Le guerre portano al dunque, si sa. E quest’ultima non poteva essere da meno. I beni di prima necessità che scarseggiano, che non circolano, che divengono quindi oggetto del contendere, sembrano essere, seguendo in queste settimane i media vecchi e nuovi, soprattutto due: il grano e il gas. Come dire: massa ed energia. Più basic di così.
Facile giocare alla relatività, sapendolo fare. Così come è stato facile lanciare accorate filippiche sull’importanza civile e sociale del metano, agitando gli spettri delle strade prive di illuminazione, degli appartamenti gelidi, delle auto in garage, delle catene di montaggio in disuso. Come anche, altro volet della questione, non è mancato chi, giustamente, ha ricordato che in queste terribili situazioni belliche l’energia non è un dato di fatto ma un problema da fronteggiare: quale energia? e per fare che? A partire da quale immagine di società che ci piace sostenere, in cui vorremo vivere, noi e i nostri figli?
Del grano s’è detto meno, forse perché considerato ovvio, nel suo essere inteso un alimento di base, una merce naturale e necessaria, nient’altro che una commodity: facendolo diventare banale benzina per il corpo, carburante che produce energia somatica. Riducendolo insomma al gas di cui sopra.
Ma le tonnellate e tonnellate di grano accatastate da mesi nei silos di Odessa, se potessero parlare, spiegherebbero che le cose sono un po’ più complicate di così, un po’ più umane, più coinvolgenti, antropologicamente assai più rilevanti. Stipati fino all’inverosimile, schiacciati l’uno sull’altro a miliardi di miliardi dentro questi magazzini immensi, i chicchi del grano delle steppe sono adesso senza più patria e famiglia, senza identità, senza differenze. Quel che conta, in questi mesi, sempre seguendo la voce dominante dei media, sembra essere soltanto la quantità, il peso, il volume: nient’altro. Ciò di cui si lamenta l’assenza è la massa del frumento, appunto, non la sua fisionomia, meno che mai il suo valore simbolico.
Eppure fino a pochi mesi fa il dibattito sui grani era molto acceso: si discuteva di qualità e di tipologie, di giganteschi sistemi di stoccaggio e di semi antichi, di recupero delle colture locali, come anche di varietà di pani, di diverse forme di lievitazione, di sperimentazioni tecnologiche e di tradizioni contadine da riattivare. Nel dibattito sull’alimentazione contemporanea, o se si vuole sul food come linguaggio più ancora che come propellente, in quella che nel bene o nel male dobbiamo continuare a chiamare gastromania la figura del fornaio aveva un posto di tutto rilievo. C’è pure una rivista assai chic, distribuita in Italia con parsimonia da marketing raffinato, che si chiama “L’integrale”, dove lo sguardo pornografico sugli alveoli della mollica è praticato e al tempo stesso sottoposto a critica feroce.
In un libro straordinario degli anni Quaranta del Novecento recentemente ristampato (se ne è parlato qui), lo scrittore tedesco Heinrich Eduard Jacob ricostruisce la storia di ben Seimila anni di pane. E racconta di tutto, mostrando assai bene i molteplici nessi, spesso sovrapposizioni e traduzioni, fra sacro e profano, economia e società, alimentazione e cultura, politica e scienza che la complessa lavorazione del grano ha instaurato nella storia occidentale, andando dall’invenzione dell’aratro a quella del forno, dalla scoperta dell’agricoltura a quella del sudore della fronte, dall’uso del pane come moneta presso gli Egizi al culto greco di Demetra, dal panem et circenses dei romani al pane corpo eucaristico della cristianità, dai monaci-mugnai medievali alle jacqueries trecentesche (tutte al grido le pain se lève), giù giù sino alle grandi rivoluzioni – l’americana, la francese, la russa – che in nome del frumento e dei suoi prodotti sono state condotte, per giungere alle orride pagnotte piene di segatura nei campi di sterminio nazisti.
Come dire che il grano è sempre stato tutt’altro che pura massa materica nutritiva, perché a partire da esso (cereale ‘domestico’ già dalla preistoria) e dalla sua complessa trasformazione in pane (coltivazione, trebbiatura, lievitazione, cottura…) le società umane hanno rivendicato il loro essere prima di tutto civiltà, costruzioni simboliche che orgogliosamente si insinuano fra la indiscussa superiorità degli dèi e la problematica inferiorità degli animali. Fare il pane è sempre stata un’arte, in tutti i sensi del termine, compreso quello della plastica scultorea.
La letteratura sul grano è ricchissima, e non poteva essere altrimenti, perché si occupa di tutto ciò che ha a che fare con l’umanità stessa e le sue varie formazioni antropologiche. Basti pensare a quel capolavoro che è Il pane selvaggio di Piero Camporesi (1980), dettagliata ricostruzione dei modi in cui il pane guasto dei contadini ultraindigenti del XVII secolo finiva per diventare involontaria droga campestre. Oppure a Pane nostro di Pedrag Matvejevic (2009), che già dal doppio gioco di parole del titolo segnala, da un lato, il valore fortemente religioso del frumento e, dall’altro, la centralità del Mediterraneo per la sua lunghissima storia. “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”, invoca del resto la preghiera per antonomasia al Dio cristiano. Che da lassù, possiamo immaginarlo, guarda ai silos di Odessa con somma tristezza. Che ci avrebbe creato a fare?
Questo articolo è stato pubblicato su Doppiozero il 6 luglio 2022