti e obiettivi. Quando parliamo di legge sul salario minimo intendiamo una legge che sia complementare alla contrattazione e non sostitutiva laddove 1) obblighi a estendere a tutti i rapporti di lavoro, anche non subordinato, i minimi retributivi dei contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative a livello nazionale e che, 2) nel caso in cui questi contratti prevedano minimi non sufficienti e proporzionati, fissi una soglia, costituzionalmente congrua e indicizzabile, che sostituisca quei minimi troppo bassi.

Nemmeno la stessa direttiva dell’Unione europea del 19 ottobre 202200 citata dalla premier, evidentemente mal compresa, potrebbe giustificare questa impostazione passiva del Governo in materia salariale: la direttiva, infatti, ci dice che l’obiettivo urgente degli stati membri è quello di innalzare i salari; vero che tale obiettivo può essere raggiunto rispettando la specificità di ciascun sistema nazionale, e quindi anche attraverso un sistema basato sulla contrattazione collettiva, ma il governo dovrebbe pur sempre garantire di agire per attuare lo scopo espresso dalla direttiva che impone di applicare «misure di prevenzione alla povertà lavorativa attraverso un intervento mirato e specifico di regolazione dei salari». Ma così ha affermato di non voler intervenire. 

Abbiamo, invece, bisogno con urgenza di una riforma universale, applicabile a qualsiasi settore merceologico in modo tale che anche in quei contesti a bassa regolarizzazione dei rapporti di lavoro, con una rilevante presenza di lavoro informale e precario, si possa verificare – con l’obbligo di legge – un progressivo innalzamento delle soglie retributive e favorire un miglioramento di tutti i trattamenti salariali verso l’alto. L’introduzione di un vincolo salariale che copra non solo i rapporti di lavoro subordinato, ma qualsiasi rapporto di lavoro, infatti, renderebbe via via meno convenienti le forme di parasubordinazione e/o atipiche e ciò porterebbe ad aumentare le assunzioni stabili e abbattere il precariato.

Questo articolo è stato pubblicato sui Jacobin il 20 marzo 2023

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