Il giornalista australiano, che ha svelato i crimini di guerra dei governi statunitensi, a un passo dalla estradizione negli Stati Uniti
La Corte suprema del Regno Unito ha alzato una cortina di ferro contro Julian Assange, negandogli la possibilità di ricorrere contro una precedente decisione d’appello che ne autorizzava l’estradizione negli Stati Uniti. Dove a breve sarà riportato con la forza, dopo aver trascorso sette anni da rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, e altri tre nel penitenziario londinese di Belmarsh, la Guantanamo inglese.
Dopo un inseguimento durato un decennio, da parte dei governi Usa, che gli è valso il titolo di “primula rossa”, il cinquantenne giornalista australiano pare ormai giunto al capolinea della sua battaglia: condannato a una pena monstre di 175 anni di carcere, in base a una legge del 1917, gli viene imputato non solo il presunto reato di complicità nell’hackeraggio dell’archivio del Pentagono, ma anche di aver violato la legge sullo spionaggio (l’“Espionage Act” del 1917), mai invocato prima d’ora nella storia americana moderna, per una vicenda di diffusione di documenti riservati, o anche top secret, sui media. Basti dire che il famoso Daniel Ellsberg, che svelò i Pentagon Papers (1967) e le porcherie della guerra del Vietnam, facendo tremare l’establishment americano, non venne condannato neanche a un giorno di carcere, perché la sua libertà di fare informazione fu ritenuta superiore alle leggi sulla riservatezza degli atti pubblici. E non servirono a niente le manovre diversive del segretario alla Difesa McNamara.
Indignazione per la decisione è stata espressa da Amnesty International e Reporters sans frontières, e da migliaia di attivisti civili che lo sostengono in tutto il mondo, le cui battaglie si infrangeranno contro la volontà politica inglese di assecondare il diktat del potente alleato statunitense, che chiede espressamente di vendicarsi di Assange, colpevole di avere trasmesso alle testate giornalistiche di tutto il mondo migliaia di file classificati sottratti alle agenzie Usa, svelando i crimini di guerra commessi dai governi a stelle e strisce tra Afghanistan e Iraq.
I legali di Assange si erano rivolti in gennaio alla Corte suprema del Regno chiedendo di riesaminare il caso, e di rovesciare la sentenza di secondo grado favorevole alla estradizione – in prima istanza era stata negata da un verdetto della giudice Vanessa Baraister, che aveva invocato le condizioni di salute e psichiche di Assange. Nel frattempo, erano già cadute le controverse accuse di stupro presentate nei suoi confronti dalla magistratura svedese, mentre una perizia medica ha rilevato il rischio che i rigori della giustizia statunitense possano indurlo al suicidio. L’inviato speciale delle Nazioni Unite, Nils Melzer, ha parlato di tortura.
Ma niente da fare. Il dossier tornerà sul tavolo di Baraister la quale, tuttavia, non potrà fare altro che prendere atto della decisione finale e trasferire le carte al ministero dell’Interno del governo di Boris Johnson, guidato dal falco Priti Patel, che darà uno (scontato) via libera alla estradizione entro un termine di ventotto giorni, che scatterà anche se gli avvocati di Assange tentassero di rivolgersi a una Corte internazionale. Come atto di magnanimità, gli Stati Uniti hanno acconsentito a una richiesta del prigioniero – l’ultimo desiderio di un condannato a morte –, autorizzandolo a sposarsi il 23 marzo nella prigione di Belmarsh con l’avvocata sudafricana Stella Morris, la compagna che gli ha dato due figli durante il periodo di asilo nell’ambasciata ecuadoriana.
Il caso, però, non è affatto finito qui: la storia di Assange è nota (in Italia anche grazie all’instancabile Stefania Maurizi che l’ha raccontata in Il potere segreto, edito da Chiarelettere) insieme con una diffusa consapevolezza, in tutto il mondo, sul suo significato più profondo. Quando l’Occidente deve accusare i suoi nemici, le categorie di diritti umani e libertà di informazione vanno bene. Quando sono i suoi governi a minacciarle o violarle apertamente, allora si possono anche calpestare.
Per le opinioni pubbliche Julian Assange è diventato un’immagine cult, una icona dell’ambiguità del potere; mentre per il potere e le sue ancelle è il diavolo in persona, perché ha saputo toccare il punto massimo di contraddizioni, cioè l’uso del segreto divergente dagli interessi della collettività. Vincenzo Vita, animatore del Comitato italiano per la libertà di Assange, si è rivolto dalle pagine del “manifesto” al presidente Mattarella, perché “con la sensibilità che la contraddistingue, interpelli con la sua moral suasion l’omologo Joe Biden, affinché conceda la grazia per riparare a un’ingiustizia”. Con pessimismo, ci associamo.
Questo articolo è stato pubblicato su Terzo Giornale il 21 marzo 2022