Lavoratori e sfruttamento: prima eroi, ora le loro rivendicazioni sono guardate con sospetto

di San Precario /
3 Marzo 2022 /

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Il 17 febbraio l’Inps ha reso noti, attraverso l’Osservatorio sul precariato, i dati relativi alle nuove assunzioni, alle trasformazioni e alle cessazioni dei contratti di lavoro occorsi nel 2021. In particolare, dal documento dell’Inps emerge che:

– le assunzioni attivate dai datori di lavoro nel corso del 2021 (che non necessariamente devono intendersi quali assunzioni di nuovo personale) sono state 6.616.000, in aumento del 22% rispetto al 2020; tali incrementi hanno riguardato tutte le tipologie contrattuali, tra cui i contratti in somministrazione (+ 29%), i contratti intermittenti (+ 23%), i contratti a tempo determinato (+19%);

– le cessazioni dei contratti sono state 5.635.000 fino a novembre 2021, in aumento del 10% rispetto all’anno 2020 (manca, comunque, il dato di dicembre che non è irrilevante dato che molti contratti si concludono alla fine dell’anno).

Per quanto riguarda invece le trasformazioni dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato, queste sono state 446 mila, circa il quattro per cento in meno del 2020. Si è dunque avuto un numero di stabilizzazioni basso sia in termini assoluti sia in riferimento all’anno 2020, nonostante la tanto declamata ripresa economica o il cosiddetto rimbalzo positivo. Un altro dato fornito dall’Inps riguarda i contratti occasionali, il cui numero a novembre del 2021 si attesta attorno ai 14 mila, in aumento del 20% rispetto al 2020; l’importo medio mensile della remunerazione effettiva è pari a 249 €.

Analizziamo ora i dati forniti dall’Inps tenendo conto di ulteriori fattori che ci possono permettere di comprendere l’andamento del mercato del lavoro in Italia. Innanzitutto dobbiamo considerare i provvedimenti legislativi d’urgenza assunti dal governo durante il biennio pandemico, tra i quali il blocco dei licenziamenti, la cassa integrazione Covid e la deroga ai limiti imposti dall’articolo 19 del decreto legislativo 81/2015, così come modificato dal Decreto Dignità, riguardo la stipulazione dei contratti a tempo determinato a-causali.

Sul divieto di licenziamento va precisato che lo stesso ha riguardato le procedure di licenziamento collettivo e i licenziamenti individuali per giustificato motivo (in sostanza i licenziamenti per ragioni economiche) e non il licenziamento per giusta causa. Ma anche il blocco dei licenziamenti per ragioni economiche, inizialmente imposto con una rigidità assoluta, è stato via via temperato con una serie di eccezioni dal decreto legge n. 104/2020 (c.d. Decreto Agosto).

L’altro istituto introdotto in via d’urgenza è stato la cassa integrazione Covid estesa a ogni tipo di azienda (anche con meno di 15 dipendenti), rimasta in vigore fino al 31 dicembre 2021. L’articolo 22 del decreto legge n. 4/22 l’ha poi prorogata fino al 31 marzo 2022, ma solo per le imprese con un numero di lavoratori dipendenti pari o superiore a mille e che gestiscono almeno uno stabilimento industriale di interesse strategico nazionale. Questo strumento, che è stato certamente utile per evitare il dissesto delle piccole imprese, soprattutto nel settore del turismo, è stato anche fonte di numerose frodi in ogni settore, dove molte lavoratrici e lavoratori, nonostante fossero in cassa integrazione, erano comunque costretti a lavorare.

Da ultimo occorre poi sottolineare la deroga ai limiti imposti dall’articolo 19 del decreto legislativo 81/2015, così come modificato dal Decreto Dignità, alla stipulazione dei contratti a tempo determinato a-causali. In altre parole, a decorrere dal maggio 2020, i datori di lavoro hanno potuto rinnovare i contratti a tempo determinato per un periodo superiore ai 12 mesi senza dover motivare le ragioni dell’assunzione come invece prevedeva la riforma. Ciò ha fatto sì che negli ultimi due anni ci sia stata un’impennata dei contratti a tempo determinato e/o in somministrazione. Si deve poi supporre che tale crescita proseguirà anche per buona parte del 2022, considerato che gli ultimi contratti a termine o in somministrazione in deroga potevano essere stipulati fino al 31 dicembre 2021.

Considerato quanto detto, possiamo affermare che, nonostante gli interventi straordinari del Governo e nonostante la tanto sbandierata crescita economica (i tassi di crescita dello scorso anno sono paragonabili a quelli del boom economico), nel 2021 non c’è stata la tanto auspicata crescita occupazionale. Ad aumentare sono solo i contratti precari e il loro aumento non è dovuto a un effettivo aumento dell’occupazione, ma alle deroghe volute dal Governo. L’altro dato che deve necessariamente essere preso in considerazione è quello relativo al livello delle retribuzioni. L’Italia è l’unico paese dell’Unione Europea in cui il salario medio dei lavoratori è diminuito anziché aumentare. Tra il 1990 e il 2020 si è registrato un calo del salario medio annuale del 2,9%, mentre in Germania e in Francia, nello stesso arco di tempo, i salari medi hanno avuto un aumento rispettivamente del 33,7% e del 31,1%. Inoltre l’Italia è uno dei pochi paesi in Europa che non ha introdotto il salario minimo (misura presente in 21 paesi su 27), uno strumento che eviterebbe gli stipendi da fame che oggi rendono milioni di persone dei lavoratori poveri (i cosiddetti working poor).

A questo punto, se confrontiamo i dati relativi ai livelli occupazionali con quelli dei livelli retributivi, è evidente che la crescita economica del 2021 trae la propria linfa dallo sfruttamento delle lavoratrici e dei lavoratori. Si è passati dal chiamarli eroi, quando continuavano a lavorare durante il lockdown, al guardare con sospetto le loro rivendicazioni.

Da ultimo occorre considerare il ruolo avuto dal tanto vituperato (non a caso) reddito di cittadinanza, misura che attualmente riguarda circa quattro milioni di persone. Un’indagine Inapp (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche) ha recentemente stimato che circa la metà dei recettori dell’RdC sono lavoratori sfruttati con salari da fame. L’attuale classe politica e dirigente lo vorrebbe abolire, mentre invece andrebbe ulteriormente esteso e migliorato in senso universalistico, per potenziarne i benefici in termini di equità e giustizia sociale, così da emancipare i lavoratori dal ricatto della precarietà, del lavoro nero e del lavoro sottopagato.

Questo articolo è stato pubblicato su Il Fatto Quotidiano il 2 marzo 2022

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