In queste due mesi di guerra si è cercato una qualche similitudine tra la resistenza del popolo ucraino contro i russi (che giustificano l’azione militare anche con l’argomento delle loro radici nazionali nelle tesse invase) e la resistenza in Italia tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945. Ma non ci sono similitudini. E non perché la nostra resistenza sia più nobile o meriti più solidarietà dell’altra. Le lotte di resistenza contro un invasore sono nobilitate dalla violazione del diritto dei popoli. Anche al tempo della nostra, si ebbero del resto altre resistenze — tutti i paesi europei occupati dalle truppe tedesche al comando di Adolf Hitler conobbero resistenze di civili. Il motivo dominante in tutti quei paesi fu “la volontà di resistere contro l’invasore straniero”, fisicamente distinto e riconosciuto come tale, scriveva Enzo Enriques Agnoletti nella prefazione alle Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (Einaudi 1952). In Italia, invece, “non c’era stato un nemico entrato a forza” – anzi, l’unico esercito entrato a forza fu quello degli Alleati. Da noi era quindi mancato “l’odio per lo straniero invasore” e i motivi patriottici erano associabili “ad un’idea di patria meno elementare, meno fisica” e meno nazionalista. Questa fu una differenza notevole.
Vi era in Italia un’idea di patria che si appellava non ad una comune origine contraria ad un’altra, ma ad un progetto politico contrario a quello che era stato fin lì dominante nel paese: costruire una società libera, laddove nella libertà confluivano idealità diverse, conservatrici e liberali, socialiste e comuniste, cattoliche e laiche. Scriveva Agnoletti che in Italia “la Resistenza non è stata un resistere, un tener duro, una volontà di non cedere … Seguitiamo a chiamare Resistenza il movimento di liberazione in Italia, ma non dimentichiamo mai che non è stata una resistenza, ma è stato un attacco, una iniziativa, una innovazione ideale, non un tentativo di conservare qualche cosa. Il dato fondamentale non è la lotta contro lo straniero, è la lotta contro il fascismo, e il tedesco è combattuto quasi unicamente perché incarnazione ultima del fascismo suo alleato e complice”. Una guerra di liberazione, una lotta politica di fondazione di un nuovo ordine, spesso identificato con la democrazia (e che in alcune aree del paese, come nelle valli piemontesi generò autonome repubbliche amministrative). Trovatosi senza Stato, dopo l’armistizio con i tedeschi che dall’8 settembre si trovarono ad essere nemici assoluti non più alleati del regime fascista caduto il 25 luglio, molti uomini e donne si fecero popolo prendendo le armi contro i nemici totali, con i quali non si poteva trattare. Agnoletti aggiungeva che quei civili (ma anche ex-militari di un esercito che non c’era più) si fecero popolo scegliendo la strada del combattimento e scegliendosi il nemico. La guerra di liberazione non aveva alcuna giustificazione difensiva, non era una reazione resa necessaria da un’invasione. Era una scelta di lotta, non di pace o in attesa che altri portassero la pace; e aveva in sé dei valori nuovi o che, se radicati nella cultura risorgimentale, erano stati sepolti dal conformismo di regime. Lottare non per resistere al nemico ma per conquistare libertà e giustizia.
Questi erano i motivi di fondo che ritornano nelle lettere dei condannati a morte della Resistenza come nelle testimonianze di chi è riuscito a festeggiare la liberazione. Libertà come condizione di pace perché condizione necessaria di una società giusta. Scriveva Guido Galimberi alle piccole figlie nel novembre 1944, prima di essere fucilato: “apprendete in questo foglio la morte di vostro padre e saprete che è morto da soldato e da italiano e che ha combattuto per avere un’Italia Libera”. Eusebio Giambone scriveva alla piccola figlia di essere “stato condannato a morte per le sue idee di Giustizia e di Eguaglianza” e per contribuire a creare una società nella quale lei avrebbe potuto vivere, studiare e lavorare dignitosamente. Irma Marchiani sentiva di dover giustificare ai genitori e ai fratelli la propria scelta: non poteva star contenta o sottrarsi; doveva dare “il suo contributo” perché non c’era pace e contentezza dove c’era sopruso: “Ti chiedo una cosa sola: non pensarmi come una sorellina cattiva. Sono una creatura d’azione, il mio spirito ha bisogno di spaziare”. C’era chi combatteva per i valori comunisti e chi nel nome di Cristo, chi sentiva il dovere solenne del soldato, chi era mosso da una volontà di riscatto contro “i tiranni fascisti”. La guerra partigiana era plurale. Ma la parola pace non compariva in quelle lettere; del resto, la pace nella condizione di subordinazione era proprio ciò contro cui tutti loro avevano reagito. In quei mesi di guerra contro il nazi-fascismo, il motore che muoveva le loro scelte era la lotta per libertà.
Ha scritto Anna Foti su “Patria indipendente” che la Resistenza “ha unito l’Italia attorno al sogno di libertà.” Un “sogno” che aveva un significato non soltanto politico e civile, ma anche morale ed esistenziale, diremmo anzi psicologico. In Io sono l’ultimo. Lettere di partigiani italiani (Einaudi, 2012) questo aspetto di libertà prorompe con forza: in lettere di amore, di amicizia, ma anche di odio e di violenza. Il tema unificante è la reazione contro il fascismo per un ideale di libertà. Giovanissimi, i partigiani non temevano di confessare le loro paure o il loro coraggio, i loro sentimenti amorosi e la loro rabbia per le ingiustizie subite da loro, dai loro parenti e dai loro vicini di casa. Questo bisogno di libertà e di rivolta lo si avverte soprattutto nel caso delle donne che decisero di farsi partigiane.
Arrigo Boldrini sostenne che il rapporto tra esercito irregolare e popolazione era stato di 1 a 12 o 15, un numero elevato. Il numero di italiani e italiane impegnate nella guerra di liberazione era più alto di quello che le cifre ufficiali dicevano perché ai combattenti occorreva aggiungere chi li aiutava senza combattere. La resistenza senza il sostegno della popolazione non può sostenersi. Ma insieme alla questione numerica, tuttavia importante, occorre mettere in giusta luce il significato e l’impatto simbolico che la natura volontaria di quella guerra di liberazione ebbe sulla mentalità e sui costumi. Lo ha ben spiegato Miriam Mafai nel volume L’apprendistato della politica. Le donne Italiane nel dopoguerra (Editori Riuniti 1979), da dove emerge che le partigiane combatterono non solo per la liberazione politica. Le donne ufficialmente riconosciute come partigiane erano circa trentacinquemila, delle quali poco più di cinquecento svolsero ruoli di “commissario di guerra” e quasi tremila furono giustiziate o morirono nei campi di concentramento, spesso non prima di aver subito violenze e torture. Perché si fecero partigiane?
La retorica parlava di una scelta per il bene delle loro famiglie e dei loro figli – scelta di madri, di figlie e di mogli. Probabilmente questa fu una componente. Ma vi era anche un’altra motivazione, lasciata volutamente in ombra dalla retorica resistenziale maschile e che valeva soprattutto per le più giovani: il desiderio di libertà individuale, di liberazione dai vincoli patriarcali. Raccontava Mafai, sulla base di dirette testimonianze, che molte donne erano mosse dal desiderio di “fare come gli uomini” – che allora voleva dire, combattere e darsi alla macchia col fucile in spalla; per moltissime, giovanissime, era un’opportunità per fuggire dai ruoli e dalle gerarchie domestiche. Non solo solidarietà e sacrificio per la propria famiglia, come ripeteva la retorica ufficiale anche dopo il 1945, quando tutti i partiti senza eccezione spingevano affinché le combattenti ritornassero ai loro ruoli domestici, che sembravano non dover cambiare mai. Proprio perchéa non guerra contro un invasore ma per la libertà, quel che mosse la Resistenza italiana non si sarebbe mai realizzato pienamente. E ha il potere di farci sentire vicini a tutti coloro, uomini e donne, che lottano nelle loro società e nel loro tempo per liberarsi da altre dominazioni.
Questo articolo è stato pubblicato su Domani il 25 aprile 2022