Si sono susseguiti innumerevoli rapporti sull’uccisione della giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh, avvenuta l’11 maggio nel campo profughi di Jenin, nei Territori Palestinesi Occupati. Dicono tutti la stessa cosa: un soldato israeliano da un’autocolonna che si trovava a circa 650 metri di distanza le ha sparato con un fucile. Molti di questi dati si basano su reperti balistici peritali.
Un rapporto del 21 luglio di B’Tselem, l’organizzazione israeliana per i diritti umani, non fa altro che confermare quanto detto da tutti gli altri, ma questa volta enfatizzando la testimonianza oculare di tre palestinesi che si trovavano sulla scena, tra cui l’uomo coraggioso che ha cercato di salvare la vita di Abu Akleh, uscendo di corsa tra i colpi di arma da fuoco e trascinandola dietro un albero, e che ha agito anche per salvare la vita della giornalista Shatha Hanaysha.
Che il nome di Sharif al-‘Azab sia conosciuto ovunque! Non si può leggere la sua storia senza meravigliarsi della sua nobiltà e del suo eroismo. B’Tselem afferma che gli israeliani hanno continuato a sparare contro al-‘Azab, mentre lui cercava di salvare delle vite.
Dalla straordinaria testimonianza di al-‘Azab a B’Tselem:
Una giornalista era vicino al muro, nascosta dietro un carrubo, e qualcuno era sdraiato a faccia in giù sul terreno accanto a lei. Ho scavalcato il muro e sono sceso, nonostante i continui spari contro di noi. Ho cercato di sollevare la donna che giaceva a terra. Quando le ho tolto il casco, ho capito che si trattava della famosa giornalista Shireen Abu Akleh. La sua testa e i suoi capelli erano coperti di sangue e non si muoveva. Ho deciso di aiutare la giornalista, che era aggrappata al tronco dell’albero in preda al panico, e di portarla via da lì. L’ho condotta fino al bordo del muro, in modo che potesse scavalcarlo e uscire dal raggio d’azione degli spari.
Sono tornato indietro per prendere Shireen Abu Akleh. Sono riuscito a trasportarla per alcuni metri, in modo che il tronco del carrubo fosse tra noi e gli spari dei soldati. Altri giovani che si trovavano lì mi hanno aiutato a trasportarla fino a un’auto privata che l’ha portata all’ospedale Ibn Sina.
Israele ha ovviamente rifiutato di assumersi qualsiasi responsabilità nella vicenda, ma ha ripetutamente cercato di offuscare il caso, pur sapendo cosa è successo. Il rapporto di B’Tselem sull’omicidio sottolinea il cambiamento di narrativa di Israele e la sua storia di impunità in questi casi.
Il rapporto di B’Tselem manda all’aria anche l’insabbiamento americano dell’omicidio: un’indagine sommaria degli Stati Uniti ha rilevato che si è trattato di un caso tragico e che non c’era l’intenzione di uccidere Abu Akleh. Questi risultati sono “avulsi dalla realtà”, afferma B’Tselem:
Attribuire la morte di Abu Akleh e il ferimento del [suo collega di Al Jazeera Ali] Samudi a “circostanze tragiche” è fuori dalla realtà ed è contraddetto dal filmato. Gli spari che si sentono nel filmato consistono in due raffiche mirate. Un proiettile della prima raffica di sei spari ha colpito Samudi; a quel punto i giornalisti sono fuggiti. Un proiettile della seconda raffica di sette colpi ha colpito Abu Akleh mentre cercava di mettersi al riparo. Altri tre colpi sono stati poi sparati contro un giovane che ha cercato di portarla via mentre giaceva ferita a terra. Sparare a ripetizione direttamente su civili disarmati, la maggior parte dei quali erano vistosamente contrassegnati come giornalisti, non può essere considerato una “circostanza tragica”.
In terzo luogo, sebbene la dichiarazione degli Stati Uniti abbia ammesso che lo sparo contro Abu Akleh è stato probabilmente fatto da un soldato, ha aggiunto che l’uccisione non è stata “intenzionale”. Il fatto che Abu Akleh sia stata uccisa intenzionalmente o meno non è l’unica questione, poiché la mancanza di intenzionalità non garantisce di essere esonerati da ogni responsabilità. Una domanda pertinente è se sia stato fatto un reale sforzo per evitare vittime civili durante un’operazione militare israeliana pianificata in anticipo, condotta in pieno giorno da forze militari fortemente protette. Israele, da parte sua, non ha fatto certamente alcuno sforzo in tal senso. Per anni, ha attuato una politica illegale di apertura del fuoco in Cisgiordania, che consente l’uso di spari letali in circostanze che non mettono in pericolo la vita. Quando i Palestinesi vengono uccisi, Israele si astiene dal prendere provvedimenti contro le persone coinvolte, permettendo così che questi casi si ripetano. Sebbene tutti i funzionari che approvano questa politica – compresi gli ufficiali militari di alto livello e i procuratori – siano ben consapevoli del risultato, essa rimane invariata.
B’Tselem fa poi saltare la determinazione israeliana secondo cui “i fatti del caso rimarrebbero sconosciuti”. Sì, Israele ha imbiancato centinaia di casi come questo in passato.
Centinaia di indagini fallite condotte dalle forze dell’ordine militari nel corso degli anni indicano che Israele non ha alcun desiderio di scoprire la verità – in questo caso, come in altri. L’affermazione delle difficoltà di indagine è falsa e la promessa del Capo di Stato Maggiore di continuare a indagare “con l’impegno di trasparenza e di rivelare la verità dell’incidente, utilizzando tutti gli strumenti a disposizione dell’IDF” è avulsa dalla realtà. Il sistema investigativo israeliano è orientato al whitewashing. Tutto ciò che ci si può aspettare è che Israele completi come ritiene opportuno il processo di copertura che ha iniziato. Non c’è mai stata, né ci sarà, trasparenza. L’inchiesta e l’indagine (se avviata) serviranno a coprire l’incidente, e gli atti di violenza contro i Palestinesi continueranno senza ostacoli.
Si deve tener presente che Joe Biden, durante il suo viaggio in Israele dieci giorni fa, ha accettato l’insabbiamento israeliano non sollevando con gli israeliani il problema dell’uccisione di una giornalista americana – anche se si dice che abbia affrontato il Principe ereditario saudita per l’uccisione di Jamal Khashoggi. No, Biden ha tirato in ballo Abu Akleh solo durante la sua conferenza stampa con Mahmoud Abbas, storpiando il suo nome e pronunziando qualche ovvietà. Il comportamento americano in questo caso è devastante.
Il caso non sparirà dalla scena. Venerdì scorso, uno studente del secondo anno della Medill School of Journalism in Illinois ha ricevuto un premio di 4000 dollari per il suo saggio che criticava la copertura mediatica statunitense dell’uccisione di Abu Akleh. “Ho trovato il reportage su di lei inferiore alla media e pieno di mezze verità e pregiudizi”, ha detto Joshua Gregory nell’accettare il premio. Ha scritto tra l’altro:
“Come persona che sta conseguendo una laurea in giornalismo, la prospettiva che uno dei miei colleghi venga ucciso da un governo mentre è alla ricerca della verità è preoccupante… Ma l’idea che la sua morte sia soggetta ai pregiudizi di altri giornalisti è un terribile schiaffo in faccia.”
Gli americani hanno a cuore l’uccisione di Shireen Abu Akleh. Il caso non scomparirà finché non verrà data risposta a queste richieste di responsabilità. Ebbene sì, potrebbe volerci molto tempo. The Intercept ha pubblicato un bel pezzo che mostra come vanno queste cose, ovvero che il nostro governo ha segretamente solidarizzato con la famiglia di Rachel Corrie, la coraggiosa martire di Rafah nel 2003, ma non ha mosso un dito pubblicamente.
Questo articolo è stato tradotto e pubblicato in italiano da AssoPacePalestina