Difficile non rimanere spiazzati, proprio oggi, quando avidi di interpretazioni ed elaborazioni di una realtà che spesso ci sfugge o non amiamo, ci rifugiamo nella pratica e più ancora in un certo milieu teatrale che vorremmo vicino, amicale, forse consolatorio, di certo “contemporaneo”,dinanzi alla visione di uno spettacolo targato Masque Teatro, come ad esempio quello visto recentemente ad Ateliersi
Anzitutto perché ci rendiamo subito istintivamente conto che un abborracciato apparato estetico catalogatorio, sospeso tra arty-performativo, concettuale, minimale, tuttavia non pauperista, ambient ed estetizzante quanto basta, non è sufficiente a render conto della poetica di un ingegnere chimico, divenuto poi in qualche misura artigiano-scenografo artefice macchinista e dunque, costruttore immaginifico e barocco nella voluta linearità dell’insieme scenico, quale è Lorenzo Bazzocchi, cofondatore di Masque appunto. Una compagine forlivese che compie giusto quest’anno trent’anni, dimostrando una vitalità quasi adolescenziale per gli spunti acerbi e visionari che costellano questo lavoro Kiva, per esempio, interpretato, gestito, condotto??? da una incredibile Eleonora Sedioli in veste addirittura di ectoplasma metamorfico.
Una combinazione di elementi, una alchimia, verrebbe da dire, talmente particolare tra techne, poesia, sacralità, da rimanere in tutto fuori da ogni corrente definizione di racconto.
Il fatto è che assistere ad un lavoro di questo tipo è come assistere ad un esperimento sciamanico, ad una narrazione extra linguaggio verbale, in cui si rappresenta l’alma, il corpo eterico forse di una comunità, magari di nicchia, ma tenace, resiliente, nel farsi anche politica per tramite di strumenti non proprio popolarissimi.
Colpisce la potenza, la ricchezza immaginativa di ciò che ci è dinanzi, per cui appunto di poverismo non si può parlare, e neppure di coinvolgimento dello spettatore, nel senso più trito del termine.
Pure, ci si rende conto che sull’asse di pochi semplici elementi, come un piano inclinato, un cilindro cratere, un corpo-serpente avvolto da vapori che si snoda nella semioscurità sfuggendo ai generi e alle classificazioni per rendersi forma, anzi, mille forme cangianti come le nuvole, in verità lo svolgimento, la storia, li decidono le suggestioni di chi guarda, ipnotizzato da musiche, suoni quantomai mesmerici.
Insomma, una sublimazione che non appartiene alla maggior parte della tendenza teatrale di oggi e molto differente, per capirci, anche da un lavoro appassionato, performativo, fondato sullo scacco perenne dell’homo faber costruttore di effimeri apparati quale quello di Compagnia Laminarie, recentemente recensito qui.
Il fatto è, mi spiega l’artifex Bazzocchi, raggiunto per una chiacchierata, che nel mondo complessivo degli elementi vitali e dunque suscettibili di rappresentazione ed autorappresentazione, il nostro teatro, ormai lungo di storia e sperimentazione certosina, contempla anche le macchine, che ormai hanno una loro evoluzione, proprio in mezzo a noi e che ci affascinano sempre, un po’ come i luoghi dismessi di archeologia industriale, perché sono entità forti anche simbolicamente. Nello stesso tempo, ci affascina l’idea di poter uscire, di avere sempre una via di fuga dai contesti sociali opprimenti.
Dunque siamo molto interessati da sempre anche agli studi antropologici ed etnografici che ci trasportano in un altrove non solo geografico, ma anche mentale e cognitivo.
L’idea della trasformazione è sicuramente alla base del nostro operare da sempre e siamo interessati alle compagnie, agli autori che la praticano.
Certo ci interessa moltissimo il contatto con il pubblico e la sua vicinanza anche emotiva, ma il nostro modo di praticare l’implementazione della consapevolezza dello spettatore, oggi cosi sottolineata anche dalle politiche ministeriali è fatto di sollecitazioni che vengono direttamente dagli apparati che costruiamo e in cui spesso inseriamo piccoli gruppi di spettatori, da visite guidate al nostro spazio, oppure, che so, prendendola apparentemente alla lontana, da cicli di conferenze chez nous, a tema filosofico.
Noi siamo appartati eppure su una coerente grande visione europea ed internazionale, non connotata poi cosi tanto localmente o in senso provinciale, eppure il nostro humus è in una certa capacità propositiva e innovativa legata alla Romagna felix:la nostra personale cosmogonia delle macchine, degli artifici, in fondo è simile a quello che è stata la potenza dell’animale per Raffaello Sanzio. Loro e Valdoca, sono i miei numi tutelari nella fase in cui io, già adulto, già formato in un percorso di saperi scientifici, ho poi deciso di incamminarmi su altri sentieri. Il Teatro, a me che attendevo il venerdì sera con ansia febbrile per poter prescindere da altre occupazioni, è sembrato luogo rifondativo. Studiavo a Bologna e frequentavo l’ambiente, tuttavia non vedevo poi negli spazi cittadini stimoli adeguati alle mie esigenze e dunque i luoghi nativi sono stati ampiamente attrattivi anche con i loro festival, per via della scena che sapevano produrre.
Anche dal punto di vista tecnico-tecnologico, ho dovuto reiventarmi ed imparare a fare, proprio manualmente, in senso letterale, compiendo un viaggio dagli elementi, ai materiali, alla machinery, alla scenografia. Tutto questo comprendi bene si situi da un lato su un crinale di grande concretezza e, dall’altro, in una dimensione visionaria che è tuttavia avulsa da ansie moderniste o dall’esigenza di essere contemporanei o futuribili. Forse la realtà del momento non ci piace cosi tanto, ma non siamo dei daydreamers, piuttosto noi stessi e speriamo possa percepirsi il nostro pubblico cosi, audience che noi preferiamo definire”interlocutori”, abbiamo fatto un passaggio dalla macchina celibe a quella desiderante.
Il Desiderio è il congegno più potente e pervasivo, onnicomprensivo di tempi storici e luoghi geografici senza per questo essere globalizzante.
Mentre chiacchieriamo, reduci dalla visione della conturbante performance di Motus ispirata al ciclo delle Troiane e ospitata come ultima tappa nell’ambito della extended version della stagione festivaliera Crisalide, una delle più resilienti, durature e raffinate rassegne performative della Regione e non solo, vera cifra stlistica e concettuale di Masque, non possiamo fare a meno di ammirare la grazia, la bellezza e l’accoglienza, che emanano dalla sede della Compagnia, in una zona storica e defilata di Forli, quella degli Orti.
Si questo è il nostro Teatro ed è un luogo che vi invitiamo a visitare e che nel tempo abbiamo rigenerato e condotto a nuove avventure. Una antica filanda, una fabbrica manifatturiera, carica di una storia di lavoro e produttività. Questo aspetto di laboriosità ed impegno è quello che più ci sentiamo di aver raccolto e reinterpretato. Ma, sorpresa, il Teatro è titolato a Felix Guattari e certo non è cosa cosi consueta la titolazione ad un filosofo che ci richiama subito ad un’aura di intellettualità e a un certo spirito sovvertitore.
Questo è un ulteriore segnale, un marker, di quel rigore, di quel restare se stessi per dirla secondo i modi di Kate Tempest, che contraddistingue Masque, un modo per stare nell’oggi con tutta l’insoddisfazione e l’impazienza giovani per sempre di chi non smette di cercare e guarda oltre.