La postina, il tornitore, il contadino, l’operaia tessile, l’autista, il rider, il muratore, lo studente mandato in fabbrica dalla scuola per fare formazione… Tutti caduti sul lavoro, usciti da casa per andare in ufficio, in fabbrica, in cantiere o saliti sul trattore, sulla bici, sul camion, oppure al ministero degli esteri ad aggiustare un ascensore, o ancora in Valle d’Aosta a ristrutturare la casa di villeggiatura della ministra della giustizia Marta Cartabia e mai più tornati. Il covid e le risposte politiche, economiche e sociali ciniche e liberiste messe in campo per mitigare gli effetti nefasti della pandemia su occupazione e imprese hanno ulteriormente aggravato i numeri della strage di uomini e donne che per vivere devono lavorare. A ogni costo, in qualunque condizione, con contratti a termine, in appalto, subappalto, semplicemente al nero. Lavorare in fretta e con meno sicurezza, fare in fretta al cesso, se proprio si deve andare, oppure la capa con i tacchi a spillo ti fa tirare giù le mutande per controllare se hai le mestruazioni. Il superbonus per ristrutturare case e villette con il 110% di sostegno pubblico fa volare l’edilizia ma i lavori vanno fatti in fretta, pazienza se in deroga alle norme, pazienza se il muratore volerà giù dall’impalcatura. Tantopiù che probabilmente sarà un immigrato magari irregolare e, guarda caso, al primo giorno di lavoro per nascondere che lavorava al nero senza contributi.
Prendere o lasciare, c’è la fila di altri disgraziati in attesa, devi scegliere tra lavoro e diritti. Uomini e donne, italiani e migranti, giovani al primo mese di lavoro e anziani che avrebbero dovuto già essere in pensione. Crescono i morti persino rispetto all’anno scorso, un anno orribile da record con più di 1.200 caduti sul fronte del lavoro secondo i dati Inail che esclude dal conteggio lavoratori al nero e medici e infermieri vittime del covid. Gli infortuni nei primi tre mesi del 2022 sono aumentati del 49%. Secondo l’attendibile Osservatorio indipendente di Bologna, le vittime nei primi 4 mesi dell’anno ammonterebbero a 422, sommando quelle uccise sul luogo di lavoro e quelle in itinere. Il covid è diventato un pretesto per aumentare lo sfruttamento sul lavoro. Crescono gli occupati, brindiamo a Draghi, ma crescono sono solo i contratti a termine, in appalti e subappalti dove i controlli sulle norme di sicurezza, salari e orari sono quasi inesistenti. I sindacati protestano, il governo e i partiti piangono lacrime di coccodrillo ma continuano a espellere la dignità del lavoro dalle agende della politica. I colpevoli ritardi in materia di sicurezza sono il lievito di padroni e padroncini che per risparmiare due minuti e due soldi tolgono i sistemi di protezione a una macchina tessile che prima o poi finirà per decapitare o stritolare un’operaia. Il 20% dei lavoratori dipendenti è precario, il massimo dal 1977, a cui si aggiunge un precariato molto più diffuso nel resto del mondo del lavoro. I contratti a termine hanno registrato un massimo storico.
La guerra è un altro pretesto per trasformare le promesse da marinaio (ci perdoni il marinaio per questo luogo comune) in carta straccia. Putin invade l’Ucraina, i costi di gas, petrolio, grano, trasporti vanno alle stelle? Allora il ministro per la transizione economica che dovrebbe affrancarci dal consumo di risorse non rinnovabili, decide di riaprire le centrali a carbone per non farci mancare nulla, neppure il cancro e il buco dell’ozono. A quando la riapertura delle miniere di carbone in Sardegna? La guerra, poi, costa, e consuma proiettili, intelligenza e umanità. Servono più armi nuove per rimpiazzare quelle che con spirito solidale (o criminale?) doniamo al governo ucraino: è pronto (o quasi) il terzo invio di armamenti a Kiev – questa volta carri armati e obici semoventi – deciso dall’esecutivo senza neppure discuterne in Parlamento, mentre è stato votato l’aumento di 15 miliardi di spesa in nuove armi, fino al 2% del pil. E per sostenere l’industria bellica le commissioni finanza di Camera e Senato hanno deciso con i voti del Pd e delle destre di governo e d’opposizione l’abolizione dell’Iva. Non sugli assorbenti, sulla vendita di armi. Costruire, vendere e usare armi è sempre più un affare, ma non per le casse dello Stato. Un’altra fetta di welfare se ne va in fumo.
I sindacati sono ignorati dal governo; al massimo, se protestano nelle manifestazioni del 1° Maggio, vengono convocati un paio d’ore prima che Draghi emetta il suo decreto con gli interventi economici e finanziari per affrontare la crisi (“a babbo morto” si dice a Roma, che vuol dire a cose fatte). Una crisi pesante, con una disoccupazione tra l’8 e il 9% che diventa esplosiva al sud e colpisce soprattutto le donne, quella giovanile è sopra il 25%. L’inflazione balzata al 6,2% impoverisce pensioni e salari già poverissimi colpendo il potere d’acquisto, a meno che l’operaio o il pensionato con la minima decidano di comprare cannoni e fucili invece di pagnotte di pane. Di tassa patrimoniale, guai a parlarne, la rendita è sacra. Al massimo, un lieve aumento del prelievo sugli extraprofitti delle aziende energetiche per sostenere quelle energivore e quelle messe in difficoltà dal blocco delle esportazioni in Russia. Al massimo, un assegno da 200 euro ai lavoratori più svantaggiati. Al massimo, prolungamento fino a luglio dell’opera di calmieramento del prezzo di gas e carburanti. Il costo di questa manovra aggiuntiva arriva a 14 miliardi, ma visto che non si vuole far pagare i ricchi pagheranno i poveri e crescerà il debito pubblico. Meno soldi all’istruzione, alla ricerca, alla sanità.
Il dramma della guerra monopolizza la discussione pubblica, una discussione a senso unico che manda in letargo la Costituzione e mette il silenziatore sulle scelte di prospettiva del governo. La guerra chiama all’unità, al compattamento che per i padroni diventa pace sociale e blocco dei contratti. Il conflitto armato va bene, quello sociale va messo al bando. Cadono i tabù e nei talk show si parla impunemente di bombe nucleari e guerra mondiale. Chi parla di trattative e di pace e dopo aver condannato la guerra di Putin si permette di criticare la Nato, come fa il papa, diventa un inascoltato buonista romantico. E chi contro il pensiero unico riunisce in un teatro romano intellettuali, giornalisti non embedded, artisti, religiosi per discutere di pace senza paraocchi, come hanno fatto Michele Santoro e Vauro, altro non è che un servo di Putin. E l’Anpi diventa l’“Associazione nazionale putiniani italiani”. In un clima del genere, chi volete che si preoccupi dei morti sul lavoro?