Periferico chi? Le stagioni al centro del discorso

di Silvia Napoli /
30 Dicembre 2021 /

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Come ben sapete, ci occupiamo da tempo di andare a verificare di stagione in stagione che cosa si muova nel mondo della proposta teatrale, considerando un vasto raggio possibile d’azione, perché nostra convinzione è che il panorama sia quanto mai ricco e variegato, sovente laddove non te lo aspetteresti.

Bisogna dire che le situazioni di cui andiamo ad occuparci, hanno saputo da tempo caparbiamente ritagliarsi una identità molto precisa al di là della loro collocazione geoterritoriale peculiare. Cominciamo il nostro percorso dai Teatri di Vita in zona Emilia Ponente nel cuore del parco dei Pini e dunque già sappiamo di poterci aspettare un livello molto alto di professionalità e qualità della proposta. La collocazione, nel magnifico parco a Borgo Panigale, già quartiere-distretto industriale bolognese per eccellenza, ci dice che siamo innanzi ad una creazione culturale ed urbana, nel senso largo metropolitano. Nel momento in cui scriviamo, molte cose si stanno nuovamente rapidamente deteriorando in termini di Salute pubblica ed anche le stagioni teatrali tornano ad essere paesaggi incerti e inaspettati dove la parola ‘incognita’, torna ad essere quella che meglio descrive una situazione esistenziale prima ancora che creativa o lavorativa.

Stefano Casi, cofondatore e direttore artistico dei Teatri, nonché studioso e fine osservatore delle cose di Cultura, esordisce subito sottolineando come questa programmazione di spettacoli, che va a chiudere l’anno, un poco per tutti è una sorta di stagione extended version, dal momento che si è ricominciato a fare spettacoli da un punto temporale in cui di solito scemavano le cose più innovative da vedere, situate forse maggiormente nei canonici luoghi di festivals estivi. In qualche modo si è cercato di offrire una continuità ad una comunità affamata di momenti di incontro e confronto e, nel contempo, come molti amici ci hanno spiegato in questi mesi, ed anche ora mi viene ribadito, esiste un problema serio in termini di tenuta del settore, che va favorita con diverse politiche, tema su cui ora non ci dilungheremo. Una di queste è certamente recuperare tutto ciò che non si è potuto fare nei mesi addietro, mantenere l’impegno con tutti gli artisti contattati e i loro lavori opzionati, favorendo anche una logica di repertorio, uscendo in parte da una certa attitudine al nuovismo dominante in tempi recenti. Tempi che sembrano ormai remotissimi, peraltro, nella comune percezione.

La novità sta a questo punto proprio nella innovazione concettuale alla base di tutto, icasticamente esemplificata dal titolo che ammicca nella comunicazione: Fuori, casa. A simboleggiare una dialettica dentro-fuori, che il Teatro, questo magico contenitore di energie e pensieri collettivi in movimento, risolve sempre, indipendentemente dalle contingenze, in una modalità altra, in grado di tenere insieme fedeltà deontologica e flessibilità pragmatica.

Di solito, chiosa Casi, sai che abbiamo sempre avuto i nostri Cuore di qualcosa per definire stagioni tematizzate su qualche filone di esplorazione e ricerca, stavolta dopo essere arrivati in estate al Cuore d’Aria, abbiamo ritenuto giusto sottolineare il valore comunitario del fatto teatrale, che supera qualunque altra questione e specialmente ora.

Certo, queste prime aperture, dosate fino a pochissimo tempo fa, infine a capienza totale, non sono esattamente la cosiddetta normalità. Lo si percepisce in sala, nel clima cauto, nella minore attitudine a cercare sorprese, eterogeneità, smentite, mescolanze tra il pubblico.

Ci si sente forse tutti più orfani bisognosi di conferme e riconoscimenti, che esploratori di territori incogniti. Si sta quasi in punta di piedi, perché tutto potrebbe nuovamente cambiare in fretta.

Ed effettivamente, con le ventilate proposte di tamponi obbligatori per l’ingresso in sala anche ai detentori di super green pass, ora sembra più vicino un nuovo stravolgimento delle consuetudini.

Noi dello staff, oltreché essere vaccinati, ci sottoponiamo regolarmente a tampone rapido ogni due giorni a nostre spese, ma certo non basta questo a restituire serenità e scioltezza alla situazione.

Se abbiamo rinunciato ad un focus definito, per scrivere questa stagione, tuttavia i filoni non mancano e sono ad esempio, l’attenzione comunque al panorama estero, l’insistere su una sezione vocata alla stand up comedy che tanto piace ai più giovani, il legame con il premio Scenario, la nuova drammaturgia, con il tornare sulla poetica di una autrice sensibile e ispirata quale Lucia Calamaro, la danza. Naturalmente ci sono poi le articolazioni della stagione che stanno a significare brunch domenicali con programmazioni cinematografiche fino a Dicembre ed in seguito teatrali, corsi e laboratori. Certo, se dovessi indicare un campo largo d’azione unificante, lo troverei nell’attenzione al discorso di genere, o meglio ai discorsi sui generi…sui generis. Meglio ancora, direi che considerando il Teatro un luogo per eccellenza di relazioni, noi eleggiamo la complessità e fluidità relazionale a ispirazione guida del nostro programmare.

Certamente oggi questa è una questione politica, perché caduti i grandi discorsi ideologici ora ci appare evidente e specie dopo questa vicenda pandemica, quanto il terreno di scontro siano i corpi e le connessioni o divergenze che si vengono a creare tra questi. Il conflitto viene agito nei termini più vicini al nucleo vitale personale di ciascuno di noi e la scelta di una drammaturga come Calamaro, capace di andare cosi a fondo delle intime contraddizioni familiari è già abbastanza parlante di per sé.

Rifletto sul fatto rilevato diverse volte qui, di quanto il Teatro sia oggi arengo politico a tutti gli effetti, forse proprio perché riesce a sorvolare l’angusto match opinioni stico e il basso mercanteggiare che la pratica politica sembra diventata, per andare a planare su quei giochi di ruolo e rispecchiamento e rovesciamento che tanti grandi autori da Sade in avanti almeno, hanno segnalato come potenzialmente sovvertitori.

Sta di fatto comunque, che il Covid continua a colpire duro, tanto da dover cancellare la data prevista del primo dei tre spettacoli stranieri previsti dal cartellone, il lavoro di una compagnia di danza dal Marocco, tra i paesi maggiormente celeri a prendere drastici provvedimenti di chiusura frontiere ai primi segnali di recrudescenza epidemica.

Ma andiamo con ordine. Gli spettacoli nostrani sono dieci, in cartellone tra la seconda metà di ottobre ed Aprile. Ha aperto infatti il Kismet da Bari, con un testo particolarmente calzante per le giornate della lotta alla violenza contro le Donne, ”il bacio della vedova” di Israel Horowitz. Si è proseguito con la Piccola Compagnia della Magnolia che ha portato in scena la Butterfly secondo la distopica visione di Cronemberg, eppoi con la Compagnia Akroama, appena vista con le sognanti atmosfere dal marinaio di Pessoa. Alla fine di Gennaio, appunto, ci si prepara per il nuovo attesissimo progetto di Calamaro, dal curioso titolo Darwin inconsolabile. Prima pero di ricordarvi spettacoli su cui torneremo quali il Geppetto e Geppetto di Tindaro Granata o Piccola patria di Compagnia Capotrave, o ancora la presentazione dei lavori compiuti da parte dei vincitori di Premio Scenario di quest’anno, merita spendere due parole sulla ultima fatica targata Adriatico, questa originalissima piece da Jo Clifford dal titolo Eve, ovvero una sorta di vertiginosa indagine sul mito più chiacchierato e declinato di tutti i tempi, quella gigantesca narrazione, data qui come colossale fake, della creazione dell’umanità, che mette la Donna al centro giustificativo di una civiltà fondata su religione e cultura patriarcali. Un equivalente di imbroglio mediatico comunicativo, a giudizio degli autori, che lascia intendere un giudizio assai poco lusinghiero sui concetti e precetti morali cristiani.

Diverse le curiosità di questo lavoro che presenta un’Eva a molte facce che sono rispetto agli interpreti, anche l’incarnazione di una lunga storia dell’entourage di attori intorno ad Adriatico. Quindi Patrizia Bernardi ed Eva Robin’s, tra le più storiche interpreti, Saverio Peschechera, Anas e infine una notissima drag queen newyorchese Julie J. Sicuramente uno spettacolo irriverente, che farà discutere e che impronta con la sua locandina in accesi cromatismi golosi tutta una stagione variegata e irrequieta, in cui non ci si fa mancare niente, compreso un concerto rock dei britannici Tiger Lillies ed un docu dal docu, dopo gli Anni amari, il film di grande successo sulla vita di Mario Mieli. Si tratta de la Faraona, come lo stesso Mieli si appellava, un composito lavoro nato dalla intelligente collazione di tutti quei reperti audio e video originali, anche assai rari e poco conosciuti che Adriatico ha visionato per la fase di studio e preparazione del biopic di grande successo. Successo meritatissimo e tuttavia quasi inaspettato per via del difficilissimo momento in cui gli Anni amari è stato realizzato e in seguito distribuito e visto, non passando certo inosservato.

Avventurose sono state finora le vicende di Eve, che scelto di debuttare fuori dai Teatri, per poi approdarci in Febbraio, ha visto la compagnia partire per Berlino, in un momento in cui sulla stampa e i media in generale si accavallavano drammatiche notizie sui picchi di contagio in Germania, dove comunque tutti teatri continuavano ad essere aperti senza particolari restrizioni o forme di controllo. Una permanenza che potremmo dunque definire eroica e che molto ci racconta sia della popolarità dei nostri artisti in Europa che della forma mentale epica che in qualche modo li contraddistingue.

Siamo dunque pronti, a questo punto del nostro resoconto, non tanto per provocazioni, come verrebbe facile da dirsi stante il gran chiacchiericcio anche teatrale nutrito di contemporanee banalità,quanto per nuove sfide territoriali e contenutistiche e quindi per Dom, Cupola del Pilastro, ai capi opposti del nostro periferico ì vagabondare? Del doman non v’è certezza, sembrerebbe essere lo slogan –mantra ispiratore, di questo spazio che più correlato di cosi alla pur giovane storia del quartiere non si potrebbe e nello stesso persegue con rigore certosino una sua linea di ricerca e ricercatezza, fuori dalle facili retoriche di un certo teatro sociale pensato per i suburbia.. Mai prescindere dunque, da un dato di realtà, che qui si coltiva nel tempo, attivando archivi e memorie di comunità e nello stesso tempo, essere capaci di volare alto senza badare alle facili targetizzazioni che affliggono tanta politica culturale.

Rilanciare sempre, sembra essere l’implicito slogan ispiratore di tutta la Compagnia Laminarie, che in gestione di convenzione, conduce da tempo lo spazio DOM, già centro sportivo,ed ora in fondo luogo vissuto in gara con se stessi e con un contemporaneo estraneo e straniante, come ben testimonia l’ultimo sorprendente e riuscitissimo lavoro di Febo Del Zozzo, che rilegge in termini anacronistici e risemantizzati il tema-mito del titanismo nel quotidiano. E dunque, implicitamente, rilegge e rilancia anche il discorso sull’urbanistica in funzione culturale, sposta in avanti il tema del nesso teatro-società-funzione sociale, oggi in discussione e forse ridefinizione a Bologna.

Un tema ancora più pregnante oggi in tempi di aperta difficoltà e messa in crisi degli spettacoli dal vivo, anzi, di tutte le forme associative in presenza, proprio quando il discorso pubblico critico e non aprioristico, si esercita soprattutto esattamente in queste situazioni. A mio avviso,oggi che tutti ci scopriamo più vulnerabili, più esposti e fragili, pauperizzati e deprivati, senza luoghi di elaborazione del lutto collettivi, si rende opportuno forse ripensare i cosiddetti teatri sociali fuori dalle categorizzazioni :siamo un campo largo di soggetti a rischio necessitanti di zone di compensazione per la narrazione e il pensiero e se non vogliamo trovarci più soli e polarizzati che mai senza peraltro avere sponde o approdi, dobbiamo disegnare nuove geografie e traiettorie comuni. Laminarie lavora con coerenza e senza cercare facili consensi, da tempo su questo, sperimentando la tangenza di linguaggi e cercando con coerenza l’incontro con pubblici e allo stesso modo, specialisti diversi. Essere popolari e non populisti sembra relativamente un fatto semplice e naturale qui al Pilastro, persino,o, soprattutto di fronte ad oggetti, spiazzanti e indefinibili come, è il caso di dirlo, l’ultima fatica a firma di Febo. Lavoro dal titolo già abbastanza anomalo per una cosa teatrale:- Invettiva inopportuna-, evidentemente nato dalla collaborazione con lo scrittore e critico letterario(ebbene si, ne esistono ancora e vengono segnalati come specie in via di estinzione sulla stampa nazionale), Matteo Marchesini che imprime una svolta di senso particolare a tutta la performance, che dunque può essere riletta a ritroso a partire dalla tranche finale “parlata”.

Invettiva così, si presenta da un lato come il miglior biglietto da visita dell’artista Febo, di formazione visivo-performativa, che da sempre combina il massimo di elementi di astrazione con la fisicità dell’opera fatta in scena qui ed ora, dall’altro come l’insinuazione di una crepa, di una contraddizione. Il rigore di due talenti accomunati da una mancanza di indulgenza e compiacimento, fa si che proprio attraverso questa debolezza, il performer diventi compiutamente se stesso in quanto tale. Lo spettacolo affascina e colpisce anche per essere qualcosa di molto diverso dalla gran parte di quanto si vede in scena oggi nelle più svariate declinazioni di ricerca, che siano le più tecnologicamente contaminate o le più spoglie, scarne e discorsive, minimal monologanti. Invettiva inopportuna, forse, ma anche un po’ provvidenziale, nel suo apparente rifiuto del piano linear- narrativo, nel suo ridefinire il limen e l’intreccio tra piano visivo e piano sonoro. Quello che noi vediamo è una stilizzazione umana tra l’operaio e Diabolik o l’artista sovversivo in incognito, completamento mascherato completamente in volto da una cagoule,molto attuale visti i tempi, che si destreggia, a partire da un fascio di luce rivelatore, in una selva di corde tese da schivare, tirare, mettere a punto, sorta di nocchiero metafisico, ma anche alieno disceso da una visione di Bowie o un primitivo futuribile di Kubrik, a seconda della libera interpretazione di chi guarda. Ed è palese un riferimento comunque mitopoietico: per i più inclini all’aspetto scenografico,sarà legato certo ad un immaginario orientale,suggerito dalla implicita coreografia delle corde che si pongono come foresta inestricabile per il guerriero,per i più vicini ai riferimenti teatrali saranno le allusioni macbethiane a risaltare, per i più concettuali, si starà sospesi tra Sisifo, quando poi le corde verranno disfatte e fatte crollare, forse pronte per una eterna ricostruzione, ed Ulisse, che perde il suo vascello e la sua sete di esperienza per arroganza conoscitiva.

Come che sia, ciascuno, troverà il suo stare, invaso e pervaso da una copertura sonora che non fa da tappeto come di solito, ma da ambiente e dunque delimitazione spazio-cognitiva, a tratti assordante e disorientante, in altri momenti ossessiva nenia elettronica incredibilmente sincrona con i diversi tagli di luce che sottolineano scena e movimento. L’esibizione, chiamiamola cosi, del nostro incognito performer, si delinea come sfida quasi circense, poiché comprendiamo, che un suo farsi largo alla cieca che fosse men che millimetrico, tra un fascio di corde- bambu e l’altro, comporterebbe un collasso irreparabile dell’intera architettura. Per questo, guardare, non è infine il termine più confacente per descrivere il tipo di partecipazione richiesta ad un pubblico che infine aderisce col fiato sospeso a questa ipnotica situazione che solo un disastro potrebbe modificare.

Ed infine, la catastrofe temuta e rimandata arriva, quando lo stesso artefice, disfa impietosamente la costruzione effimera, forse insensata e, ponendosi stanco, sudato e affranto, al centro del proscenio, si scopre capo e volto, ripone gli attrezzi e dalle tasche cargo estrae un foglietto, che recita la sua umana, troppo umana disfatta, di quando arriva quel momento in cui ci si stanca di tutto e si va incontro all’oltre dopo il fallimento e si proclama il proprio nichilismo. In effetti siamo un passo oltre Beckett e oltre qualsiasi forma di ironia come forma di parziale negazione dello scacco o sconfitta della morte o strizzatina d’occhi al pubblico. Una combo riuscitatra azione concreta e assolutizzazione della medesima è la forza di un lavoro che il pubblico mostra di apprezzare e che riesce a coinvolgere i persino i refrattari giovanissimi che scelgono invettiva inopportuna con il passaparola.

In effetti, mi dicono i membri di Laminarie, in margine alle poche, per forza di cose, rappresentazioni tutte sold out, si tratta di una performance passibile di molteplici stratificazioni interpretative. I più anziani, diciamo o comunque più avvezzi a frequentazioni culturali, fanno a gara a scovare rimandi, suggestioni, frammenti da diversi immaginari, mentre per i ragazzi è stupefacente vedere dal vivo un’azione tanto complessa e sudata e difficoltosa destinata ad un programmatico fallimento. Vedere un uomo, per quanto addestrato tuttavia non certo supereroe, segnato dalla vita fare sforzi reali, cercare di dominare la materia eppoi anche accettare decadimento e resa. Quanto di più lontano dalla loro esperienza in bilico perenne tra reale e virtuale su dispositivi che non amplificano la percezione, ma semplicemente la falsano.

Quo, volutamente l’effetto è psichedelico in qualche modo per ampliare una percezione coinvolgente, che chiama in causa anche chi non fa apparentemente nulla. Invece lo spettatore è essenziale più che mai nel costruire una condizione che passa dal dominio sulla materia, alla estrema vulnerabilità. Questo lavoro tra lunghi pensamenti, prove e infinite discussioni con Marchesini, tra un lockdown e l’altro, ha subito se fai caso, trasformazioni. Mostrato, tu stessa lo hai visto in quel contesto, per la prima volta come anteprima in piena estate, aveva caratteristiche più prometeiche, se vuoi violente, da parte dell’uomo protagonista, soggetto ed oggetto al contempo del suo destino e che con decisione, buttava giù contemporaneamente e con fragore tutte le corde. Infine siamo invece approdati ad una più metodica disfatta, ad atmosfera incalzante ma rarefatta, in cui anche l’invettiva finale non esce come sorta di sparo o provocazione al pubblico, ma come più consapevole, se non rassegnata, ammissione di resa

L’effetto finale è più meditativo e ci è parso in linea con quello che cerchiamo di fare qui ogni giorno, coltivando pensieri, tessendo reti molto complesse con le realtà del Quartiere culturali e formative in senso più canonico, ma non solo. Non ci interessano le conventicole e lavorando in un quartiere di frontiera, non potrebbe essere altrimenti: non esiste un pubblico, ma i pubblici. Abbiamo esplorato in prima battuta, negli incontri di accompagnamento allo spettacolo, che poi sono quasi sempre preview o chiose ai numeri di approfondimento della rivista Ampio raggio, dapprima gli aspetti che più marcatamente legano questo lavoro ad un certo tipo di visione o discorso che ha permesso una partnership con Mambo e prodotto una installazione che è stata anche ospitata nel Foyer di Arena del Sole, dal titolo è tutto qui, come l’epitaffio finale dello spettacolo recita. In questa ultima tranche di presentazione, invece abbiamo scelto di discutere con progettisti ed urbanisti sul tema dello spazio pubblico, quanto conta dove e come può essere in una società dominata dal culto del privato e, aggiungo io, anche al nascondimento della fatica cosi evidenziata invece dallo spettacolo. Si, in effetti, è anche una performance sullo sforzo e sulla persistenza, due categorie di cui non si vuole mai prendere atto in società che si piccano di essere smart e fluide. Qui anche la tecnologia è molto umana perché costruita in maniera quasi domestica da Febo mixando spezzoni di brani decostruiti nelle velocità.

Come avrete compreso leggendo, due opposte periferie possono venire accomunate in un articolo non tanto per corrispondenze intrinseche o per similarità di proposte culturali o cartellonistiche, ma proprio per il discorso sui pubblici da cui siamo partiti e su cui torniamo infine: perché il farsi nel tempo di pubblici affezionati nei Quartieri, significa non bypassare, ma allargare il pubblico degli addetti ai lavori, degli habitué, e soprattutto un moltiplicarsi di punti di vista, scegliendo un taglio e una impostazione precisi, fuori almeno in parte dalle logiche del passare in rassegna.

In entrambi i casi si tratterà di stare a vedere, stante il prospettarsi ancora una volta di un momento non facile per il mondo della Cultura in genere, il più prezioso e nello stesso tempo fragile, per il mantenersi di una coscienza comunitaria in questa lunga, interminabile nottata pandemica.

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