Quattro mesi sono trascorsi da quando, nelle prime ore del 28 novembre scorso, il ventiseienne tunisino Wissem Ben Abdellatif moriva legato mani e piedi a un letto dell’ospedale San Camillo di Roma. Da quel giorno i familiari continuano a chiedere che sia fatta luce sulle responsabilità di chi ha detenuto, sedato, legato, slegato e poi ancora legato il corpo di Wissem durante gli ultimi giorni della sua vita.
«Perché mio fratello sia in pace, ovunque si trovi, è necessario arrivare alla verità e alla giustizia», dice Rania Abdellatif, vent’anni, che incontro in videochiamata insieme all’attivista Jalila Taamallah. Rania ribadisce quello che i genitori hanno già detto in più occasioni: Wissem era un ragazzo tranquillo, che prima di partire per l’Italia stava bene, di buon carattere, sempre sorridente. Era in perfetta salute e si allenava spesso. A Rania, che studia scienze motorie, Wissem ha trasmesso la passione per lo sport. Aveva fatto anche uno stage con il Club Africain, una delle maggiori squadre di calcio del paese, ma poi non era stato confermato.
L’ultima volta che Rania ha sentito Wissem, lui era ancora al Cpr di Ponte Galeria, dove era stato portato il 13 ottobre, dopo aver trascorso i primi dieci giorni successivi allo sbarco in Italia su una nave quarantena attraccata ad Augusta. Da Ponte Galeria, Wissem aveva chiesto notizie di tutta la famiglia. Non stava bene, non aveva molta voglia di parlare di sé. Sembrava, dice Rania, che ci stesse dicendo addio.
Da poche settimane, i parenti di Wissem hanno costituito il comitato “Verità e giustizia per Wissem Ben Abdellatif”, insieme all’avvocato Francesco Romeo e a una rete di organizzazioni attive sia nella difesa dei diritti dei migranti, come LasciateCIEntrare, sia contro l’abuso della contenzione nei reparti di psichiatria, come la fondazione Franca e Franco Basaglia e l’associazione Sergio Piro.
In corso, ha spiegato l’avvocato Romeo, c’è un procedimento a carico di ignoti per omicidio colposo e sequestro di persona. È lo stesso reato, quest’ultimo, di cui sono stati incriminati i medici e gli infermieri che avevano legato per ottantasette ore Franco Mastrogiovanni, il maestro anarchico morto nel 2009 durante un trattamento sanitario obbligatorio a Vallo della Lucania.
Dai numerosi dettagli forniti in occasione del lancio del comitato riemergono altrettanti interrogativi ancora aperti sulla vicenda di Wissem. Non si capisce, per esempio, su quali basi sia stato individuato, con una sola visita svoltasi l’8 novembre, il grave “disturbo schizo-affettivo” di cui avrebbe sofferto Wissem. Secondo Antonello d’Elia dell’associazione Psichiatria Democratica, che ha partecipato al lancio del comitato, quella diagnosi non poteva essere emessa dopo una sola visita, né è compatibile con i video girati negli stessi giorni dal giovane, che in essi esprimeva lucide preoccupazioni per la sua incolumità.
Resta da chiarire, inoltre, cosa sia successo all’interno del Cpr di Ponte Galeria: si sa che Wissem aveva protestato per le condizioni della sua detenzione con uno sciopero della fame, che aveva testimoniato con un cellulare fatto entrare di nascosto nel centro. Si sa che alcuni suoi compagni di prigionia hanno parlato con gli attivisti di maltrattamenti da parte delle forze dell’ordine. Alcune persone detenute insieme a Wissem sono state rimpatriate velocemente dopo il decesso, altre liberate. Secondo le informazioni a disposizione, nessuna, finora, è stata sentita dagli inquirenti.
Dopo la prima visita psichiatrica, Wissem resta nel centro per altre due settimane, sottoposto a terapia farmacologica. Viene ricoverato il 23 novembre all’ospedale Grassi di Ostia, in seguito a una seconda visita che conferma la diagnosi precedente. Il 25 novembre, dopo quaranta ore di contenzione, Wissem è trasferito all’ospedale San Camillo di Roma. Arrivato al reparto di psichiatria, viene nuovamente legato e lasciato in un posto letto “di corridoio”, così definito anche dalla planimetria del reparto, per ulteriori sessantatré ore.
Dalla documentazione clinica non è possibile ricostruire l’identità di chi ha legato Wissem, ed è per questo che i promotori della campagna fanno appello a eventuali testimoni affinché raccontino quello che hanno visto.
Si sa, invece, che il 27 novembre un mediatore si presenta al San Camillo per comunicare con Wissem, ma lui è così pesantemente sedato che non può comunicare. L’episodio smentisce qualsiasi presunta necessità di legare il paziente. Si sa, infine, che a causa della contenzione meccanica alcuni valori del sangue di Wissem superano quelli normali di oltre il tremila per cento: niente è stato fatto, sembra, per riavvicinarli a una soglia accettabile.
Il 23 novembre, giorno del ricovero, è l’ultimo in cui Wissem ha la possibilità di comunicare attraverso un mediatore. L’indomani, il giudice di pace di Siracusa decide di sospendere il provvedimento che dispone il trattenimento di Wissem a Ponte Galeria. Legato mani e piedi a un letto d’ospedale già da diverse ore, Wissem è per la prima volta libero di circolare sul suolo italiano. Non verrà mai a saperlo.
La storia del giovane con la felpa rossa che amava giocare a calcio è rappresentativa, da un lato, di quanto ancora la contenzione meccanica sia facilmente applicata nelle strutture psichiatriche italiane, sebbene la legge Basaglia ne limiti l’utilizzo a casi eccezionali di estrema necessità. Dall’altro, il caso di Wissem è emblematico del trattamento riservato ai migranti, soprattutto tunisini. Il 30 marzo, il Forum tunisino per i diritti economici e sociali e le associazioni di avvocati Asgi e Avocats sans frontières hanno presentato uno studio dedicato a Wissem che raccoglie decine di interviste a persone di nazionalità tunisina sopravvissute al sistema italiano di detenzione e rimpatrio.
I dati non sorprendono, ma fanno pensare: più della metà degli intervistati ha dichiarato di non aver avuto accesso all’acqua calda né a un letto, di non aver avuto né cibo né vestiti puliti a sufficienza durante la reclusione nei Cpr. Quasi tutti (l’ottantotto per cento) denunciano un qualche tipo di violenza all’interno dei centri. Il settanta per cento non ha ricevuto informazioni sulla protezione internazionale, e poco meno di un terzo non ha potuto avvalersi di un interprete, che in molti casi è comunque giudicato poco imparziale.
Nel 2021 l’Italia ha rimandato in Tunisia 1.872 persone, quasi due terzi del totale delle persone rimpatriate. «Ma perché non hanno rimpatriato anche Wissem?», si chiede Jalila, commossa, durante la nostra conversazione a tre insieme a Rania. Da quando i suoi figli Hedi e Mahdi sono scomparsi in un naufragio, nel 2019, Jalila si è impegnata per i diritti dei migranti e ha aderito attivamente al comitato per Wissem. Ogni lunedì incontra altre tunisine che hanno perso i propri cari nel Mediterraneo o a causa delle frontiere. Sostenute dagli psicologi del movimento Carovane Migranti, cercano di aiutarsi a vicenda per superare il trauma e andare avanti. Rania, Jalila e le altre hanno cominciato a ricamare su un lenzuolo i nomi dei loro cari scomparsi, unendosi ad altre donne e attiviste che, in diversi paesi del mondo, stanno adottando la stessa pratica come modo di testimoniare e condividere la memoria sulle vittime delle frontiere. Abbiamo formato un piccolo gruppo, dice Jalila, e continueremo a lottare.
Questo articolo è stato pubblicato su Napoli Monitor il 1 aprile 2022