E’ giudizio ampiamente condiviso dagli studiosi, dagli opinionisti e dalla pubblica opinione che la pandemia ha evidenziato i macroscopici limiti del regionalismo italiano, al punto da richiedere una immediata revisione delle competenze attribuite, in particolare in campo sanitario. Eppure il governo Draghi riapre la possibilità di concedere alle regioni addirittura maggiori poteri come se nulla fosse successo in questi due anni e mezzo e come se i fatti non avessero smentito la prosopopea efficientista dei loro presidenti.
Dunque, nonostante i palesi fallimenti in materia sanitaria evidenziatisi durante il Covid (e non solo nelle regioni meridionali) è ripreso l’iter parlamentare della cosiddetta “Autonomia differenziata”, cioè l’assegnazione di ulteriori funzioni (sanità, istruzione, turismo, ecc.) alle regioni che lo hanno richiesto o lo richiederanno. In suo recente libro (Ragioniamoci sopra. Dalla pandemia all’autonomia) ne aveva già scritto con enfasi Luca Zaia, presidente del Veneto, chiedendo di premiare le regioni uscite trionfanti (secondo lui) da questa fase storica dominata dal Covid. E gli hanno fatto eco gli altri presidenti, a partire da quelli della Lombardia e dell’Emilia-Romagna, e in ultimo anche della Toscana. Quanta mistificazione sulla pelle delle vittime!
E’ un paradosso della politica italiana che ciò avvenga nel momento di minore consenso del regionalismo e del suo più evidente insuccesso, , mentre i comuni italiani restano afflitti dai loro problemi di scarse risorse e di organici ridotti. Insomma in Italia le regioni sono ricche e i Comuni poveri.
Non si vuole prendere atto che le regioni, immaginate come soluzione di storici problemi della nazione, rappresentano oggi la più forte incrinatura del sentimento nazionale; sbandierate come una possibile soluzione di secolari squilibri territoriali, hanno invece prodotto una potente accelerazione del divario tra Centro-Nord e Sud; profetizzate come antidoto al notabilato e al centralismo statuale, al contrario hanno dato vita a un nuovo notabilato e a un’originale forma di “centralismo territorializzato”. Una così radicale eterogenesi dei fini non è riscontrabile in nessun’altra riforma strutturale che ha interessato la vita istituzionale del nostro paese dal secondo dopoguerra in poi.
L’Italia, come è noto, non è affatto uno Stato federale, eppure durante tutta la gestione della pandemia ci si è comportati come se lo fosse, affidando alle regioni funzioni mai assegnate nel passato. Venti differenti sistemi sanitari (quanti sono le regioni) non hanno migliorano affatto il godimento del diritto costituzionale alla cura al di là del reddito e del luogo dove si risiede. E’ dalla nascita delle regioni, infatti, e ancora di più da quando ad esse sono state affidate competenze quasi esclusive in materia sanitaria, che il Sud ha visto affiancarsi all’emigrazione per lavoro anche quella per la cura delle malattie più invalidanti e mortali. L’autonomia in materia sanitaria è stata un disastro per le popolazioni meridionali e un affare per le strutture centro-settentrionali. Le disuguaglianze nel fare fronte ai problemi di salute si sono affiancate a quelle economiche. E’ forse questo il dato più clamoroso che smentisce non solo la propaganda di alcuni presidenti meridionali sulla qualità del sistema sanitario nel loro territorio (non c’è affermazione più ridicola e offensiva sul livello “da sanità svedese” raggiunta dagli ospedali campani proclamata dal presidente De Luca) ma anche le rassicurazioni dei presidenti del Centro-Nord sull’impatto non negativo sul Sud dell’autonomia differenziata. Ed è ancora più assurda la richiesta di competenze in materia di istruzione, proprio alla luce del fatto che negli ultimi decenni all’emigrazione lavorativa e sanitaria si è aggiunta quella universitaria, con quasi il 25% di studenti che vanno a completare i loro studi negli atenei del Centro-Nord mentre sono diminuite le risorse a disposizione delle università meridionali, come ha ampiamente dimostrato in un suo libro Gianfranco Viesti.
La ripresa dell’iter parlamentare sul regionalismo differenziato è sì un’iniziativa della Gelmini ma ha dietro la spinta dei “governatori” leghisti e una subordinazione ad essi di quelli del Pd. Draghi si prefigge lo scopo di fare sponda al mondo leghista in dissenso da Salvini anche a prezzo di dare un ulteriore colpo al Sud mentre con il Pnrr sostiene di riservare una quota consistente di risorse ad esso. Sembra quasi un baratto: il 40% di risorse al meridione e l’autonomia differenziata al Centro-Nord. Uno scambio nefasto di cui pagheremo le conseguenze nei prossimi decenni. A meno che non venga una risposta adeguata da parte delle forze politiche più sensibili ai temi meridionali. I Cinquestelle sono ancora oggi il partito con più eletti nel Sud ma lo dimenticano spesso, mentre il Pd dovrebbe rappresentare un baluardo contro le ingiustizie (altrimenti che ci sta a fare?) anche di quelle territoriali. Sapranno alzare la voce su questo tema così dirimente per l’unità dell’Italia? Vedendo come si stanno comportando nei confronti di De Luca e degli altri presidenti (blandizie e paura) si può ragionevolmente dubitare. Ma l’ottimismo, come ben si sa, è di per sé ottuso.
Questo articolo è stato pubblicato su Repubblica Napoli il 12 giugno 2022