Supponete di fare il pieno per la vostra auto, di spendere un centinaio di euro e di perdere un terzo del carburante lungo la strada tra il distributore e il garage, perché il serbatoio è bucato. La circostanza può provocare due tipi di reazioni. Prima reazione: vi imbufalite e fate aggiustare la falla. Seconda reazione: non intervenite, fatalisticamente convinti che la falla non sia aggiustabile. Ebbene, in Italia sembra più trendy la versione fatalistica. Però non capita con il carburante, al cui consumo stiamo ben attenti. Succede con un altro liquido, che ‒ senza offesa per i petrolieri ‒ è assai più importante della benzina. Qual è? La “banale” acqua potabile, tanto preziosa quanto, dalle nostre parti, data per scontata. Invece è una risorsa sempre più scarsa al livello planetario e bisognerebbe preservarla.
Tuttavia, nel nostro Paese questa risorsa non è tutelata nel modo opportuno; anzi, viene sprecata. Un recente report dell’Istituto nazionale di statistica (Istat), pubblicato il 21 marzo, fornisce un quadro della situazione italiana a dir poco sconfortante; riguarda i consumi nei 109 capoluoghi di provincia e città metropolitane tra 2019 e 2021: va perduto oltre un terzo dell’acqua immessa nella rete di distribuzione. In totale, nel 2020 «sono andati dispersi 0,9 miliardi (900 milioni) di metri cubi, pari al 36,2% dell’acqua immessa in rete (37,3% nel 2018), con una perdita giornaliera per km di rete pari a 41 metri cubi (44 nel 2018)».
Per farsi un’idea delle proporzioni, basti pensare che ogni anno i nostri acquedotti “smarriscono” tanta acqua quanto quella contenuta in 360.000 piscine olimpioniche e quasi il doppio del contenuto medio del Trasimeno, quarto tra i laghi d’Italia per estensione, dopo quello di Como, mentre, per fare un esempio di inefficienza, l’anno scorso in 11 Comuni ‒ sempre capoluoghi di provincia e città metropolitane, tutti nel Mezzogiorno, 2 in più rispetto al 2020 ‒ la distribuzione dell’acqua è stata razionata, disponendo la riduzione o la sospensione dell’erogazione; nel 2021 il 9,5% delle famiglie italiane lamentava forti irregolarità nell’erogazione del servizio. Una circostanza tanto più sconfortante in anni in cui i cambiamenti climatici sconvolgono i ritmi di piogge e nevicate anche nel Belpaese: il 29 marzo scorso nella Pianura Padana occidentale si era arrivati a 114 giorni senza precipitazioni; nell’intero bacino del Po durante lo stesso mese è stato registrato un deficit di pioggia del 92% (la magra invernale più grave dell’ultimo trentennio).
In media, dunque, entrano nelle reti idriche 370 litri per abitante al giorno, ma ne escono 236: il 39% usati per bagno e doccia, il 20% per i sanitari, il 12% per il bucato, il 10% per il lavaggio delle stoviglie, il 6% per usi di cucina, il 6% per il lavaggio dell’auto e per il giardino, solo l’1% per bere e il 6% per altri usi. L’Istat si è concentrato sui 109 capoluoghi di provincia/città metropolitane perché è più agevole valutare i dati. Lì risiedono 17,8 milioni di italiani, pari al 30% circa della popolazione totale, che consumano il 33% dell’acqua potabile. Risulta che in quei grandi centri la sua distribuzione è affidata a 95 gestori, che si occupano di 100 Comuni, mentre nei restanti 9 (con 600.000 residenti) l’amministrazione comunale ha la responsabilità diretta del servizio. La rete di distribuzione è enorme: 57.000 km (17.000 in più rispetto alla circonferenza della Terra, tanto per rendere l’idea). Ebbene, nel 2020 sono stati immessi in rete 2,4 miliardi di metri cubi di acqua, però dai rubinetti ne sono usciti 1,5 miliardi. Ovviamente, «l’intensità dell’erogazione dell’acqua è fortemente eterogenea sul territorio perché legata alle caratteristiche infrastrutturali e socio-economiche dei Comuni»: in alcune aree, insomma, il sistema idrico funziona piuttosto bene, in altre malissimo.
Come mai ci sono queste immani perdite? «Sono da attribuire a fattori fisiologici presenti in tutte le infrastrutture idriche, alla vetustà degli impianti, prevalente soprattutto in alcune aree del territorio, e a fattori amministrativi, riconducibili a errori di misura dei contatori e ad allacci abusivi, per una quota che si stima pari al 3% delle perdite», scrive l’Istat. Di fatto, «in più di un capoluogo su tre si registrano perdite totali superiori al 45%». Le situazioni più critiche, «con valori superiori al 65% di perdite, sono state registrate a Siracusa (67,6%), Belluno (68,1%), Latina (70,1%) e Chieti (71,7%)». «All’opposto», sottolinea l’Istat, «una situazione infrastrutturale decisamente favorevole, con perdite idriche totali inferiori al 25%, si rileva in circa un Comune su cinque. In sette capoluoghi i valori dell’indicatore sono inferiori al 15%: Macerata (9,8%), Pavia (11,8%), Como (12,2%), Biella (12,8%), Milano (13,5%), Livorno (13,5%) e Pordenone (14,3%). In nove Comuni, tre del Centro e sei del Mezzogiorno, si registrano perdite totali lineari superiori ai 100 metri cubi giornalieri per chilometro di rete, generalmente superiori al 50% in termini percentuali».
Negli 11 Comuni capoluogo di provincia/città metropolitana, localizzati tutti nel Mezzogiorno, in cui capitano i casi più frequenti di sospensione e razionamento del servizio, i disagi hanno cause precise: «Forte obsolescenza dell’infrastruttura idrica, problemi di qualità dell’acqua per il consumo umano e sempre più frequenti episodi di riduzione della portata delle fonti di approvvigionamento, che rendono scarsa o addirittura insufficiente la disponibilità della risorsa idrica». Risultato: «Misure di razionamento sono state adottate in quasi tutti i capoluoghi della Sicilia (tranne a Messina e Siracusa), in due della Calabria (Reggio di Calabria e Cosenza), in un capoluogo abruzzese (Pescara) e in uno campano (Avellino)». In quattro capoluoghi le restrizioni nella distribuzione dell’acqua potabile sono state estese a tutto il territorio comunale: «Enna, dove l’erogazione dell’acqua è stata sia sospesa che ridotta (32 giorni); Pescara, dove il servizio è stato ridotto solo in alcune ore della giornata, specialmente nelle ore notturne o nelle prime ore mattutine (74 giorni); Cosenza e Reggio di Calabria, dove le misure sono state adottate per fascia oraria e a giorni alterni (rispettivamente per 366 e 77 giorni)». Si potrebbero snocciolare molti altri dati relativi a queste situazioni più gravi, città per città. Basti aggiungere che è stata complicata molto la vita di circa 227.000 residenti, soprattutto in Sicilia, dove 14 persone su 100 patiscono le carenze di approvvigionamento.
Alla gente tutto ciò quanto costa? In base ai calcoli dell’Istituto di statistica, in media una famiglia italiana spende 14,68 euro al mese (176,16 l’anno) per la fornitura di acqua in casa tramite l’acquedotto (dati del 2020). Vanno però aggiunti altri costi ‒ come quelli della fognatura e della depurazione, più altri oneri e l’Iva ‒ che, secondo Businessonline.it, porta il costo medio annuale per famiglia nel 2022 a circa 450 euro. Si devono sommare anche 12,56 euro di spesa media mensile (150,72 annuali) per l’acquisto di acqua minerale, perché tante persone non bevono quella pubblica. Eppure quest’ultima è assai conveniente: un litro di acqua del rubinetto costa 0,00236 euro, mentre un litro in bottiglia si paga mediamente 0,15 euro.
Il problema della qualità dell’acqua ‒ o meglio, della percezione della sua qualità ‒ non è affatto secondario: il 28,5% ha dichiarato, nel 2021, di non bere quella dell’acquedotto. Da questo punto di vista, la percezione è migliorata rispetto a vent’anni fa, quando i diffidenti erano a quota 40,1%. Non si disseta con la cosiddetta “acqua del sindaco” il 16,8% nel Nord-Est, mentre la percentuale media sale al 57,2% nelle grandi isole. «A livello regionale», scrive l’Istat, «le percentuali più alte si riscontrano in Sicilia (59,9%), Sardegna (49,5%) e Calabria (38,2%); le più basse nelle Province autonome di Bolzano-Bozen (0,8%) e Trento (2,4%). Molto inferiori alla media nazionale anche le quote di Valle d’Aosta (8,6%) e Friuli-Venezia Giulia (11,6%)». Di certo, fanno affari i produttori italiani di acque minerali naturali: nel 2019 ne sono stati prelevati e venduti 19 milioni di metri cubi, con un incremento del 17,6% rispetto al 2015 e del 9,3% rispetto al 2018.
L’Istat nel report ricorda che il prezioso liquido e l’insieme dei servizi correlati «sono elementi imprescindibili per la sostenibilità ambientale, il benessere dei cittadini e la crescita economica». Tanto che all’acqua sono dedicati 2 dei 17 obiettivi di sviluppo sostenibile elaborati dall’ONU (Sustainable Development Goals, SDGs). «Occorre dunque rafforzare la resilienza del sistema idrico, rendendo i processi più efficienti soprattutto nei territori che presentano una maggiore vulnerabilità a situazioni di criticità idrica». Non a caso, «la salvaguardia delle risorse idriche e la gestione efficace, efficiente e sostenibile dei servizi idrici rientra tra gli obiettivi del PNRR», il Piano nazionale di ripresa e resilienza approvato nel 2021 per rilanciare l’economia nazionale dopo la pandemia. Nei prossimi anni in Italia efficienza e sostenibilità riusciranno davvero, anche in questo campo, a essere raggiunte? Oppure tra il dire e il fare continuerà a esserci di mezzo quasi 1 miliardo di litri di acqua potabile sprecata? Vedremo.
Questo articolo è stato pubblicato su Treccani il 31 marzo 2022