Effetti devastanti dalla crisi Ucraina. Il passaggio dal gas russo a quello liquefatto implica un aumento delle emissioni e quindi una inversione del processo verso la progressiva decarbonizzazione. Metano per il fertilizzante azotato, da cui il mais per i bovini che emettono metano. Inoltre azoto e ossigeno nei terreni producono gas serra 300 volte più forte della CO2
La guerra in Ucraina mette a nudo intrecci nascosti. Uno è quello che lega gas russo, cereali russi, ucraini e fertilizzanti azotati russi.
Il motivo per cui la Russia è un importante fornitore di fertilizzanti azotati dipende dal fatto che questi si fanno sintetizzando l’azoto atmosferico e l’idrogeno, prodotto col metano ed emettendo CO2.
Il gas costa poco ai russi, e quindi poco costa il loro fertilizzante. Per questo lo compriamo noi, e lo comprano gli ucraini per produrre i loro cereali. Costa molto però al cambiamento climatico perché il processo di produzione causa immissioni di gas serra in atmosfera.
La ridotta disponibilità di cereali, in particolare del mais, causata dalla guerra, è un bel problema per l’Italia: dall’Ucraina importiamo il 50% del mais che consumiamo. Che ci serve, non per fare la polenta ma per gli animali, per gli allevamenti intensivi di bovini, soprattutto. Allevamenti che, ironia della sorte, sono grandi produttori di metano che, però, non alimenta le nostre caldaie ma finisce in atmosfera, ed è un gas serra che contribuisce pesantemente al riscaldamento globale, perché è circa 30 volte più potente della CO2. Ed ecco il primo circolo vizioso: metano fossile-fertilizzante azotato-produzione mais-bovini-emissioni metano.
In tutte le fasi si contribuisce al cambiamento climatico, non solo nella produzione del fertilizzante mediante il metano, ma anche nella produzione di mais, perché parte dell’azoto dei fertilizzanti sparso nei terreni si combina con l’ossigeno atmosferico e produce protossido di azoto, un gas serra quasi 300 volte più potente della CO2. Tutto per non rinunciare a una bistecca al giorno, o a un hamburger, che fanno pure male alla salute, perché causano un aumento del rischio di tumore al colon e di malattie cardiovascolari.
E non bisogna dimenticare che altro mais per alimentare bestiame lo produciamo in Italia, e per produrlo abbiamo bisogno di fertilizzanti, parte dei quali prodotti in Russia.
Si scopre allora che si possono prendere due piccioni con una fava, se non subito almeno nel breve-medio termine: attenuare o eliminare la dipendenza da forniture che possono sempre entrare in crisi, per le ragioni più diverse, e ridurre le emissioni di gas serra.
Basta ridurre il numero di animali allevati, con il vantaggio di liberare, in Italia, parte di quella superficie agricola oggi destinata alla produzione di mangimi per convertirla alla produzione di cibo per alimentazione umana, aumentando la nostra sicurezza alimentare. E i piccioni che così si prendono diventano tre.
L’altro intreccio che la guerra sta mettendo a nudo riguarda la corsa affannosa alla sostituzione del gas russo con gas proveniente da altri paesi, utilizzando navi metaniere e costruendo o noleggiando nuovi rigassificatori.
Gli Usa si sono impegnati a fornire gas naturale liquefatto (Gnl) in grande quantità. Altro gas verrebbe da altri fornitori. Problema risolto, quindi? Non proprio, e per diverse ragioni, al di là del fatto che si passerebbe da una dipendenza a un’altra.
La prima è che, rispetto al gas in condotta, la produzione di Gnl genera livelli più alti di emissioni di CO2. Liquefarlo richiede energia e quindi emissioni di CO2, trasportarlo con navi comporta emissioni, e infine bisogna ri-gassificarlo, altra energia ed emissioni. Risultato: il passaggio dal gas russo a quello di altra provenienza liquefatto implica un aumento delle emissioni e quindi una inversione del processo verso la decarbonizzazione.
Ma c’è dell’altro, in particolare con il gas proveniente dagli Usa: le emissioni fuggitive dai giacimenti, che risultano essere fino a sei volte superiori rispetto a quelle denunciate dai produttori. E naturalmente poi ci sono le perdite lungo le condotte che vanno dal giacimento all’impianto di liquefazione.
Insomma, più gas si estrae per darlo all’Italia e all’Europa, più metano finisce in atmosfera.
Infine, c’è la seria preoccupazione che, se si costruiscono tutte le nuove infrastrutture occorrenti per sostituire il gas russo, queste saranno utilizzate per molto tempo (bisogna che l’investimento ritorni), mantenendo in vita l’uso del metano più a lungo del previsto, rendendo impossibile raggiungere l’obiettivo zero emissioni nette nel 2050.
“Sono molto preoccupato che i nostri obiettivi climatici possano essere un’altra vittima dell’aggressione della Russia”, ha detto Fatih Birol, il capo dell’Agenzia Internazionale dell’Energia.
C’è un terzo intreccio, che lega cereali, cambiamento climatico e sicurezza alimentare dei paesi più poveri.
Ucraina e Russia contribuiscono a quasi un terzo delle esportazioni globali di grano e un quinto di quelle di mais. La maggior parte del resto proviene da poche altre aree specializzate nella produzione di cereali, da cui dipendono in gran parte i paesi in via di sviluppo, miliardi di persone.
Non è improbabile che a causa del cambiamento climatico si verifichi una contemporanea forte riduzione della produzione in queste aree, e sarebbe una catastrofe globale. Altre guerre per accaparrarsi le poche risorse alimentari locali disponibili e imponenti migrazioni.
Stiamo vivendo la prova generale, e solo in piccola scala, di quello che sempre più probabilmente avverrà se abbandoniamo la via della decarbonizzazione e della protezione dell’ambiente. Per questa ragione non dobbiamo abbassare la guardia e vanno denunciate le posizioni come quelle del presidente della Confindustria Bonomi che chiede di “riscrivere il Pnrr e spostare gli obiettivi della transizione ecologica”, del partito Fratelli d’Italia sulla revisione delle strategie climatiche dell’Ue, e del governatore della Banca d’Italia Visco secondo il quale “potrebbe essere necessario discostarsi, temporaneamente, dal sentiero di decarbonizzazione intrapreso”.
Al contrario, è il momento di spingere sempre di più verso la transizione ecologica che, per la sua stessa natura globale, si fonda sulla cooperazione e quindi sulla pace globale.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 30 marzo 2022